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José Saramago - Manuale di pittura e calligrafia

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José Saramago - Manuale di pittura e calligrafia



Nota editoriale

È il romanzo di una crisi, di una presa di coscienza di un artista che si definisce solo con l’iniziale H. e si conclude nello stesso giorno in cui il regime fascista portoghese crollò, il 25 aprile 1974. H. narra di sé, pittore mediocre che vivacchia grazie ai ritratti di gente altolocata, e della sua ribellione alla finzione del mondo. Mentre lavora al ritratto di S., Amministratore delegato della SPQR, decide di dipingere un secondo quadro che sveli il vero volto del vacuo S. Fallito questo tentativo, deciderà di scrivere un diario stravolgendo la propria vita perché l’arte esige sincerità.

Recensione di Gianpaolo Mazza

Quando H, un mediocre pittore che vivacchia grazie ai ritratti di gente altolocata, dolorosamente cosciente dei propri limiti artistici, accetta di ritrarre S., l’agiato amministratore della società “Spqr”, non sospetta che quella commissione finirà per diventare una sorta di viaggio alla ricerca di sé, una ribellione alla finzione del mondo, un’odissea dentro un tormentato universo dove la verità e la menzogna, la realtà e l’apparenza, la rappresentazione e la percezione sembrano sovrapporsi di continuo, giungendo inevitabilmente a determinare le scelte dell’individuo e il suo destino. Affidando alle pagine di un ipotetico diario descrizioni, eventi, interrogativi e riflessioni intorno al proprio essere, alla maniera di Tonio Kroger, H. racconta di un’esistenza sempre in bilico tra furori creativi e trantran quotidiano, tra veementi speranze e repentine sfiducie: i sentimenti, le idee politiche, le amicizie, le frequentazioni artistiche e culturali, i ricordi e i viaggi divengono allora gli strumenti per indagare quel “tempo pastoso, denso e oscuro in cui nuotiamo con difficoltà, sotto un chiarore indefinito che lentamente si va spegnendo, come un giorno che, dopo aver albeggiato, finisce per rientrare nella notte da cui è uscito”. Ne risulta un romanzo d’impianto autobiografico nel quale Josè Saramago affronta, con la sua inconfondibile prosa dove si combinano invenzione linguistica e tradizione popolare, riferimenti dotti e realismo colloquiale, quella “discesa agli inferi” che lo scrittore deve obbligatoriamente compiere per appuntare il proprio nome nelle storie della letteratura, per poter raccontare al lettore l’”arcano mondo che balugina oltre il visibile”.

È quindi un romanzo di una “crisi”, della presa di coscienza di un artista che si conclude nello stesso giorno in cui crolla il regime fascista portoghese di Salazar, il 25 aprile 1974. Un’opera che esita tra finzione e verità, tra la rappresentazione del mondo e dell’uomo (il pittore che scrive i fatti della sua vita) e la produzione di un mondo specifico che è quello dell’arte (creazione dell’opera, riflessione su questa creazione e sul linguaggio che la veicola). Una sorta di autoritratto, che ci dà la misura dell’incontro con se stesso proprio attraverso la frequentazione degli altri mediante la scrittura. Se all’inizio si aveva un doppio non coincidente (pittura/scrittura), alla fine v’è una duplicità coincidente, l’incontro perfetto dell’altro e di se stesso. La calligrafia del titolo (che, se vogliamo, è la nozione accademica e pittorica di scrittura, scrittura d’immagine) si giustifica con l’indicazione di “manuale” (la mano che si ferma ed insiste, nella pittura, la mano che si muove e va avanti, nella scrittura). Con “Manuale di pittura e calligrafia” Saramago fa la sua prima discreta entrata sulla scena letteraria, un’entrata che diverrà irruzione, trionfale e folgorante. Con una ricerca del romanzo come genere narrativo paradigmatico, egli elabora un’opera che di questo paradigma assume ciò che v’è di fondamentale, ma dove il fondamentale si trasfigura grazie all’accumulo dell’esperienza precedente, intensa e diversa: ne risulta una proposta di orditura finzionale specifica, singolare, un’invenzione che immediatamente seduce e trascina.

Manuale di pittura e di calligrafia

On revient de loin. La formation bourgeoise,

L’orgueil intellectuel.

La nécessité de se reviser à tout moment.

Les liens qui subsistent.

La sentiment elité..

L’empoisonemment de la culture orientée.

Paul VaillantCoutourier

Continuerò a dipingere il secondo quadro, ma so che non lo finirò mai. Il tentativo è fallito e non c’è miglior prova di questa sconfitta, o fallimento, o impossibilità, del foglio di carta su cui mi accingo a scrivere: un giorno, prima o poi, mi volgerò dal primo quadro al secondo e infine a questo testo, o salterò la tappa intermedia, o troncherò la frase per correre a dare una pennellata sulla tela del ritratto che S. mi ha ordinato, o forse su quell’altro, parallelo, che S. non vedrà. Quel giorno non saprò niente di più di quanto non sappia oggi. (che i ritratti sono entrambi inutili), ma potrò decidere se sia valsa la pena di farmi tentare da una forma di espressione che non mi appartiene, anche se proprio questa tentazione significa, in fin dei conti, che non era mia, in fondo, neppure la forma di espressione che ho finito per usare, per impiegare così meticolosamente, quasi obbedissi alle regole di un manuale. Non voglio pensare, adesso, a che cosa farò se pure questa mia scrittura sarà un fallimento, se, da allora in poi, le tele bianche e le pagine bianche saranno per me un mondo in orbita a milioni di anniluce dove io non potrò vergare neppure il minimo segno. Se, dunque, sarà un atto di disonestà il semplice gesto di prendere un pennello o una matita, se una volta ancora, insomma (la prima non c’è mai stata veramente), sarò costretto a ricusarmi il diritto di comunicare o di comunicarmi, perché avrò tentato e fallito, e altre opportunità non ce ne saranno.

Mi apprezzano come pittore i miei clienti. Nessun altro. Dicevano i critici (quando parlavano di me, per poco e tanti anni fa) che sono in ritardo di mezzo secolo almeno, il che, a rigore, significa che mi ritrovo in quello stato larvale che va dal concepimento alla nascita: una fragile, precaria ipotesi umana, un acido, ironico interrogativo su cosa farò nella vita. “Che deve ancora nascere”. A volte mi sono soffermato a riflettere su questa condizione che, generalmente transitoria per gli altri, in me si è fatta definitiva e vi noto, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, un che di stimolante, sia pure doloroso ma piacevole, come la lama di un coltello che si sfiora prudentemente, mentre la vertigine di una sfida ci fa premere la polpa viva delle dita sulla certezza del taglio. È quel che sento (o in maniera confusa, senza lame né polpe vive) quando comincio un nuovo quadro: la tela bianca, levigata, senza alcuna base, è il certificato di nascita da compilare su cui io (amanuense di un’anagrafe senza archivi) credo di poter scrivere dati nuovi e generalità diverse che mi sottraggano, definitivamente, o almeno per un’ora, a questa incongruenza di non nascere. Intingo il pennello e lo avvicino alla tela, diviso fra la certezza delle regole apprese nel manuale e l’esitazione di cosa sceglierò per esistere. Poi, decisamente confuso, saldamente legato alla condizione di essere quello che sono (non essendolo) da tanti anni, lascio andare la prima pennellata e proprio in quell’istante mi ritrovo lì, dichiarato davanti ai miei occhi. Come nel celebre disegno di Bruegel (Pieter), compare alle mie spalle un profilo tagliato con l’accetta e sento la voce dirmi, una volta di più), che io non sono ancora nato. A ben pensare, sono così onesto da non aver bisogno delle voci di critici, esperti e conoscitori. Mentre trasferisco meticolosamente le proporzioni del modello sulla tela, sento dentro di me un mormorio insistente a ricordarmi che la pittura non è affatto quella che faccio io. Mentre cambio il pennello e indietreggio di quei due passi che mi permettono di inquadrare meglio e di chiarire quell’intrico che sempre rappresenta un viso “da ritrarre”, rispondo silenziosamente: “Lo so”, e continuo a ricreare un azzurro che ci vuole, una terra, un bianco che farà le veci della luce che non potrò mai captare. Lo faccio senza alcun diletto, perché rientra nelle regole, protetto dall’indifferenza che la critica ha finito per creare intorno a me come un cordone sanitario e, insieme, protetto dall’oblio in cui a poco a poco sono scivolato, ma anche perché so bene che il quadro non finirà mai in nessuna mostra né galleria. Passerà direttamente dal cavalletto alle mani dell’acquirente, perché il mio sistema è questo, giocare sul sicuro, in moneta contante. Di lavoro, ne ho d’avanzo. Faccio ritratti per tutti quelli che si stimano abbastanza da ordinarli e appenderli nei vari ingressi, studi, soggiorni e sale di consiglio. Ne garantisco la durata, non garantisco invece l’arte, e del resto loro non me la chiedono, anche se io potessi darla. Una somiglianza appena migliorata è il massimo cui arrivano. E visto che su questo punto possiamo anche concordare, nessuna delusione per nessuno. Ma quella che faccio io non è pittura.

Malgrado le carenze or ora confessate, ho sempre saputo che il ritratto giusto non è mai stato il ritratto fatto. E non basta: ho sempre creduto di sapere (sintomo secondario di schizofrenia) come avrei dovuto dipingere il ritratto giusto, e sempre mi sono costretto a tacere (oppure ho creduto di costringermi a tacere, illudendomi così e rendendomi complice) davanti al modello inerme che mi si affidava, timido, o, al contrario, falsamente disinvolto, con l’unica certezza del denaro con cui mi avrebbe pagato, ma ridicolmente spaventato dinanzi alle forze invisibili che pian piano si susseguivano fra la superficie della tela e i miei occhi. Solo io sapevo che il quadro era già pronto ancor prima di una qualunque seduta di posa e che tutto il mio lavoro si riduceva a mascherare ciò che non si poteva mostrare. Quanto agli occhi, erano ciechi. Spaventati e ridicoli lo sono sempre, il pittore e il suo modello, davanti alla tela bianca, l’uno perché ha timore di vedersi lì denunciato, l’altro perché sa che non sarà mai capace di fare quella denuncia o, peggio, ripetendosi, con la sufficienza del demiurgo castrato che si dichiara virile, che solo per indifferenza o per pietà del suo modello non la farà.

Certe volte, penso e mi convinco di essere l’unico pittore di ritratti rimasto, e che dopo di me non si perderà più tempo in pose affaticanti, a ricercare somiglianze che sfuggono in continuazione, quando in fin dei conti la fotografia, adesso divenuta arte a opera di filtri ed emulsioni, sembra ben più capace di piegare l’epidermide e mostrare il primo strato intimo dell’individuo. Mi diverto al pensiero di coltivare un’arte morta, grazie alla quale, per la mia fallibilità, la gente crede di fissare una certa immagine piacevole di se stessa, un’immagine basata su rapporti fissi, dotata di un’eternità che non comincia quando il ritratto si conclude, ma viene da prima, da sempre, come qualcosa che è sempre esistita solo perché esiste adesso, un’eternità che è contata nel senso dello zero. In realtà, se chi è ritratto potesse, o sapesse, o volesse analizzare lo spessore pastoso, informe, dei pensieri e delle emozioni che lo animano, e dopo averlo analizzato trovasse le parole in grado di rendere fluenti e chiari questi pensieri e queste azioni, sapremmo che, per lui, quel suo ritratto è come se fosse esistito sempre, un altro lui più fedele del “lui di ieri”, perché quest’ultimo non è piú visibile, mentre il ritratto sì. Non è raro, perciò, che il modello si preoccupi di assomigliare al ritratto, qualora vi sia stato colto l’attimo in cui l’essere umano si elogia e si accetta. Vive il pittore per cogliere quell’attimo, vive il modello per l’istante che sarà poi il pilastro personale e unico dei due rami di un’eternità che scorre all’infinito e che, talvolta, l’umana follia (Erasmo) crede di poter indicare in un minuscolo nodo, un’escrescenza capace di scalfire quel dito gigantesco con cui il tempo cancella tutte le vestigia. I ritratti migliori, lo ripeto, ci danno l’impressione di essere sempre esistiti, anche se il buonsenso mi dice, come sta facendo adesso, che L’uomo dagli occhi grigi (Tiziano) sia imprescindibile da quel Tiziano che l’ha dipinto in un momento della sua vita personale. Perché se qualcosa è partecipe dell’eternità in quest’istante, non è il pittore, ma il quadro.

Mal gliene incoglie al pittore o, per dirla con più rigore, peggio per il pittore se, dovendo dipingere un ritratto, scopre che tutto quanto ha tracciato sulla tela è solo colore anarchico e disegno folle, e che l’insieme delle macchie riproduce del modello solo una somiglianza di cui quest’ultimo è soddisfatto, ma non lo è il pittore. Credo che capiti nella maggior parte dei casi, ma visto che la somiglianza adula e giustifica il pagamento, il modello si porta a casa quella sua immagine ipoteticamente ideale e il pittore tira un sospiro di sollievo, finalmente libero da quello spettro ironico che stava consumandogli le notti e i giorni. Quando il quadro ormai pronto gli rimane lì, è come se ruotasse sul proprio asse verticale e fissasse il pittore con occhi accusatori: lo si potrebbe dire un fantasma, se già non fosse stato detto che è uno spettro. In genere il pittore, se del mestiere ne sa abbastanza, si accorge di aver imboccato la strada sbagliata fin dal primo abbozzo. Ma sarebbe una gran fatica spiegare al modello l’errore, tanto più che il modello si piace quasi sempre fin dall’inizio, per timore che, altrimenti, un’altra versione potrebbe mostrarlo in una luce meno favorevole o, al contrario, metterlo a nudo fin nell’intimo, rovesciarlo come un calzino (movimento che più di tutti teme), e perciò il ritratto prosegue per la sua strada, sempre meno necessario. È come se (lo si è già detto con altre parole) si stabilisse fra il pittore e il suo modello una complicità per distruggere il ritratto: con gli stivali calzati al contrario, la punta rivolta al calcagno, si guarda il percorso che, dalle tracce lasciate per terra, e cioè sulla tela, sembra un’avanzata, ma è solo un regresso, lo sbando di una sconfitta ricercata e accettata dai due combattenti. La morte, quando cancellerà dal mondo il pittore e il modello, l’incendio, se per un caso fortunato ridurrà in cenere quel ritratto, cancelleranno una menzogna e lasceranno posto ad altri tentativi e, insieme, ‘a un nuovo balletto, al nuovo pas de deux che altri, inevitabilmente, riprenderanno.

Sapevo anche, nell’intraprendere il ritratto di S., che i miei conteggi (un quadro, secondo il mio modo di vedere, è anche un’operazione aritmetica di divisione, la quarta e più acrobatica operazione) erano sbagliati. L’ho saputo ancor prima di mettere il primo tratto sulla tela. Eppure non ho modificato niente, né sono ritornato sui miei passi, ho accettato che le punte si rivolgessero a nord mentre io mi lasciavo trascinare verso sud, verso il Mar dei Sargassi, verso la perdizione delle navi, verso l’appuntamento con l’Olandese Volante. Ma, insieme, mi sono accorto immediatamente che il modello, stavolta, non si era lasciato ingannare, o sarebbe stato disposto a farsi ingannare purché mi rendessi conto chiaramente della sua intenzione e accettassi, proprio per ciò, di umiliarmi. Un ritratto che avrebbe dovuto avere una certa solennità contingente, quella che si aspetta dagli occhi non più che uno sguardo e poi la cecità, ha finito per essere segnato (in questo preciso istante) da una piega ironica che io non ho dipinto in nessun punto del viso di S., che forse non esiste neppure sul viso di S., ma che deforma la tela, come se qualcuno la stesse torcendo, simultaneamente, in due direzioni diverse, come le immagini riflesse dagli specchi irregolari o difettosi. Quando osservo il quadro in solitudine, mi rivedo bambino dietro i vetri di una delle tante case in cui ho vissuto, e rivedo le bollicine ellittiche dei vetri di cattiva qualità di quelle case, o quell’aspetto da capezzolo impubere che talora prende il vetro, e, al di là, un mondo distorto, in fuga sulla verticale appena spostavo lo sguardo da una parte o dall’altra. Il ritratto, la tela, tesi sul cavalletto, mi oscillano davanti agli occhi e continuano a vacillare, sfuggenti, ma sono io a sviare lo sguardo, vinto, non certo il dipinto che si offre alla comprensione.

Non mi ripeto che il lavoro non è perduto, come ho fatto altre volte per continuare a dipingere anestetizzato ed estraneo. Il ritratto è ben lungi dall’essere finito quando voglio io, o tanto vicino quanto decida io. Due pennellate e sarebbe concluso, duemila non basterebbero per quanto tempo mi serve. Fino a ieri pensavo ancora che mi potessero bastare i giorni necessari per concludere il secondo ritratto, e credevo che l’uno e l’altro li avrei finiti lo stesso giorno: S. avrebbe preso il primo e lasciato il secondo, che sarebbe rimasto a me, attestato di una vittoria di cui avrei saputo solo io, ma che sarebbe stata la mia rivalsa contro la piega ironica che S. avrebbe appeso alle sue pareti. Ma oggi, proprio perché son qui seduto davanti a questo foglio, so che le mie fatiche sono appena all’inizio. I due ritratti li ho lì, su due cavalletti diversi, ciascuno nella sua stanza, il primo naturalmente in mostra per chi entra, chiuso il secondo nel segreto del mio tentativo anch’esso frustrato, e questi fogli di carta sono un altro tentativo, cui mi avvicino a mani nude, senza colori né pennelli, solo con la mia calligrafia, con questo filo nero che si arrotola e si srotola, che poi rallenta tra punti e virgole, che prende fiato in qualche piccola radura bianca per avanzare poi sinuoso, come se percorresse il labirinto di Creta o le budella di S. (Interessante: quest’ultimo paragone è sorto senza che me lo aspettassi o lo provocassi. Mentre il primo era solo una banale reminiscenza classica, il secondo, proprio perché insolito, mi dà un po’ di speranza: in realtà, non significherebbe granché se dicessi che tento di esaminare lo spirito, l’anima, il cuore, il cervello di S. Le budella sono un altro tipo di segreto). E come già detto nella prima pagina, mi sposterò da una stanza all’altra, da un cavalletto all’altro, ma finirò sempre qui, su questo tavolinetto, sotto questa luce, alle prese con questa calligrafia, con questo filo che continuamente si spezza sotto la penna e che, comunque, è la mia unica possibilità di salvezza e di conoscenza.

Che cosa c’entra, qui, la parola “salvezza”? Niente di più retorico a questo punto e in questa circostanza, e io che detesto la retorica, sebbene ne faccia una professione, perché non c’è ritratto che non sia retorico. “Retorica Inno dei significatili: tutto quello di cui ci serviamo nel discorso per produrre un effetto favorevole sul pubblico, per persuadere gli ascoltatori”. Va un po’ meglio con la “conoscenza”, perché desiderarla, lottare per la conoscenza, infonde sempre un po’ di rispetto, persino nel caso in cui si sappia quanto facilmente si possa scivolare da questa sincerità a una pedanteria insopportabile: non si sa quante volte la conoscenza si trincera dietro i bastioni dell’ignoranza e del disprezzo della conoscenza. Tutto sta nell’usare la parola senza badarvi o badandovi troppo, perché il semplice intreccio dei suoni che la ripetono prenda il posto, lo spazio (in un semplice vuoto esplosivo dell’atmosfera in cui la parola si annida e si mescola) di ciò che dovrebbe essere, se realmente capito e realizzato, un lavoro che tutto il resto escluderebbe. Mi sarò fatto capire, adesso? Avrò capito, io? La conoscenza è l’atto di conoscere: ecco la definizione più semplice, e deve bastarmi, perché ho bisogno di semplificare tutto per andare avanti. Di conoscere, in senso stretto, non è mai stata questione nei ritratti che avevo da dipingere. Ho già parlato abbastanza della moneta falsa del mio cambio, e non aggiungo altro. Ma se stavolta non sono riuscito a limitarmi a imbrattare la tela secondo i desideri e il denaro del cliente, se per la prima volta ho cominciato a dipingere di nascosto un secondo ritratto di quello stesso modello, e se, anche qui per la prima volta, mi ritrovo a ripetere, o a tentarlo, scrivendo, un ritratto che mi è sfuggito decisamente con la tecnica della pittura, il motivo è la conoscenza. Quando ho vergato il primo tratto sulla tela, avrei dovuto posare il pennello e, con tutte le scuse di cui potevo avvalermi, accompagnare S. alla porta d’ingresso, fermarmi lì a guardarlo mentre scendeva, tranquillo, o facendo un respiro profondo per recuperare la calma, con il sollievo meravigliato di chi è scampato a un grande pericolo. Non ci sarebbe stato nessun secondo ritratto, non avrei comprato questi fogli, adesso non mi ritroverei a destreggiarmi così male fra le parole, più dure dei pennelli, più uguali nel colore dei dipinti che, là dentro, rifiutano di asciugarsi. Non sarei quest’uomo triplo che per la terza volta tenterà di esprimere ciò che non è riuscito a dire per ben due volte.

Proprio così: ho fallito col primo ritratto e non mi sono rassegnato. Se S. mi sfuggiva, o io non riuscivo a coglierlo e lui ne era consapevole, la soluzione poteva essere nel secondo ritratto, dipinto in sua assenza. Ci ho provato. Il modello è divenuto così il primo ritratto e l’invisibile che inseguivo. Non poteva bastarmi la somiglianza, e neppure lo scavo psicologico alla portata di un qualsiasi apprendista e che si basa su precetti banali come quelli che danno forma al più) naturalista e banale dei ritratti. Quando S. è entrato nell’atelier, ho capito che avrei dovuto imparare tutto se avessi voluto scomporre nelle sue minime parti quella sicurezza, quel sangue freddo, quel modo ironico di essere bello e sano, quell’insolenza studiata quotidianamente per ferire nei punti più dolenti. Ho chiesto assai di più di quanto sia solito chiedere e lui ha accettato e dato la caparra all’istante. Ma avrei dovuto abbandonare i pennelli alla prima seduta, quando mi sono sentito umiliato, pur non sapendo di cosa in concreto, pur non essendo stata pronunciata una sola parola. È bastato il primo sguardo e io mi sono chiesto: “Chi è quest’uomo?” Proprio la domanda che nessun pittore deve farsi mai, eppure io l’ho fatta. È tanto rischiosa quanto dire allo psicanalista di spingere un po’ oltre, un pochettino appena, il suo interesse per il malato: si possono compiere tutti i passi fino all’orlo del precipizio, ma da lì in poi ci sarà la caduta inevitabile, inappellabile, mortale. Ogni forma di pittura bisogna farla al di qua, e anche la psicanalisi, credo. Proprio per mantenermi al di qua, ho cominciato il secondo ritratto: la mia salvezza era nel doppio gioco che facevo, io possedevo una briscola che mi permetteva di librarmi sopra l’abisso mentre apparentemente sprofondavo nella sconfitta, nell’umiliazione di chi ha tentato e fallito, dinanzi a tutti e dinanzi ai propri occhi. Ma il gioco si è complicato, e adesso sono un pittore che ha sbagliato due volte, che persevera nell’errore perché non riesce a uscirne e tenta la deviazione di una scrittura i cui segreti ignora: con un cattivo o un buon paragone, io cerco di decifrare un enigma con un codice che non conosco.

Solo oggi ho deciso di tentare il ritratto definitivo di S. in questa maniera. Non credo che in alcun momento degli ultimi due mesi (esattamente l’altro ieri, sono due mesi che ho cominciato il primo ritratto) me ne sia mai venuta l’idea, Ma, caso strano, mi è sorta naturalmente, senza che me ne stupissi, senza che l’avessi dibattuta in nome della mia incapacità letteraria, e come primo atto ha scatenato l’acquisto di questi fogli, con la stessa disinvoltura come se acquistassi tubetti di colore o un set di pennelli nuovi. Ho trascorso in giro il resto della giornata (non avevo nessun appuntamento), mi sono allontanato in macchina dalla città, tenendomi accanto la risma di carta, come chi porta a spasso una nuova conquista, di quelle per cui l’automobile è già il lenzuolo di sopra. Ho cenato da solo. E quando sono rientrato a casa, mi sono diretto subito all’atelier, ho scoperto il ritratto, vi ho tracciato una pennellata a caso, ho ricoperto la tela. Poi sono andato nel ripostiglio dove tengo le valigie e i vecchi dipinti, ho ripetuto gli stessi gesti sul secondo ritratto, con l’intensità automatica di chi pratica il millesimo esorcismo e sono venuto a sedermi qui, in questo piccolo baluardo che è la mia camera da letto, metà biblioteca e metà rifugio, dove alle donne non è mai piaciuto trattenersi.

Che cosa voglio? Innanzi tutto, non essere sconfitto. Poi, se possibile, vincere. E vincere significherà, quali che siano i cammini su cui potranno condurmi i due ritratti, cercare di scoprire la verità di S. senza che lui sospetti nulla, giacché la sua presenza e le sue immagini sono testimonianze di una mia provata incapacità di soddisfare soddisfacendomi. Non so quali passi farò, non so quale tipo di verità io stia cercando, so solo che mi è divenuto intollerabile non sapere. Ho quasi cinquant’anni, sono arrivato a quell’età in cui le rughe non servono piú ad accentuare l’espressione, ma divengono espressione di un’altra età, e cioè della vecchiaia che si avvicina e, all’improvviso, lo ripeto, mi è divenuto intollerabile perdere, non sapere, continuare a gesticolare nel buio, essere un automa che sogna tutte le notti di evacuare la striscia perforata del suo programma: una lunga tenia che ha rappresentato l’unica vita esistente fra i circuiti e i transistor. Se mi chiedessero se prenderei la stessa decisione quand’anche S. non si facesse vedere, non saprei rispondere. Credo di sì, ma non potrei giurarci. Eppure, adesso che ho cominciato a scrivere, mi sento come se non avessi mai fatto altro o fossi nato apposta per questo.

Mi osservo mentre scrivo come non ho mai fatto mentre dipingevo, e scopro quanto vi sia di affascinante in questo atto: nella pittura, viene sempre il momento in cui un quadro non sopporta neppure una pennellata in piú (bene o male, lo peggiorerebbe), mentre queste righe possono prolungarsi all’infinito, allineando pezzetti di un insieme che non avrà mai avuto inizio, ma che, in questo allineamento, è già un lavoro perfetto, un’opera definitiva perché nota. È soprattutto l’idea del prolungamento all’infinito che mi affascina. Potrò scrivere sempre, sino alla fine della vita, mentre i quadri, chiusi in se stessi, respingono, sono isolati nella loro pellicola, autoritari e, anch’essi, insolenti.

Mi domando perché io abbia scritto che S. è bello. Nessuno dei due quadri lo mostra così, e almeno il primo dovrebbe presentarlo al meglio o, come minimo, darne un’immagine reale, riconoscibile, con tutti gli ingredienti adulatori di un ritratto che sarà ben pagato. In realtà, S. non è bello. Ma possiede la disinvoltura che ho sempre desiderato avere io, un viso dai lineamenti marcati nella giusta proporzione e relazione che conferiscono quella solidità che gli uomini fisicamente fluidi come me non possono impedirsi di invidiare. Si muove con scioltezza, si siede su una sedia senza guardarla, e subito si trova ben seduto, senza bisogno di quel secondo e terzo movimento che denunciano l’imbarazzo o la timidezza. Si direbbe che sia nato con tutte le battaglie già vinte o che disponga, per lottare al posto suo, di combattenti invisibili, i quali, dopo, muoiono pacatamente, senza rumore, senza eloquenza, spianandogli la strada, quasi fossero semplici ramificazioni di una scopa. Non credo che S. sia milionario, nel senso che merita oggigiorno tale definizione, ma ha un mucchio di soldi. Lo si avverte nel suo modo di accendere una sigaretta, nella sua maniera di guardare: il ricco non vede mai, non nota mai, guarda soltanto, e accende sigarette e sigari con l’aria di chi si aspetterebbe che gli arrivassero già accesi. Il ricco accende il sigaro offeso, o meglio, il ricco accende offeso il sigaro, perché, guarda caso, non c’è nessuno che glielo accenda. Credo che S. avrebbe trovato naturale che mi precipitassi o, almeno, che facessi il gesto. Ma io non fumo e ho sempre avuto occhiate abbastanza acute per smontare, per disarticolare quel pretenzioso movimento che va dall’impugnare l’accendino all’appizzare la fiamma e poi richiuderlo, primo e conclusivo movimento di una voluta che, secondo i casi, può essere una mossa di adulazione, di servilismo, di complicità, di invito sottile o brutale a letto. S. avrebbe voluto che riconoscessi il denaro che possiede e il potere che gli attribuiscono. Gli artisti, tuttavia, godono per tradizione di certi privilegi che, anche quando non se ne servano o se ne servano al contrario, mantengono un alone romantico di irriverenza che rinsalda il cliente nella sua (provvisoria) condizione subalterna e nella sua particolare superiorità. In questo rapporto, alquanto teatrale, ciascuno rappresenta il proprio ruolo. In fondo, S. mi avrebbe disprezzato se gli avessi acceso il sigaro, ma, peggio ancora, si sarebbe sentito frodato se lo avessi fatto. Nessuna sorpresa né per l’uno né per l’altro, e tutto è andato come doveva.

S. è di statura media, solido, in perfetta forma (a quanto vedo) per i quarant’anni che dimostra. Ha i capelli bianchi al punto giusto perché gli donino al viso, e sarebbe uno splendido modello per una pubblicità di prodotti raffinati e, insieme, campestri, come pipe, fucili, completi di tweed (parola inglese che designa un tessuto di lana, piuttosto pesante e assai morbido, fabbricato in Scozia), automobili lussuosamente utilitarie, vacanze sulla neve o in Camargue (Francia del Sud). Possiede, insomma, l’orografia del viso cui gli uomini aspirano perché il cinema americano l’ha divulgata e perché fa coppia con un certo tipo di donna dai capelli lunghi, ma che forse non vale la pena di mantenere (il viso, non la donna) per pini di un flash fotografico: perché la vita è fatta soprattutto di banalità, di pallore, di barba mal rasata o magari lunga, di alito pesante, di odore di corpo non sempre lavato. Forse, questo modo di essere faccia che possiede S., di essere occhi, bocca, mento, naso, radice e punta dei capelli, sopracciglia, incarnato, rughe, espressione, tutto ciò potrebbe essere responsabile dell’unico scarabocchio confuso che sono riuscito a trasferire sulla tela e che neppure nel secondo ritratto ha guadagnato un po’ di chiarezza. Non che la somiglianza non vi sia, non che il primo non sia il fedele ritratto desiderato e benevolo, non che il secondo, infine, non possa passare per un’analisi psicologica in forma di pittura: in entrambi i casi, soltanto io mi rendo conto che tutte e due le tele sono ancora bianche, vergini se piace lo stile, rovinate per dire il vero. Di nuovo mi domando, tuttavia, per quale ragione, essendo S. detestabile com’è nella mia descrizione, si sia impossessata di me quest’ossessione di comprenderlo, di scoprirlo, quando altri più interessanti, fra gli uomini e le donne che ho ritratto, mi sono passati davanti agli occhi e fra le mani in tutti questi anni di mediocre pittura: non trovo altra spiegazione se non la svolta dell’età a cui mi trovo, l’umiliazione improvvisamente scoperta di sentirmi in stato di necessità, di quest’altra e più ardente umiliazione di essere guardato dall’alto, di non sapere rispondere all’ironia con il disprezzo o il sarcasmo. Ho tentato di distruggere quest’uomo mentre lo dipingevo, ma ho scoperto che io non so distruggere. Scrivere non è un altro tentativo di distruzione, ma piuttosto il tentativo di ricostruire tutto dall’interno, misurando e pesando tutti gli ingranaggi e le ruote dentate, bilanciando al millimetro gli assi, esaminando l’oscillare silenzioso delle molle e la vibrazione ritmica delle molecole all’interno dell’acciaio. Non posso impedirmi, inoltre, di detestare S. per quello sguardo freddo con cui ha squadrato il mio atelier la prima volta che vi è entrato, per quel borbottare sdegnoso, per il modo spiacevole con cui mi ha teso la mano. So perfettamente chi sono, un artista di bassa lega che conosce il proprio mestiere ma che difetta di genialità, nonché di talento, che non possiede altro se non un’abilità coltivata e che percorre sempre gli stessi solchi, o si arresta presso le stesse porte, una mula attaccata a un carro che compie sempre lo stesso giro cui ha fatto l’abitudine. Ma prima, quando mi accostavo alla finestra, amavo guardare il cielo e il fiume, come li avrebbe amati un Giotto, o un Rembrandt, o un Cézanne. Non erano molto importanti per me, le differenze: quando una nuvola passava lentamente, non c’era alcuna differenza, e quando, poi, tendevo il pennello verso la tela incompiuta, tutto poteva accadere, persino di scoprire un genio che appartenesse a me soltanto. La mia pace era garantita, quant’altro fosse sopraggiunto poteva essere un po’ di pace in piú o, chissà, il turbamento del capolavoro. Non questa specie di rancore sopito ma determinato, non questo scavo all’interno della statua, non questo dente acuto e ostinato simile a quello di un cane che morde il laccio mentre si guarda intorno ansioso, per paura che torni chi l’ha legato.

Aggiungere altri particolari della fisionomia di S. è inutile. Ci sono i due ritratti che dicono quanto basta per ciò che meno conta. O meglio: che dicono ciò che a me non basta, ma che soddisfano chi solo di fisionomie si curi. Il mio lavoro, adesso, sarà un altro: scoprire tutto nella vita di S. e tutto riportare per iscritto, distinguere fra tutto quanto è vero dentro e superficie brillante, fra l’essenza e la fossa, fra l’unghia curata e la limatura che ne avanza, fra la pupilla di un azzurro opaco e la secrezione secca che lo specchio mattutino denuncia all’angolo dell’occhio. Separare, dividere, confrontare, comprendere. Capire. Proprio quanto non sono mai riuscito a ottenere con la pittura.

Se dire la professione di qualcuno significa descriverlo o dire qualcosa di quanto c’era da sapere, e se l’amministrare è un mestiere, oltre il vantaggio che rappresenta, annoto che S. è l’amministratore del Senatus Populusque Romanus. Che cos’è il (la) Senatus Populusque Romanus? Un mascheramento, quale lo (la) scrivo, e insieme un mio gusto per ]’anacronismo (la miglior storia degli uomini sarebbe quella che riunisse, in quel gesto avvolgente della mano coglitrice, le spighe rasenti al suolo, tutte le spighe, preparando il taglio deciso e unico e il successivo movimento che innalza al cielo, o agli occhi, le diverse età del tempo, tutte mature, ma tutte ancora lontane dall’essere pane). Eppure, non maschero tutto, perché subii sono le vere iniziali del nome della ditta di cui S. è proprietario. Mescolo il senato e il popolo romano con questo capitalismo, e mi accorgo che in fondo è tutto lo stesso senato, e nel popolo sono ben poche le differenze. Ho anche un altro motivo, un motivo confuso, forse un tortuoso artificio, per non scrivere i nomi per esteso: nel mio mestiere (che è quello di dipingere), si comincia con l’usare i colori così come escono dai tubetti, colori dai nomi che sembrano fissati per l’eternità. Nel mescolarli, poi, sulla tavolozza o sulla tela, la minima sovrapposizione, o la luce, li modifica, e un colore, pur essendo ancora quello che era, è insieme il colore vicino, piú la fusione dei due, e il (i) nuovo(i) colore(i) che ne risulta(no) entra(no) nella gamma perennemente instabile per rinnovare il processo, insieme moltiplicatore e moltiplicando.

Per l’uomo è così finché non muore (da morto non è più possibile sapere chi sia stato): dargli un nome significa fissarlo in un momento del suo cammino, immobilizzarlo, forse in equilibrio precario, considerarlo sfigurato. Lo lascia indefinito come semplice iniziale, ma che si definisce nel movimento. Ammetto che qui c’è molto della mia fantasia, fors’anche la seduzione di chi ha imparato a giocare a scacchi e crede di poter esaurire, subito, tutte le combinazioni possibili (il testo, o la calligrafia, che viene prima, è il mio scacchiere nuovo): o forse, in fondo, è il vizio del miope, che per vedere bene deve guardare da vicino, per cui gli capita, senza meritarlo per altre ragioni, di scoprire ciò che solo da vicino si può vedere. S. è un’iniziale vuota che solo io posso colmare con quello di cui sarò capace e inventerò, come ho inventato il senato e il popolo romano, ma quanto a S., non sarà tracciata la linea di separazione tra il noto e l’inventato. Un nome qualunque con quell’iniziale può essere il nome di S. Sono tutti non e tutti inventati, ma a S. non verrà dato alcun nome: è la possibilità di tutti i nomi che rende impossibile sceglierne uno. Conosco le mie ragioni e le confermo. Basta ripetere i suoni che sono i nomi qui di seguito elencati per riconoscere cosa sia il vuoto di un nome finito. Posso sceglierne uno fra questi per S. (“esse”): Sa Saavedra Sabino Sacadura Salazar Saldanha Salema Salomao Salastio Sampaio Sancho Santo Saraiva Saramago Saul Seabra Sebastiao Secundino Seleuco Sempronio Sena Seneca Sepúlveda Serafim Sergio Serzedelo Sidonio Sigismundo Silverio Silvino Silva Silvio Sisenando Sisifo Soares Sobral Socrate Soeiro Sofocle Solimao Soropita Sousa Souto Svetonio Suleimao Sulpicio. Potrei scegliere, certo, ma allora starei classificando, mettendo in classi. Se dicessi Salomao, subito sarebbe un uomo; se dicessi Saul, sarebbe un altro; lo ammazzerei alla nascita se preferissi Seleuco o Seneca. Nessun Seneca può amministrare, oggi, la SPQR (Seneca, Lucio Anneo, 14 a.C. – 65 d.C.]; nato a Córdoba, filosofo latino; fu precettore di Nerone, poi cadde in disgrazia e ricevette dall’imperatore l’ordine di suicidarsi tagliandosi le vene. Trattati: Della tranquillità dell’anima, Della brevità della vita, Questioni naturali, Epistole morali a Lucilio). Il nome è importante, ma non ha importanza alcuna quando rileggo, di fila, senza pause, tutti quelli che ho scritto: alla seconda riga ho già perso la pazienza e alla terza finisco per convenire che l’iniziale mi soddisfa pienamente. Ragion per cui sarò anch’io semplicemente H., niente più. Uno spazio bianco, se fosse possibile distinguerlo dagli spazi laterali, basterebbe per dire di me tutto il possibile. Sarò, fra tutti, il più segreto e, proprio per questo, colui che maggiormente dirà di sé (darà di sé). (Dare di sé: togliere da se stesso). Altre persone avranno un nome: non sono importanti. Di Adelina, per esempio, dirò il nome: con lei ci vado solo a letto. Non la conosco né desidero (conoscerla). Ma del nome la spoglierei, come la spoglio e le chiedo di spogliarmi, il giorno in cui quel nome cominciasse a essere per me il colore del tubetto o una bolla sul vetro. Direi A.

Se S. non fosse l’amministratore del Senatus Populusque Romanus, non mi avrebbe cercato perché gli dipingessi il ritratto. Ha avuto l’ironica attenzione di dirmelo, con l’aria negligente di chi si scusa per una piccola debolezza, attribuendola a motivi estranei che solo per una sorta di sdegnosa benevolenza si rispettano o si tollerano. Ma dicendolo ha confessato anche la sua prima crepa su quell’involucro, quando ancora io non pensavo, neppure lontanamente, al secondo ritratto. Nella sala del consiglio della SPQR ci sono tre ritratti di amministratori scomparsi ed è stato il consiglio a decidere (per evitare la ridicolaggine di dovere ordinare di nuovo un ritratto ispirato a una fotografia: come è successo dopo la morte del padre di S. e con il pittore Medina) che del suo attuale amministratore principale vivente si fissasse l’immagine da inquadrare nella quarta cornice, già pronta, alla destra di chi guarda. S. ha accettato di farsi costruire la piramide funeraria e sono stato scelto io (Medina è in pensione) per aprire le camere segrete e sigillarle. Con altre parole, tutte queste cose (tranne alcune che ho scoperto in seguito) me le ha dette S., perché non venissi a saperle altrimenti, mentre io, premurosamente, continuavo a mischiare i colori sulla tavolozza, ascoltandolo; riconoscevo quanto fosse ridicolo, ma il ridicolo non sopporta che lo si guardi e neppure ha bisogno di tanto per odiare o detestare di più: S. si è dimostrato detestabile un altro giro di vite. Quanto a me, il giorno dopo ho messo un’altra tela sul cavalletto nel ripostiglio e ho cominciato il secondo ritratto.

Se non fosse per questo mio scrupolo di artefice che mette la puntigliosità al posto del talento e un’osservazione prolungata al posto dell’intuizione folgorante, non potrei descrivere, adesso, questa sorta di esterno della SPQR che si prolunga all’interno come una bottiglia isolante, celando la meccanica o la chimica, o quel non so che, che è il vero interno di una grande azienda. Tento di spiegarmi meglio. Quando sono andato alla SPQR a studiare la sala, la luce, l’ambiente in cui sarebbe stato inserito il mio dipinto (una perdita di tempo che avrei anche potuto evitare, se non fosse per quel mio scrupolo di artefice), prima ho guardato la facciata del palazzo, che appena conoscevo, e poi, una volta entrato, mi è parso di muovermi su una facciata interna che si prolungava in un’esteriorità di pareti, mobili, visi di impiegati, tappeti, telefoni neri, smalto chiaro, temperatura tiepida, odore pulito di legno lucidato, una superficie opaca quanto la facciata a tre piani ricoperta di azulejos in una piazza quasi di provincia. È stato, inoltre, come entrare nella bocca di un gigante addormentato, scivolare lungo le pareti dell’esofago, percorrere lo stomaco e infine uscire, attraverso il vuoto di un corpo, attraverso la pelle che prosegue in mucosa via via modificata, così lontano dalla circolazione dei vasi e dall’alchimia delle ghiandole, come se ancora fossi trattenuto dall’elasticità dell’epidermide. Aggiungerò, perciò, che pur potendo parlare di quanto ho visto, non so che cosa ho visto, non l’ho trasformato in sapere. Non ancora.

Detesto dire azulejo e tanto più, adesso, scrivere la parola. A quanto ne abbia visto io (non parlo di quello che ho raggiunto, io sono solo un pittore accademico), non esistono colori da inventare. Unendone due ne creo mille, unendone tre un milione, unendone sette l’infinito, e se mischiassi l’infinito riconquisterei il colore primordiale, per poi ricominciare. Non importa che questi colori non abbiano un nome, che non si possa dar loro un nome: esistono e si moltiplicano. Ma detesto questa parola (imparerò a detestarne altre?), attribuita a cose che non le corrispondono: azulejo sembra azul, azzurro, fatto di azzurro, azzurrato, piastrellato d’azzurro, niente a che vedere con queste mattonelle che di azzurro non hanno proprio nulla, questi quadrati di ceramica dipinta che rivestono d’oro, arancione, rosso, ocra, con una imponderabile polvere d’argento che forse è insita nella smaltatura, la facciata della SPQR. A certe ore del giorno, è una facciata visibile e invisibile: il sole, battendo da una certa angolatura, trasforma il fiore moltiplicato in uno specchio unico. Un’ora dopo, torna al disegno la sua precisione, torna ai colori la nitidezza, quasi lo smalto avesse captato e trattenuto della luce solo quanto bastasse al punto ottimale degli occhi umani che non vogliono vedere di meno, ma non possono vedere di più, pena il vedere non ciò che vorrebbero, ma ciò che non desidererebbero. C’è un rapporto pacifico tra l’occhio e la pelle che l’occhio vede: chissà se la cecità non sarebbe meglio della vista acutissima del falco attribuita a occhi umani. Agli occhi dell’aquila, com’è la pelle di Giulietta? Che cosa vide Edipo quando, con le sue stesse mani, si accecò?

Esiste ancora nella SPQR una di quelle porte girevoli che sono per me la versione borghese della lastra di pietra che costituiva l’ingresso della caverna dei Quaranta Ladroni. Non si chiama “Sesamo” (pianta) e rappresenta la suprema contraddizione in una porta: è contemporaneamente sempre aperta e sempre chiusa. È la glottide del gigante, che inghiotte ed espelle, ingerisce e vomita. Si ha un certo timore quando si entra, sollievo quando si esce. E si prova una repentina angoscia quando, a metà del movimento, non siamo più fuori e non siamo ancora dentro: viaggiamo all’interno di un cilindro come se attraversassimo una parete d’aria, e quest’aria fosse pastosa come il fango in un pozzo o dura e compressa come la base di un obelisco. Dev’esserci stata qualche storia di soffocamento nella mia infanzia, qualche figura mostruosa o solo nera (“bianca”, direbbe un nero) seduta sul mio cuore perché questo tamburo brillante evochi terrori tanto primitivi. Uscire, in questo caso, significa davvero emergere, o irrompere dall’elemento denso nell’aria trasparente e respirabile.

Ma adesso sono dentro e attraverso l’atrio spazioso, parallelo a un bancone imponente che si prolunga e dietro il quale gli impiegati alzano la testa e, lentamente, la ruotano, come se anche il viso fosse una porta girevole, piena di larve e tele all’interno. Nessuno mi conosce. Laggiù, in linea con la porta, c’è un’ampia scala (“Salga direttamente al primo piano e chieda di me”), con un corrimano di legno a sezione ionica (spiegazione: un taglio trasversale mostrerebbe le due volute laterali del capitello ionico) e una guida funzionale, di tessuto ruvido, fissata con tante bacchette gialle. Mi sorprende quest’atmosfera un po’ antiquata. La tromba delle scale taglia il pavimento lassù, creando una galleria rettangolare, delimitata ai tre lati da una piccola ringhiera che è il prolungamento del corrimano. Un fattorino in uniforme azzurra si alza quando mi avvicino. “Vorrei [uso il condizionale discreto invece dell’imperioso indicativo presente: “Voglio”] parlare con l’ingegner S.”. “Chi devo annunciare?” Dico il mio nome. Per quest’uomo non sono altro che questo nome quando mi fa entrare nella sala d’attesa, eppure mi ha aperto la porta e mi ha lasciato lì da solo, con le sedie imbottite, il tappeto, le stampe inglesi di caccia, il pesante portacenere di vetro. Per arrivare fin qui, basta un nome qualunque. Da qui in poi, solo un altro nome mi potrà condurre: il nome o la persona? O forse né il nome né la persona, ma la segretaria di S., per esempio, un’entità privilegiata, come il guanto di S. o il nodo della sua cravatta? Non mi siedo. Detesto sedermi nelle sale d’attesa quando vi sia da attendere poco. Appena il corpo si è accomodato sul divano, quando ancora non lo è del tutto, mentre cerca di sistemare l’omoplata o la gamba, perché l’altra le si accavalli sopra naturalmente, con quella falsa aria di sicurezza che si smentisce subito dopo, quando la gamba accavallata si distende e prende il posto dell’altra, e quest’ultima rifà lo stesso movimento forzato qualora l’attesa si prolunghi, la porta si apre bruscamente nel caso sial’interessato in persona ad arrivare, oppure sinuosamente trattandosi di un subalterno, e noi dobbiamo balzare su dal divano, ostacolati dalla gamba accavallata, quasi legati all’interno dalle molle che maliziosamente ci trattengono. E putacaso sia l’interessato a venirci incontro tendendoci la mano, noi non abbiamo mani da tendere a nostra volta, intenti come siamo a recuperare un minimo di equilibrio, un equilibrio che renda il tutto naturale e non lasci nulla in sospeso, di suono o di immagine, di ridicolo o dispiaciuto, in questa prima scena di un primo atto. Cose del genere a me non succedono. Mi sono avvicinato all’unica finestra della sala, che dava su un cortile tinteggiato di un colore grigiastro e da cui si vedeva, al piano inferiore, un’altra finestra che, a quanto potevo immaginare, doveva affacciarsi sul grande atrio che avevo attraversato prima. Si scorgeva solo un uomo seduto dietro una scrivania, con un mucchio di fogli verdi davanti (ho detto un mucchio di fogli, ma rettifico: una pila ben ordinata) e un cassetto con lo schedario a sinistra, ad angolo retto col bordo della scrivania, che l’uomo consultava rapidamente (non il bordo) con la mano sinistra, mentre nella destra impugnava un numeratore, o un datario, o un timbro di controllo, o un altro timbro qualsiasi con non so che cosa. E nell’attimo in cui l’uomo si trovava lì, con le braccia dischiuse, sembrava le aprisse verso il vuoto che aveva davanti a sé, ma che era vuoto solo perché io non vedevo nulla. Subito dopo, però, la mano sinistra estraeva una scheda gialla, mentre la destra, armata dell’enigmatico strumento, calava sul foglio verde, abbassandosi di colpo e lasciando una macchia nera che a distanza era solo uno sbaffo. Poi, sempre quella stessa mano prendeva una matita e scriveva qualcosa sulla scheda, dopo di che la sinistra tornava allo schedario per infilare e sfilare di nuovo, mentre la destra posava la matita e afferrava il timbro a guisa di una mazza (no, non qualcos’altro, perché non era posto dove potessero trovarsi quegli uccelli, le gazze, che pressappoco suonano così nella pronuncia) per ricominciare dall’inizio, da quell’ampio gesto di chi abbraccia il vuoto. Diciassette volte l’ho contato, il movimento, ma solo quando ho sentito la porta aprirsi alle mie spalle sono riuscito a focalizzare l’immagine dell’uomo intento a lavorare così: sembrava alto, leggermente curvo, e per un attimo mi ha ricordato una fotografia che mi hanno fatto e ho conservato, in cui mi si vede di spalle, impettito, lontano da me stesso quanto può esserlo dalla Luna il marziano che se ne va in giro con una fascina di legna sulle spalle, stando a quanto mi raccontava mia nonna e io, devotamente, per un bel pezzo ho creduto. È una foto che ogni tanto guardo (la tengo appesa nello studio) con grande curiosità, come se guardassi un estraneo: non mi riconosco mai in quella statura, con quella schiena un po’ abbombata, con quelle orecchie un poco a sventola o che, perlomeno, la foto mostra così. Chi sono mai quell’io?

Voltandomi, sorprendo la segretaria Olga (si presenterà così) già a metà strada. Allora devo essermi seduto, visto che inciampo in un altro portacenere dal piedistallo alto e sono costretto a fare vari gesti inutili, ma indispensabili, per avvicinarmi alla segretaria Olga con la mano all’altezza della sua mano e la voce pronta. Ascolto quanto mi dice mentre danzo sulla corda oscillante dell’inatteso, e cioè che l’ingegner S. non c’è, essendo dovuto uscire per questioni urgenti e improrogabili, che naturalmente mi chiede scusa e che lei, la sua segretaria, naturalmente è a mia disposizione per accompagnarmi nella sala del consiglio e darmi tutti i chiarimenti necessari, nell’ambito delle sue possibilità. Le stringo la mano, ovviamente morbida e profumata, e le dico: “Non ha importanza, mi serve solo qualche minuto”. La segretaria Olga, sia pur fissandomi, non nasconde una certa curiosità. Come d’altronde non nasconde, o forse lei pensa di si, la sua delusione. Penso che immaginasse diversamente i pittori: ma non sa che io sono soltanto un pittore accademico (lo saprà, almeno, che cos’è un pittore accademico?) che veste come tutti gli altri e che poteva trovarsi lì, solo, a braccia spalancate verso il vuoto, alla ricerca di una scheda con la sinistra e impugnando con la mano destra, per essere diverso almeno in qualcosa, adesso si, una vera gazza (uccello appartenente alla famiglia dei corvi che, come il pappagallo, ha grande facilità nell’imitare la voce umana). Entrambi stiamo imitando la voce umana mentre usciamo dalla sala d’aspetto e percorriamo, in senso inverso, un ampio corridoio dove, sulla sinistra, tre grandi porte lucidate si affacciano nella sala del consiglio di amministrazione, come subito mi rendo conto alla seconda porta quando la segretaria Olga, con un movimento aggraziato del polso, accompagnato dall’ondeggiare delle spalle, gira la maniglia ed entra. Mi trattengo un decimo di secondo sulla soglia, come facciamo tutti per dimostrare di non essere maleducati (la buona educazione, in molti casi, è solo questione di un decimo di secondo, e talvolta anche meno), ed entro discretamente mentre la segretaria Olga accende generosamente le luci, come se stesse facendo gli onori a casa propria. Le do ragione: a ben vedere, nulla è di nostra proprietà, ma è meglio dimostrare fiducia e rincrescimento quando usiamo qualcosa appartenente ad altri più che a noi, perché c’è sempre chi possiede ancora meno. Se vado al cinema, a teatro, a un concerto, io so che la sedia su cui mi siedo non mi appartiene, ma mi comporto come se fosse proprio quello il mio vero posto nel mondo, il posto per cui ho lottato e faticato tanto.

Il tavolo è la prima cosa che mi affascina (non mi affascinerà nient’altro, ma visto che il tavolo mi ha affascinato, in quel momento ho creduto che qualcos’altro lo avrebbe fatto): è enorme, lucido, scuro come basalto, sembra una grande piscina piena d’acqua nera o di mercurio. Non c’è nulla sopra: né una cartella, ne un calamaio, né un blocco di carta, né un simbolico tampone. Le sedie, undici, sono tutte uguali, eccetto quella a capotavola sulla sinistra, dallo schienale un palmo più alto. Sono tappezzate di rosso (un tessuto prezioso) e costellate di chiodi gialli. La segretaria Olga, come se ritenesse insufficiente la luce e allarmante il mio silenzio, ha aperto ostentatamente varie tende. Ho smesso di guardare il tavolo e ho fissato lei (verbo che ha quasi lo stesso significato, ma evita l’odiata ripetizione che, a quanto dicono, danneggia assai di più lo stile). Niente male questa segretaria Olga: un po’ troppo alta per i miei gusti (ma che c’entrano, qui, i miei gusti?), e per giunta spigolosa, ma ben piantata. Si muove bene sul suolo che la regge, e quanto a gambe e fianchi possiede quella curva intraducibile che i francesi chiamano galbe. Adesso me la vedo venire incontro, improvvisamente consapevole del mio esame, facendo ondeggiare il petto e scuotendo la testa, solo una volta, perché i capelli sciolti le si posino sul punto delle spalle che lo specchio ha indicato come l’unico giusto. Devo sorridere, in realtà per ciò che sto vedendo, il sorriso un po’ nervoso di chi, come me, amando tanto le donne, comincia sempre col temerle, ma ritocco il sorriso con le parole e le pronuncio delimitate da quel rettangolo di sala, e non libere com’erano liberi i suoi seni e le sue cosce.

Lei mi indica l’estremità della sala opposta alla sedia del presidente. La seguo, divertendomi fra me e me a rifiutarla, ma odiandola per quel movimento dei fianchi che non dissiperanno mai, rasserenandola, questa nuvola nera che mi si forma al centro del corpo e che, nelle mie sensazioni, è la raffigurazione del desiderio sessuale. Mi fermo accanto a lei. “La cornice è questa”, mi dice, e resta lì a guardare il vuoto, quasi mi invitasse ad accompagnarla nella contemplazione. Capisco che il ritratto accanto è quello del padre di S. e che, poco più in là, ci sono lo zio e il fondatore della ditta. Mi avvicino a una finestra: si affaccia inaspettatamente su un giardino, bruscamente verde e luminoso. Di nuovo mi guardo intorno, prego la segretaria Olga di spegnere le luci e aprire tutte le finestre, di chiudere tutte le finestre e accendere le luci, di spegnere queste e aprire quelle, di accendere quelle e spegnere queste. Mi diverto un po’, esercito il mio mestiere di stregone in piccolo e rendo inquieta la segretaria Olga, la innervosisco, la faccio respirare più affannosamente, sono una specie di ipnotizzatore, con un semplice gesto potrei sdraiarla sopra il tavolo per possederla lentamente, pensando ad altro, forse al colore verde del giardino, forse a quella strana frangia di luce che batte sul bordo della cornice. Ed essere così incurante, nel ritirarmi, da lasciare sul tavolo brillante una scia come una cicatrice bianca, a rilievo, dentro la quale si agitano i miei figli frustrati.

La segretaria Olga se ne sta lì, ritta accanto a me, composta, un po’ rigida, come se avessi tentato davvero di violentarla e lei, per rispetto ai padroni, non volesse fare scandali. Di nuovo le sorrido e chiedo le dimensioni della cornice. Lei arrossisce e dice di non saperle. La prego di telefonarmi a casa il giorno dopo, dandomi questa indicazione indispensabile: le spiego che dovrò comprare la tela della misura giusta. Lei capisce, ma di nuovo s’imporpora e, mentre mi riavvicino alla finestra per guardare il giardino, si avvia verso la porta, di proposito, per farmi capire che il motivo della mia visita si è esaurito. E mentre camminiamo per il corridoio, fino all’inizio delle scale, mi parla dell’ingegner S., informandomi che sarà in ufficio il mattino dopo e che ci metterà in comunicazione lei stessa per combinare la prima seduta di posa. Rispondo a tono e ci salutiamo seccamente: non riesco a capire il perché, sebbene l’identica durezza la riconosca in me stesso mentre scendo le scale e vedo il lampeggiare della porta girevole laggiù. Cerco nell’atrio enorme l’uomo dai fogli. Eccolo: apre e chiude le braccia come se stesse affogando metodicamente, tra schede gialle e fogli verdi, mentre una mazza (o forse una gazza?) gracchia davanti a lui e tenta di imparare a parlare.

Sono uscito dal Senatus Populusque Romanus e sono rientrato a casa. Mi sono seduto davanti al cavalletto vuoto, a leggere. Avevo cercato appositamente gli scritti di Leonardo da Vinci. E, di norma in norma, mi sono ritrovato a leggere quello che tante volte avevo già notato: “Osserva bene, pittore, qual è la parte più brutta del tuo corpo e concentraci i tuoi studi per correggerti. Perché, se tu sei brutale, altrettanto lo sembreranno le tue figure e non avranno spirito; e, in questa maniera, tutto quel che di buono o di cattivo possiedi in te trasparirà comunque nelle tue figure”. Si era fatta, nel frattempo, ora di cena. Ho posato il libro sulla mano aperta di un Sant’Antonio che ha perduto il Gesù Bambino e sono uscito. È mia ferma convinzione che questo santo non perda l’occasione, che così gli offro, di migliorare le sue conoscenze con la lettura di opere a lui successive: l’ho scoperto quando mi è parso di vederlo arrossire e vergognarsi, un giorno in cui gli avevo offerto un libro un po’ troppo audace per la sua purezza. Miglior lettura gli toccava oggi. Morto, come la storia narra, nel 1231, forse non aveva immaginato Sant’Antonio che si potesse essere tanto peccatori quanto lo sarebbe stato Leonardo. Né tanto assurdamente umani.

Tre giorni dopo s’è fatta la prima seduta. Tutto era stato combinato attraverso la segretaria Olga (impropriamente dico “attraverso”: sarebbe corretto dire “per tramite”) perché, al contrario di quanto lei mi aveva detto, il giorno dopo S. non era andato alla SPQR, o se c’era andato non era stato lì a perdere tempo con me. Visto che non dispongo di cameriere né di segretarie né apprendisti, sono andato io stesso ad aprire la porta quando ha suonato: solitamente, i miei clienti trovano “interessantissimo” che vada ad aprire di persona, senza cerimonie, avvolto in questa specie di grembiule che è un compromesso fra una camicia lunga e sciolta e la vecchia “casacca degli artisti”. In genere, sono dei poveri sciocchi che di arte non sanno niente e credono di trovarla lì, solo perché ci sono tele sparpagliate per terra, quadri e disegni messi a casaccio sulle pareti e un po’ di sporcizia, sempre entro i limiti rigorosi che ne fanno un’attrattiva in più agli occhi stupiti di chi non ha mai visto altra arte né altre maniere di viverla. La mia vita è un’impostura organizzata discretamente: non mi lascio tentare dalle esagerazioni e, quindi, mi resta sempre un margine sicuro per fare marcia indietro, una zona di indeterminazione dove è facile che io sembri distratto, disattento e, soprattutto, tutt’altro che calcolatore. Le carte del gioco le ho tutte in mano io, anche quando non so quale sia la briscola: è pur vero che, quando vinco, vinco poco, ma anche le perdite sono minime. Non ci sono grandi eventi drammatici nella mia vita.

Ho fatto accomodare S. nell’atelier. È sembrato a suo agio, come se conoscesse tutti gli angoli della casa (c’era venuto una volta sola, per ordinarmi il quadro), e subito mi ha domandato, ma forse con troppa precipitazione, dove volevo che si sedesse. L’ho sentito nervoso, infatti. Che la segretaria Olga gli avesse raccontato di tutti i miei traffici di aprire e chiudere finestre e luci nella sala del consiglio? Poteva essere così imbecille da farsi intimidire da tutta quella scena, descritta per giunta da una terza persona? O forse voleva solo prendere le distanze, mostrare le differenze sostanziali che esistevano fra il suo tempo e il mio? Voleva, forse, accentuare che tra l’amministratore di una ditta e il pittore non c’è niente in comune, se non il viso che si lascia imprestare a un tot all’ora (con la particolarità, è chiaro, che, in questo caso, chi presta paga ciò che presta)?

Gli ho indicato la grande sedia usata per queste circostanze, con la spalliera verticale, che ho cura di modificare da un ritratto all’altro perché almeno le sedie non si ripetano, visto che so per certo come una simile ripetizione sarebbe intollerabile per i miei clienti: più facilmente accetterebbero di vedersi gli uni simili agli altri che non seduti su una stessa sedia. Titubante, sospettando forse di sedersi troppo presto, S. si è accomodato ed è rimasto lì ad aspettare. Ha accavallato la gamba, un segnale che conosco assai bene, e poco dopo l’ha distesa. L’ho pregato di mettersi comodo, senza preoccuparsi della posa: per il momento desideravo fare solo qualche bozzetto a carboncino, veloce, unicamente per cominciare a conoscere il viso, i movimenti degli occhi, il palpitare del naso, la sinuosità della bocca, il peso del mento. Non mi piace parlare mentre lavoro, ma devo adattarmi al cliente che paga, essere un po’, mentre faccio il ritratto, la “forma del suo piede”. Perciò mi costringo a parlare, ma non ho mai imparato a farlo con naturalezza: mi rifiuto di chiacchierare del tempo, non posso fare domande indiscrete o del cui grado di indiscrezione vengo a sapere solo più tardi e, con gli anni, ho imparato ad attaccare discorso sempre alla stessa maniera, peraltro rischiosa: se questo sia il loro primo ritratto. Non insisto, tanto più se mi rispondono che no, non è il primo ritratto: facilmente si cadrebbe, o si potrebbe, volendolo, cadere in qualche apprezzamento spregiativo, là dove, naturalmente, passato il primo momento di reciproco accordo, io finirei per fare pubblicamente la figura di un pessimo collega. Nel caso di S., sapevo di non rischiare nulla. Se un altro ritratto ci fosse stato, la segretaria Olga me lo avrebbe detto, senza dubbio, o per frustrarmi o per adularmi. Anche senza questa certezza, il rischio era nullo: S. non era il tipo d’uomo che cerca le soddisfazioni banali di un ritratto a olio. Splendidamente abbronzato, uniforme, senza nulla che ricordasse la faccia triste della gente comune che comincia a spellarsi dopo lo splendore del primo colpo di sole, S. aveva modificato quello che, al suo ingresso, mi era sembrato nervosismo, adesso che finalmente avevo preso il mio posto di lavoratore e trasmettevo al promemoria gli ordini provenienti dal suo viso. Non credo di averlo pensato in quel momento. Solo adesso, riflettendoci (adesso devo riflettere su tutto, prima di abbandonare la mano a questo flusso di scrittura), scopro le ragioni della repentina serenità di S.: dopo l’iniziale turbamento, i nostri rapporti si erano definiti e il mondo, evidentemente, si era accoccolato nel punto giusto. Non ha risposto alla mia domanda e me ne ha rivolto un’altra, pensando così di dimostrare quell’interesse sotto preziosa forma di paternalismo altre volte usato: se dipingevo da molto tempo. “Dacché io mi ricordi”, ho risposto. “Non credo di aver fatto altro”, ho aggiunto. Chiaro, era una menzogna, ma è una frase interessante che lusinga chi la pronuncia e fa piacere a chi la sente. Può essere lo spunto per una buona conversazione sulla controversa questione delle vocazioni (si nasce artista o si diventa? L’arte è un mistero ineffabile o un meticoloso apprendistato? Saranno proprio matti i rivoluzionari dell’arte? E vero che Van Gogh si è tagliato un orecchio? Il primitivo prova orrore per il vuoto? E il Greco, il Greco aveva qualche difetto alla vista? E Picasso, invece, aveva una costante lucidità “implacabile”? Qual era la mia opinione? E che cosa ne pensavo di Columbano?). Ma S. ha fatto finta di non aver sentito e mi ha chiesto di vedere i bozzetti. Naturalmente, il capo voleva accertarsi del rendimento dell’impiegato. Gli ho passato i fogli, cui ha dato un rapido sguardo annuendo con la testa piú di quanto la situazione giustificasse e subito dopo me li ha riconsegnati. L’ho un po’ punito per quell’impertinenza, trattenendo i disegni in mano, senza guardarli, senza guardare neppure lui, dimostrandogli così che si era commesso un errore, che si erano infrante le regole del buon rapporto fra il pittore e il suo modello. Il disegno è sacro, non lo sapeva? Non lo si può guardare senza permesso, ma non sempre il permesso è sufficiente per guardarlo, non lo sapeva? Ho accantonato i fogli e dichiarato che, per quel giorno, non avevo bisogno d’altro. Che avrei voluto combinare lì direttamente la prossima seduta, per non dovere (entrambi) perdere tempo con intermediari. Queste parole le ho pronunciate con una sicurezza un poco ostile, calcando sulla parola “intermediari”, perché in quell’istante ho avuto la certezza (conferita peraltro da migliaia di scenette in tutto il mondo) che S. aveva, o aveva avuto, rapporti sessuali con la segretaria Olga, intendendo qui per rapporti sessuali tutto quello che succede in un letto, o in ciò che all’occorrenza ne fa le veci, e che può anche non esserci, fra due o più individui di sesso diverso, o dello stesso sesso, i quali decidono di sperimentare con qualche parte del loro corpo il sesso dell’altro. Anch’egli, bruscamente, ha proposto un giorno per la prossima seduta, e io ho addolcito il tono, sicuro e certo (proprio per quella sua durezza) che adesso non aveva più rapporti (sessuali) con la segretaria Olga. L’ho accompagnato alla porta. Tacitamente non ci siamo stretti la mano, salutandoci. L’ho sentito scendere frettolosamente per le ripide scale di casa mia e, qualche istante dopo, ho udito il rombo potente di un motore nella strada: non ho avuto bisogno di avvicinarmi alla finestra per sapere che era il suo messaggio che mi arrivava nell’aria. Ancora irritato? Oppure già ironico? Era finito cosìpresto il mio regno? Così in fretta erano andati in frantumi il prestigio, l’atmosfera, quel “Guarda come sono diverso”? Che cosa avrebbe detto, che acidi commenti fra i sorrisi avrebbe fatto, dettandole le lettere, con la segretaria Olga? Parlando di me, avrebbe detto H., oppure il tizio del quadro? Come parlano veramente di noi gli altri? Che cosa siamo per gli altri? Che cosa siamo per noi stessi?

Ho ripreso i disegni, li ho studiati a freddo, li ho messi da parte. Era un viso che non presentava difficoltà: regolare e normale, come un annuncio ben concepito. Una bocca cui si adatterebbe splendidamente una pipa, un paio d’occhi da socchiudere al vento, una capigliatura che quello stesso vento potrebbe spettinare e dita femminili, dalle unghie lunghe e smaltate, potrebbero attorcigliare con sapiente voluttà. Ho guardato dalla finestra il cielo bianco dell’imbrunire e ho pensato che ero solo. Con un gin tonic ghiacciato e profumato in mano, mi sono adagiato sul divano austero dell’atelier e ho cominciato a sorseggiarlo senza fretta. Avevo lasciato accesa la luce della cucina, ma non mi sono mosso per andare a spegnerla. Avevo chiuso il frigorifero? L’orologio ha battuto le due (quando lavoro non porto l’orologio al polso): ho pensato che Adelina doveva essere già a casa. Mi sono alzato dal divano, sono andato in camera, dove tengo il telefono, e quando lei ha risposto l’ho invitata laconicamente a cena e poi al cinema. Ha accettato subito. Accetta sempre.

Allora, conoscevo Adelina da poco più di sei mesi. O meglio, la conoscevo perlomeno da due anni, ma a letto insieme (per dei rapporti sessuali, è chiaro) ci andavamo da poco più di sei mesi. Avevamo iniziato nel solito modo: alcuni amici erano venuti dopo cena a passare un po’ di tempo da me, e c’era Adelina, un’amica non recente. Passavano le ore e infine tutti se n’erano andati, tranne Adelina, su idea sua, o su mia tacita insistenza, e poi, rimasti soli, ci eravamo accorti che il nostro interesse era di lunga data, come al solito, e così era rimasta e aveva dormito da me il resto della notte avanzato dai nostri rapporti (sessuali). È stata l’unica volta che ha passato la notte nel mio letto. Ha la madre viva e abita insieme a lei, e la madre non le fa tante domande se rientra a casa prima che i lampioni si spengano, ma tutta la notte sembra brutto. E Adelina mi dice che non vuole darle questo dispiacere. Quanto a me, spero silentemente che la gentile signora non cambi idea, ma di tanto in tanto, per ravvivare il fuoco, faccio qualche scenata alla povera Adelina, divisa fra un amante impostore e una madre che ha rinunciato a tutto, tranne che alla sua piccola autorità di guardiano notturno. Fino a oggi, il triangolo ha funzionato alla perfezione.

Volendo parlare di S., visto che l’obiettivo di questa indagine è il trovare quanto si è perso fra il primo e il secondo ritratto, o quanto era già perduto da sempre (ciò che in me è sempre stato perduto), devo interrogarmi sul significato di questa forma di compiacenza che è il parlare di Adelina, dal momento che di Adelina qui non si tratta. Forse, però, non conviene fare l’inventario delle forze e delle debolezze di qualcuno, per opporvisi o per una semplice registrazione statistica, senza fare un bilancio previo delle nostre, e in questa riflessione sarà impossibile ignorare quelle che, in fin dei conti, ci pesano sopra come granelli di piombo trascinati nel vortice di un cilindro, mosso in realtà da un’altra forza, ma nel cui movimento questi stessi granelli intervengono senza che il cilindro lo senta e senza che l’effettiva forza lo sospetti. La povera Adelina, come fra me e me mi diverto a chiamarla, è assai meno “povera” di quanto abbia detto: viene a letto con me, acconsente e pretende che io le entri dentro (questa virtuosa trasposizione diventa un’oscenità totale perché, letteralmente, che io le entri dentro significa che mi sono rimpicciolito tutto a una dimensione millimetrica, che mi permetterebbe di digredire [mi piacerebbe dire “digradare”] dentro di lei o, al contrario, che questo suo interno abbia acquistato le dimensioni di una cattedrale, una basilica di San Pietro, una chiesa di NotreDame, una grotta dorata e verde di Aracena, dove io passeggio [penetro] a grandezza naturale, pattinando sugli umori, sulle secrezioni, riposando nel turgore delle mucose e avanzando sempre, fino al segreto dell’universo, al laboratorio delle ovaie, allo stentore delle trombe [mute] di Falloppio, aspirando gli odori primordiali della terra custoditi lì, come nei sessi di tutte le donne, adesso non più osceni perché il sesso non è osceno, ma questo lo so oggi) e poiché io le entro dentro, nonché per il fatto che lei, pur non volendolo in realtà la mia volontà, partecipa della vita generale in cui sia io che lei abbiamo la nostra parte, ed entrambi in un risvolto comune, una strettissima cimasa di Chartres, non posso dire: “Povera Adelina”, né dimenticarla. Ogni volta le riverso dentro migliaia di spermatozoi condannati a morte in anticipo, avvolti in un fluido gommoso che fuoriesce da me ansante e, per quanto io non ami lei, né lei ami me, nessuno di noi due può sfuggire al brevissimo istante in cui i corpi lassi e soddisfatti riposano, il mio quasi sempre sopra il suo, il suo talvolta sopra il mio, nonché sopra l’altro chi di noi ne sopporta il peso. Concluso l’atto sessuale (detto anche atto d’amore), il corpo che si trova sotto pesa su quello che sta sopra, e chi non ha mai scoperto questo, non possiede né corpo né sesso né coscienza di sé. Due volte si esercita quindi la forza di gravità, non perché si annulli, ma perché lo schiacciamento sia totale. Perché la levitazione dei corpi non è possibile quando il sesso dell’uomo è ancora profondamente ancorato al sesso della donna, mentre riversa o dopo avere riversato la bianca secrezione dei testicoli e si bagna fra le pareti rosse o rosee, e ardenti, quando la remotissima tristezza del coito annebbia il cervello e annienta a una a una le membra abbandonate.

Sappiamo entrambi, Adelina e io, che un giorno troncheremo la relazione: soltanto l’inerzia la tiene ancora in piedi. Non sono, ovviamente, il primo uomo della sua vita: ne ha avuti vari, alcuni che conosco e la trattano da amica, perché non l’hanno amata né lei ha amato loro, proprio come le parlerò io quando sopporteremo entrambi il piccolo dispiacere di separarci. E forse verrà a casa mia quando un’altra Adelina ci sarà per andare a letto insieme un po’ più tardi, e forse lei uscirà con un altro uomo con cui va a letto, e infine ci allontaneremo, facendo i gesti che conosciamo tutti e due sul corpo di un altro, senza neppure pensarci, ma tanto assorti nel nuovo sesso, o forse distratti al punto da non sovvenirci alcun ricordo comune, e ammettendo che venisse, sarebbe un puro e semplice pensiero, un fatto di un’altra vita o addirittura di un’altra persona. Perciò sono così sicuro di questa mia semplice verità: l’io di questo preciso istante è fondamentalmente diverso da quello di un secondo prima, talvolta il contrario, ma, senza dubbio, sempre diverso. Ecco perché, per me, è una grande verità che il passato è ormai morto (non basterebbe dire solo: “È morto”). Le donne che ho avuto fino a oggi sono morte, e tanto più morte sono quanto più le ho amate. Nessuna, però, l’ho amata abbastanza perché qualcosa di me stesso morisse con la loro morte.

Legami come questo eccellono per la loro serenità. Valgono finché il dovere di reciproca fedeltà non diventa pesante, e quando questo tacito dovere viene infranto erano già conclusi. Niente si perde e niente è complicato se il gioco è franco: solo le coppie borghesi si tradiscono, solo i certificati di matrimonio sono gabbie per pazzi furiosi e selve primitive popolate da dinosauri senza cervello. Quando Adelina se ne andrà, o io le dirò di andarsene, o tutti e due ci guarderemo improvvisamente, indifferenti, un’ora di tempo passerà senza rumore su un’altra ora di tempo e il mondo sarà pronto a rinascere. E se la separazione avverrà qui, a casa mia, potrò udire i suoi passi giù per le scale echeggianti, via via meno nitidi, via via più lontani e, forse, una delle vicine che la conoscono e danno la situazione per definitiva, le dirà: “Buon pomeriggio, a domani”, e solo io saprò, e lo saprà Adelina, che non ci sarà un domani: quanto al pomeriggio, a ben notare, sarà buono esattamente come un altro. E insieme consapevoli, l’uno e l’altra, che a nostra volta diremo: “Buon pomeriggio, a domani”, quando ci rincontreremo senza alcun desiderio, o forse risuscitandolo vagamente con uno sguardo incauto, un contatto fortuito, un po’ di alcol in più che ti dia alla testa. Sarà tutto morto, allora, ma noi mortificati, questo proprio no. Non c’è altra differenza.

Adelina è più giovane di me di diciott’anni. Ha un bel corpo, un ventre bellissimo dentro e fuori, una splendida macchina per fornicare, e una maniera di essere intelligente che mi piace. Non è certo un’aquila, dicono gli amici, ma non è mai caduta perché incapace di volare. Dirige o possiede (non l’ho mai appurato con certezza) una boutique e si guadagna una vita piuttosto agiata. Non vive alle mie spalle, bisogna riconoscerlo. Sembra soddisfatta della vita che fa con me, piuttosto libera, estranea, per quanto sia sempre disponibile ad accompagnarmi e io abbia il sospetto che non le dispiacerebbe un’intimità più costante. Lo giustifico col mio lavoro, che lei ha il buon gusto di considerare alla stregua di qualunque altro, visto che di arte ne sa abbastanza per fare una distinzione. Grazie a questo buon gusto e al suo buon senso, nonché alla stima che evidentemente ha per me, possiamo parlare di pittura come se io non fossi in causa, con la naturalezza con cui parleremmo di astronautica, giacché io non sono certo Laika e lei non è Von Braun, o viceversa. Eppure, proprio questo silenzio mi offende remotamente: niente di quel che faccio io le importa. Né i quadri, che non le piacciono, né il denaro, di cui non ha bisogno. In realtà, l’unico punto d’incontro onesto fra noi due è il letto: lì, io non sono un pittore e lei non è la padrona di una boutique. Quanto all’intelligenza, basterebbe quella dei sessi, e loro sanno bene che cosa fanno.

Solo una quindicina di giorni dopo, S. mi ha spiegato il motivo di questo ritratto, tanto contrastante con i suoi gusti e i suoi atteggiamenti di uomo moderno. Non domando mai ai miei clienti il motivo per cui si siano decisi a farsi ritrarre in questa maniera primitiva: se lo facessi, darei l’impressione di essere il primo a considerare assai poco il lavoro che mi fa campare. Devo comportarmi (e l’ho sempre fatto) come se il ritratto a olio fosse la convalida di una vita, il suo coronamento; il suo trionfo, e proprio perciò io accettassi la rara ventura che deriva appunto dal fatto comprovato che il trionfo sceglie pochi eletti. Una domanda simile significherebbe mettere in dubbio il diritto di questi pochi eletti a un ritratto così particolare, quando tale diritto viene loro conferito, per pura e semplice logica, dal denaro con cui lo pagano e dai luoghi preziosi che scelgono per appendere il risultato di un lavoro apprezzato solo da loro, in base a quanto apprezzano se stessi. A volte ho pensato alla cura con cui si dispongono i faretti per valorizzare i ritratti, come piccoli soli creati unicamente per illuminare un solo pianeta, da una certa angolatura: c’è una luce diffusa su tutta la superficie, una morbida luce crepuscolare che non cancella nulla, ma nulla fa risaltare, e c’è la luce mirata che aureola i visi, li fa risplendere, alla ricerca di uno spirito inesistente o ricoperto d’insormontabili strati di pittura. Davanti a quadri illuminati così, è d’obbligo fermarsi, privi noi di idee quanto può essere vuoto di significato quel dipinto, mentre tutto partecipa alla stessa complicità, alla stessa connivenza, alla stessa ipocrisia. In questi casi mi vergogno davvero della mia professione: vivere nella menzogna, usarla come verità e giustificarla col nome irreprensibile di “arte” può divenire, in certi momenti, insopportabile. Chi merita assai meno disprezzo è colui che si fa ritrarre, giustificato, in fin dei conti, dalla fondamentale ingenuità dell’intenzione. Mi riferisco al tipo di ritratti che faccio io, ai ritratti che vedo e che potrebbero essere stati firmati da me: non parlo, per esempio, del ritratto di Federico da Montefeltro dipinto da Piero della Francesca, che si trova a Firenze. Anche in quest’istante, potrei alzarmi dalla sedia, cercare fra i miei libri e guardare una volta ancora quel profilo di uomo maturo, convinto della propria bruttezza e tuttavia indifferente, con quel naso camuso, e sullo sfondo un paesaggio imponderabile che, ne sono sicuro, è la vera Toscana. E, dopo averlo visto (o non volendolo vedere adesso), le dita mi si intorpidiscono per questo grande freddo che si chiama sconforto, pentimento e sconfitta, là dove rimane ancora tutto lo spazio di un’infinita campagna gelata senza nome. Trasferisco questa riflessione sui nomi del modello e del pittore e mi accingo ad assaporarli, a scomporli in piccole parti, a tradurli per conoscerli meglio o perderli definitivamente: “Frederigo de Montefeltro” sarebbe in portoghese, quasi senza alcun cambiamento, e “ Pedro da Francisca”, o “dos Franciscos”, un povero diavolo, figlio di un ciabattino, con una madre che forse si chiamava Francesca, un povero vecchio e cieco che si faceva condurre per mano da un giovane, di nome Marco di Longaro, di cui solo per ciò ricorderemo la nascita, visto che di lui non sono rimaste neppure le lanterne che fabbricava da adulto per guadagnarsi a sua volta la vita. E io, che non lascio lanterne, che neppure me stesso ho imparato a condurre per mano, mi domando a che cosa servano gli occhi.

Quando S., ridendo, mi ha detto che il ritratto lo stavo dipingendo per decisione del consiglio di amministrazione, per volontà della madre e sua condiscendenza, mi sono bloccato davanti al cavalletto col braccio sospeso nell’aria, vedendo nella punta del pennello muoversi lentamente il pigmento, viscere liquido troncato d’improvviso alla radice, ma ancora palpitante, come la coda di una lucertola o la metà di un verme. Ho detestato S. perché mi faceva sentire tanto infelice, tanto irrimediabilmente inutile, tanto pittore senz’arte, e la pennellata che infine ho messo sulla tela è stata, in realtà, la prima pennellata del secondo ritratto. Tutti abbiamo sognato una volta di salvare qualcuno dall’annegare, e io, dopo essermi affannato e sbracciato al mio meglio, mi ritrovavo fra le braccia un bambolotto di plastica con una smorfia di scherno e il meccanismo interno di una presa in giro. Ma la storia del padre di S. non sono venuto a saperla allora: la nozione del ridicolo di quell’episodio gli avrebbe impedito di raccontarmela. E non è vero che, come ho scritto qualche pagina addietro, ero intento a mescolare meticolosamente i colori sulla tavolozza mentre lo ascoltavo: questo è successo dopo, e neppure tanto meticolosamente, o forse semplicemente con la carità inconsapevole di chi immaginava che sarebbe andato incontro a una sconfitta, quale che fosse. Come pittore, solo i mezzi della pittura avevo a portata di mano, ed ecco come è nato il secondo ritratto. Forse il mio silenzio lo aveva irritato e gli aveva rivoltato contro un’arma che io non sapevo maneggiare: il suo disprezzo indulgente si era tramutato in animosità che aveva cominciato a trasparire a ogni istante. Dev’essere stato questo il motivo per cui le sedute hanno cominciato a diradarsi. Il primo ritratto andava ben poco avanti, in attesa, si potrebbe dire, del secondo, dipinto con altri colori, altri gesti e senza alcun rispetto, perché era la rabbia a determinarlo e il denaro non lo paralizzava. Allora, supponevo ancora che il mestiere di dipingere sarebbe bastato per la piccola vittoria di una riconciliazione con me stesso.

In fondo, che importanza ha la storia del ritratto del padre di S.? Scagli la prima pietra quel ritrattista che non lo ha mai fatto, e sono sicuro che non sarò lapidato perché nessuno avrà pensato a me per un lavoro del genere. Qual è la differenza tra una fotografia immobile e un viso vuoto, che fa boccacce e smorfie in cerca della sua impossibile espressione sublime? Beato Medina, che si è potuto guadagnare i soldi senza dover parlare con il modello. E questo, cosa gli direbbe, se parlasse? Cosa mi dice S. mentre dipingo? Quali legami esistono, oltre alla comune paura e alla disonestà di entrambi? La segretaria Olga, così riservata nella grande sala del consiglio, così segreta nel guidarmi per i corridoi, almeno ha pronunciato qualche parola quando l’ho lasciata, nervosa, assurdamente eccitata, così borghese, insomma, quasi tenera nel suo repentino desiderio di essere apprezzata dal maturo pittore che ascoltava il suo messaggio, magari un po’ distratto, ma della distrazione facendo quasi la cappa invisibile di un’attenzione meticolosa. S. sarebbe mancato alla seduta combinata e mi avvisava tramite lei perché il mio telefono non funzionava, cosa di cui non mi ero ancora accorto. Ho fatto entrare la segretaria Olga, ansante per quei quattro piani senza ascensore: ho capito che era venuta pronta a trattenersi, curiosa di penetrare in un mondo che non conosceva affatto, senza dubbio abbellito nella sua immaginazione da quel tanto di pittoresco artistico che il cinema rivende a poco prezzo. Ho capito anche (ma non quel giorno) che S. le aveva parlato di me in maniera corretta, non per rispetto verso di me (immagino), ma perché il non considerarmi significava in un certo senso non considerare se stesso, visto che si rassegnava a stare immobile davanti a me che lo esaminavo come un chirurgo, creandone un doppione senza carne né sangue, ma con il rischio di dare l’illusione del reale. La segretaria Olga era sicura, credeva lei, ma curiosa e agitata, e pertanto in pericolo. O forse non tanto: dal momento che non cadeva certo nelle mani di un sadico assassino, il pericolo non c’era e il vantaggio poteva essere abbastanza. Come reciprocamente c’è stato, per ben due volte.

Le ho offerto da bere e lei ha accettato un whisky. Mi ha chiesto se poteva aiutarmi, e le ho risposto no, grazie, era la casa di uno scapolo, disordinata, sporca, e la mia scienza domestica bastava per prendere un po’ di ghiaccio dal frigorifero. Adesso ero distratto, sì, e non sapevo che tono dare alla conversazione. Mentre bevevamo, le ho ricordato la freddezza con cui mi aveva ricevuto alla SPQR. Non se ne ricordava, non poteva mica ricordarsi tutto. Forse era preoccupata per il lavoro, lettere da copiare, l’archivio in arretrato. Doveva essere per questo. Forse, ne ho convenuto io. A quel punto, mi ha chiesto se poteva vedere il ritratto del suo capo: da dove era seduta, poteva vedere il retro del cavalletto. Le ho sfiorato il gomito per aiutarla ad alzarsi dal divano, stringendo più del necessario. Lei non ha reagito e si è lasciata guidare. Ci siamo soffermati a guardare il ritratto, lei poco più avanti di me, fremendo per pura curiosità nervosa. Lo ha trovato somigliantissimo e mi ha chiesto se ci volesse ancora molto per finirlo. “Dipende”, ho risposto. “Se il suo capo mancherà così spesso, ce ne vorrà”. Da buona dipendente, si è lanciata in una sconclusionata spiegazione degli impegni di S., senza tralasciare né il golf né la ditta, né il bridge né la costruzione di un nuovo stabilimento. L’ho fatta accomodare sulla sedia destinata ai modelli e mi sono seduto accanto a lei, su uno sgabello alto. Mi era chiaro come fosse disposta a una rapida avventura, o lo intuivo in ogni suo movimento, come se in lei vi fosse una sorta di eccitazione incestuosa che il ritratto incompiuto di S. finiva per attizzare. O forse aveva anche lei la sua piccola vendetta da compiere per poi vivere in pace. Il comportamento degli uomini spazia in un mondo di possibilità. Se fin il Prete Amaro [[1]] ha ricoperto Amélia del manto della Vergine, perché mai la segretaria Olga non poteva fare l’amore con me davanti al ritratto del padrone (patrono, padre, papà) che un po’ l’aveva amata e poi se n’era stancato?

Rimango sempre di stucco davanti alla libertà delle donne. Noi le vediamo come esseri subalterni, ci divertiamo alle loro futilità, le cambiamo quando ormai sono sciupate, e ognuna di loro è capace di coglierci alla sprovvista, stendendoci davanti vastissimi campi di libertà, come se sotto alla loro obbedienza, un’obbedienza che sembra cercare se stessa, costruissero le mura di un’indipendenza rude e illimitata. Dinanzi a queste mura noi, che credevamo di sapere tutto dell’essere inferiore che a poco a poco abbiamo addomesticato o abbiamo trovato addomesticato, ci ritroviamo disarmati, inesperti e spaventati: quel cagnolino che tanto volenterosamente si rotolava per terra, sulla schiena, mostrando il ventre, d’un balzo si mette in piedi, fremente d’ira, e all’improvviso i suoi occhi ci sono estranei, occhi profondi, sfuggenti e ironicamente indifferenti. Quando i poeti romantici dicevano (o dicono ancora) che la donna è una sfinge, avevano ragione, che Dio li benedica. La donna è la sfinge, e dev’esserlo, perché l’uomo si è impadronito di ogni conoscenza, di ogni sapere, di ogni potere. Ma tale è la fatuità dell’uomo che alla donna è bastato erigere in silenzio i muri dell’ultimo rifiuto perché lui, sdraiato all’ombra, quasi fosse sdraiato sotto una penombra di palpebre obbedienti, potesse dire, convinto: “Non c’è niente al di là di questa parete”.

Tremendo errore da cui non ci siamo ancora risvegliati. La segretaria Olga ha fatto l’amore con me, ma non per obbedienza al maschio, né per abitudine alla sottomissione, né tantomeno per effetto del mio fascino. Mi ha accettato perché lo aveva già deciso, o si era preparata a deciderlo qualora l’occasione lo avesse richiesto. E se è vero che la mezz’ora intercorsa fra il suo ingresso e il gesto delle braccia incrociate con cui si è sfilata la blusa da sopra la testa, è stata colmata dai passaggi e dai trucchi di una seduzione stanca, il motivo è solo quel piccolo, reciproco cerimoniale cui le coppie non devono venir meno, o ne potrebbe essere pregiudicato il seguito. È lo stesso motivo per cui ci ostiniamo a voler conoscere tutte le peripezie della vita di una prostituta, fino ad allora sconosciuta, con cui finiamo per entrare in una camera a ore: forse lei si offenderebbe se non lo facessimo, forse sentiremmo di averla offesa se non l’avessimo fatto.

In quella mezz’ora, lei ha finito il suo primo whisky e ha incominciato il secondo. In quella mezz’ora, io le ho fatto un ritratto veloce, ma abbastanza somigliante, e per mostrarglielo, per guardarlo insieme, mi sono seduto accanto a lei sul divano, un po’ più indietro, per poter reclinare la testa sulla sua spalla con naturalezza e sfiorarle col viso i capelli. Tutto quanto si fa di solito, con un’aria che sembra distratta e che subito dopo lo nega, perché l’equivoco arrivi all’auge di quel tacito gioco in cui entrambe le parti giocano con le carte proprie e quelle altrui, mentre fingono di essere semplici spettatori. In un minuto di quella mezz’ora, però, mi ha chiesto se poteva tenere il ritratto e io, sempre in quel minuto, le ho risposto di averlo fatto apposta. E, un minuto dopo, stavo già facendole pressione sulle spalle, girandola verso di me, e cominciavo ad avvicinare le mie labbra alle sue. E posso dire che, se lei ha allontanato il viso, è stato solo perché non avvenisse tutto in quell’unico minuto che, lo ammetto, possedeva già la sua giusta dose di piacere concesso e consentito, e quindi lo si poteva accettare incompleto, sebbene indispensabile al piacere del minuto successivo. Gioco con le parole come se usassi i colori e li stessi mescolando sulla tavolozza. Gioco con le cose accadute, cercando le parole per riferirle, anche se solo approssimativamente. Ma, in realtà, devo ammettere che nessun disegno o dipinto sarebbe riuscito a esprimere, a opera delle mie mani, tutto ciò che fino a questo istante sono riuscito a scrivere, e a osare. Da sola, la bocca della segretaria si è rivolta verso la mia, quando la nuvola nera al centro del mio corpo, il sesso, e molto piú del semplice sesso, ormai si stava caricando di quelle correnti repentine di un fluido senza nome che mi trasporta il sangue verso le caverne segrete. A quel punto, mi sono reso conto definitivamente che la segretaria Olga aveva preso la sua decisione nel momento in cui S. le aveva ordinato di avvisarmi personalmente, o poco dopo, in qualche punto del suo corpo, e che la mia doveva essere solo una sorta di funzione lustrale, agente soprattutto della sua vendetta, agente suo fin da quando la segretaria Olga era ancora lontana da casa mia, tranquillo il mio sesso, un po’ fremente il suo. Ci siamo baciati come due adulti che sanno bene che cosa sia un bacio. Ci siamo baciati, sapendo tutti e due come mettere le labbra comodamente, come preparare il primo incontro delle nostre lingue, come dominare il respiro. E tutti e due eravamo consapevoli del preciso momento, durante il bacio, in cui io avrei dovuto chinarmi sopra di lei e lei avrebbe dovuto abbandonarsi sotto di me, fino a ritrovarci semisdraiati sul divano, in preda a quella nuova intimità dei corpi che si stringevano l’un l’altro, mentre le bocche continuavano nel loro impegno di provocare da lontano i sessi ormai eccitati. Il momento più difficile è quello in cui le bocche si separano: la minima parola può essere di troppo. Lo sapevamo entrambi, tant’è che ho fatto subito il gesto di afferrarle i seni, e lei, come se si ritraesse, ha incrociato le braccia e, con un solo movimento, si è sfilata la blusa dalla testa. Abbiamo fatto l’amore seminudi, e lo abbiamo fatto bene. Eccitata da un’attività mentale che potevo intuire, ben presto mi ha raggiunto e superato, e io, immobile nella mia nuvola nera, ho potuto assistere al suo orgasmo, fino al momento almeno in cui, a mia volta, ho perso il controllo di me stesso e sono entrato nel vortice. Come prima volta, era stato splendido. Non una parola era stata pronunciata, e io la temevo, perché da quella parola sarebbe dipesa la serenità del dopo o la comune e malcelata irritazione che facilmente nasce in situazioni del genere. Ho osservato che, nella posizione in cui eravamo, era impossibile che non le stessi pesando su una gamba, e gliel’ho chiesto. Lei ha risposto: “Un po’”, e sono state le prime parole, mentre la mossa seguente l’ha favorita proprio il disagio fisico, tant’è che ci siamo ritrovati a rassettarci i vestiti, con me che l’aiutavo a infilare la maglietta, serenamente, come una vecchia coppia ormai consolidata per cui non ci sono più sorprese. Ma quando l’ho vista guardare il ritratto di S., quando ho notato quel suo sorriso di scherno, le ho domandato bruscamente se fosse stata amante del suo capo. Non mi aspettavo quella mia domanda, ma lei si, se l’aspettava, o almeno la prevedeva prima o poi, allora o un po’ più tardi, perché ha girato gli occhi e pronunciato la parola: “Sì’”, cominciandola con gli occhi ancora fissi sul dipinto di S. e concludendola guardando me, o forse non me, non questo mio viso solcato dalle rughe, non questa macchia indistinta che, vista così  sta per un viso, guardando non me, ma un deserto profondo che forse si stendeva dietro, o dentro, di me. E questa segretaria Olga, importante perché segretaria e per avere un orgasmo straordinariamente sollecito, in quell’istante ha consentito che si aprisse una fessura nelle sue muraglie per farmi riprovare quella vertigine ormai antica che ho definito “libertà fondamentale della donna”. Con quel consenso, lei si prendeva così la sua rivincita su di me.

Quando, dopo qualche minuto, ha ripreso il suo ruolo di subalterna e, con effusioni un po’ caricate, è venuta ad abbracciarmi stringendomi le braccia intorno al collo e a offrirmi una bocca ormai priva di calore, il gioco era già diverso, le carte ovviamente false. Ma era la nostra unica ipotesi di naturalezza. Perciò, scherzando, abbiamo potuto chiederci a vicenda: “Com’è successo?”, e io, come mi spettava, ho potuto domandarle: “Quando ci rivedremo?”, e lei, come le spettava, ha potuto rispondere: “Non so, non so, è stata una sciocchezza”. Abbiamo giocherellato un po’ con le mani che non volevano sembrare distratte e ci siamo baciati deliberatamente, ma senza insistere granché: in lei e in me la marea stava refluendo come una vita che se ne va. Quando ci siamo salutati sul pianerottolo, mi ha dato un altro bacio, un bacio in cui ha concentrato quel po’ di ardore che ancora le restava. Non aveva più guardato il ritratto di S.

Ho chiuso la porta lentamente, rientrando nell’atelier, sentivo il corpo rilassato, lo spirito distratto, diviso fra quella piccola vanità di una facile conquista e l’ironia contro me stesso, che mi diceva che non avevo conquistato un bel niente. Fra noi due, solo lei aveva fatto quello che realmente voleva, solo lei era stata libera. Quanto a me, ero stato passivamente l’attore attivo (contraddizione e pleonasmo) di quell’intermezzo, il servitore muto che porta la lettera grazie alla quale l’intreccio si dipana: ho stretto la mano al mio Sant’Antonio (ha la mano destra in posizione giusta) e gli ho accarezzato la chierica: nessuno può togliermi dalla testa che gli orci che questo santo spaccava siano la maschera prudente degli imeni che violava. Ma era così pacificatore del mondo e amico delle donne, quel Sant’Antonio, che gli orci tornavano per miracolo al loro primitivo stato, ma non le verginità, e meno male. Rivisitando queste battute da eretico poco fantasioso, ho preparato l’acqua per il bagno. Il tempo che ci ha messo la vasca a riempirsi sono rimasto lì a guardare lo zampillo caldo, ad ascoltare il sibilo dello scaldabagno lì accanto, nella cucina. La solitudine, forse, mi pesava un po’. Cominciava a farsi buio. Quando, alla fine, ho chiuso il rubinetto, il primo istante mi è parso di silenzio totale, ma quando ho cominciato a spogliarmi, ho sentito la radio di un vicino diffondere nell’aria (discretamente) una canzone: riuscivo a stento a capire le parole, ma non a distinguere la voce, forse Ferré, o Reggiani, probabilmente. Uomini maturi, a un passo da quel poco che ancora gli rimane e che temono ormai sia quasi nulla: il tempo di entrare in un bagno caldo e rimanervi, quando la gente del palazzo rincasa a poco a poco, quando il corpo comincia a raffreddarsi insieme all’acqua, e rimane solo il gocciolio del rubinetto chiuso malamente, quando non si sa ancora se qualcuno si accorgerà dell’accaduto prima che l’acqua trabocchi e cominci a inondare il piano sottostante. Con uno slancio che non ho neppure finto di frenare, ho tolto il tappo: l’acqua si è abbassata rapidamente fino al gorgoglio finale delle vecchie tubature. E, scampato alla morte, ho agganciato la doccia e mi sono lavato. In fretta. Qualche minuto dopo, ancora bagnato e infilato in un accappatoio, guardavo da una finestra dell’atelier il cielo ormai tutto buio, le luci del fiume, la notte. “Che cosa succede?” mi sono domandato.

Sono passati ventitre giorni dalla data in cui ho scritto: “Continuerò a dipingere il secondo quadro”, e oggi mi domando: “Continuerò?” Fra me e lei (a separarci) c’è tutto il cammino percorso in queste pagine, che non pensavo sarei riuscito a scrivere così facilmente. Senza dubbio, al punto in cui mi trovo, tante cose importanti in apparenza hanno perduto peso e significato: la prima è proprio il secondo quadro. Comincio a capire che, siccome sono il pittore di cui si è detto nelle prime pagine, quel quadro è un equivoco: nessuno non è, essendo. Non posso essere il pittore capace di realizzare nel secondo quadro il suo progetto se continuerò, obbediente e prezzolato. a dipingere il primo. Come ritrattista, sono e sarò soltanto quello dei primi ritratti: non mi è permesso nessun secondo ritratto. Quando ammettevo, allora, che il tentativo è fallito, ammettevo anche che, comunque, potevo continuare a perseguirlo, come se in fondo mi sentissi incapace di rinunciare alla probabilità, ormai minima, di essere il pittore che, occultamente, è il pittore vero. Mi sarei gustato il trionfo da solo, finalmente libero dalla banalità venduta, dialogando con l’opera riservata, quella che nessun prezzo potrebbe pagare. Oggi so che non sarà così: con una bomboletta spray ho ricoperto di colore nero il secondo ritratto. Ho fatto entrare in una notte superficiale, ma già eterna, i colori dell’errore e i gesti sbagliati che ve li avevano messi. La tela è ancora lì sul cavalletto, ora infilata, nera, nel buio del ripostiglio, come un cieco che in una stanza oscura cercasse un cappello nero tolto un’ora prima. Riesco a immaginarla così, invisibile, nero su nero, legata allo scheletro del cavalletto come alla forca l’impiccato. La vera immagine di S., che ho ricercato, è separata dal mondo della luce (o delle tenebre fugaci di quest’ora notturna) da una pellicola fatta di milioni di gocce, dura e respingente come uno specchio nero. Mi sono comportato esattamente come se tagliassi un arto, avanzando lentamente tra le fibre del tessuto muscolare, incidendo vene e arterie col movimento secco e preciso di chi garrotta qualcuno, o come il meticoloso boia che conosce a perfezione la forza che sposterà irrimediabilmente la vertebra e che troncherà la spina dorsale. Esiste un solo ritratto di S., l’unico che io so fare, uguale non a ciò che sono, ma a ciò che vogliono da me, a meno che io non sia, davvero, proprio e soltanto ciò che vogliono da me. Se queste parole sono esatte, se io non sto sbagliando, allora esisto nella dimensione di quello che mi comprano. Io sono l’oggetto comprato e l’osservatore fedele di questa ricerca. Eliminati dal mondo gli acquirenti naturali (ammettendo per ipotesi che sia naturale comprare cose del genere), chi altri potrebbe volere questi quadri? Chi altri potrebbe ordinarli? Perduto il pubblico di questo tipo d’arte, cosa potrei farne dell’arte e di me stesso? Lì, nel ripostiglio, il secondo quadro mi fornisce metà della risposta: il tentativo di vendere qualcosa di diverso è già fallito in principio e adesso non è altro, letteralmente, se non un tentativo non realizzato. Certo, non l’ho cancellato da me stesso, ma l’ho sottratto al tempo altrui. È un senso vietato di cui mi rendo conto solo io: ma chiude una strada che supponevo rivolta al mondo.

Rimangono questi fogli. Rimane questo nuovo disegno, che nasce senza che io lo abbia studiato: in ogni istante, anche quando lo interrompo, mi offre la voluta già iniziata, e a ogni pausa dimostra la probabilità di essere infinito. Quando poso il pennino sulla curva interrotta di una lettera, di una parola, di una frase, quando oltrepasso di due millimetri un punto, o una virgola, mi limito a proseguire un movimento che viene da prima: questo disegno è il codice e, insieme, la sua decifrazione. Ma codice e decifrazione di che cosa? Dei fatti e della personalità di S., oppure di me stesso? Quando ho deciso di imbarcarmi in questo impegno, credo di averlo fatto (a distanza, ormai mi è difficile averne la certezza, anche se posso consultare nel testo la formulazione del mio proposito: una consultazione che, del resto, mi renderebbe solo lo strato esterno, immediato, di un proposito formulato a parole, non certo delle parole che sto scrivendo oggi, ma le parole di allora) per scoprire la verità di S. Ma che cosa ne so, io, che cosa ne so della cosiddetta verità di S.? Chi è S. (esso)? Che cosa è la verità? domandò Pilato. Qual è, ripeto, la verità di S.? E quale verità, quale cosa che sia possibile esprimere, o definire, o classificare così? La verità biologica? Quella mentale? Quella affettiva? Economica? Culturale? Sociale? Amministrativa? La verità del temporaneo amante e protettore della signorina Olga, la sua quinta segretaria? Oppure la verità coniugale? Quella di un marito che tradisce? Quella di un marito a sua volta tradito? Quella di un giocatore di bridge e di golf? Quella di un elettore di governi fascisti? Quella dell’acqua di colonia che usa? Quella della marca delle sue tre macchine? Quella dell’acqua della piscina? Quella delle sue ossessioni sessuali? Quella del suo gesto, direi quasi timido, di titillarsi il mento? Quella delle sue rughe verticali fra le sopracciglia? La verità dell’ombra che fa? Dell’urina che produce? O della voce che tempo addietro ha licenziato trentaquattro operai della prima fabbrica per la costruzione della seconda? La verità dei nuovi macchinari che già fanno a meno di trentaquattro operai e domani di altri trentaquattro? Quale verità, segretaria Olga?

Non le ho fatto alcuna di queste singole domande, ma tutte, e tante altre ancora, mi pesavano sul corpo quando il mio corpo pesava sul corpo della segretaria Olga, tre giorni dopo il nostro primo rapporto (sessuale). Che cosa mai l’aveva fatta ritornare? Non credo le bastasse il piacere di rinnovare quel suo felice orgasmo: sono cose (gli eventi, le sensazioni, i piaceri) che contano meno di quanto si creda. La memoria non fissa il piacere, lo registra come una qualità, non come un valore. Ma la segretaria Olga è tornata, e non solo ha raggiunto il suo orgasmo, ma ne ha avuti due, parlando a voce alta durante il secondo, mentre io, sdraiato sopra di lei, mi liberavo in silenzio. Era venuta, forse, per via di S., per continuare la sua piccola rivincita, per compiere il suo piccolo sacrilegio, l’incesto senza conseguenze, quella modesta dissolutezza con cui sfidava il sistema che la (s)degnava fra le nove del mattino e le sei del pomeriggio e le restanti ore del giorno e della notte, fuori e dentro il Senatus Populusque Romanus.

La segretaria Olga si è presentata a casa mia subito dopo l’uscita dalla SPQR e si è infilata nel letto. Senza neppure andare a guardare il ritratto di S.: si è infilata nel letto, non si è sdraiata sul divano scomodo, ma sul letto, quasi nuda, col reggiseno e le mutandine che le avrei tolto io, dopo. Così bisogna farle, queste cose. Eravamo tranquilli, perché Adelina (c’è una sua fotografia proprio là, in camera, sopra una mensola, fra tante altre cianfrusaglie) si guarda bene dal venire quando ha le mestruazioni: obbedisce, credo, all’oscura, inconsapevole convinzione di trovarsi in stato di impurità. In quei giorni, è la figlia più puntuale del mondo: appena chiude la boutique, monta sulla mini e torna a casa, dove stanno insieme tutte e due, madre e figlia, la donna risecchita e quella umida, entrambe segrete, e l’una tale e quale all’altra. Per me sono giorni di riposo, adesso un po’ turbato dalla segretaria Olga che, alzandosi dal letto, va a telefonare a casa per dire che farà tardi in ufficio, un lavoro urgente che serve al capo per il mattino dopo, e quindi di non aspettarla per cena e non preoccuparsi dell’ora. Mi domando con chi stia parlando e poi lo domando anche a lei. Parlava con la madre, le madri c’entrano sempre in queste faccende, consapevoli o inconsapevoli, ma sono loro a giustificare il ritardo, l’assenza, in maniera credibile, per tranquillizzare le famiglie e non macchiare l’onore borghese. La segretaria Olga, almeno, non ha un marito, né deve avere fidanzati. Aspetta la grande occasione in una delle sue varie forme, ma sa bene che qui non l’ha trovata. È venuta perché le andava e perché ha un problema da risolvere con il ritratto che c’è nell’atelier. Seduta sul letto, adesso completamente nuda e con la pelle luccicante di sudore (siamo in estate, credo di non averlo ancora detto, e ho sempre notato nei libri la meticolosità con cui si parla del succedersi delle stagioni), mi chiede se possiamo cenare in casa. Dice di avere un po’ di tempo, come ho appena sentito, e possiamo approfittarne. Che le piace venire a letto con me, che io so come far godere una donna e che, anche se non durerà, è comunque bello. Me lo dice così, in una maniera che può sembrare cruda, ma è solo naturale. Obbedendo ai dettami della modestia mascolina, io rispondo all’ultima parte del discorso e la porto in cucina: con uova, prosciutto, pane e vino si fa una cena. E poi c’è qualche pesca sciroppata, a mo’ di dolce, e un caffè decoroso. La vita è davvero molto semplice.

Solo dopo cena abbiamo fatto l’amore per la seconda volta. Se fossi portato per queste cose, avrei messo un registratore in camera per cogliere le reazioni più diverse, le parole del prima, del durante e del dopo, i sospiri, i gemiti, i gridolini quando ci sono, le parole di una tenerezza in cerca di qualcuno su cui riversarsi che lì si mette a nudo, le oscenità che infiammano il sangue e il cervello, l’accordo verbale di gesti e posizioni. Avrei avuto così un resoconto completo della vita nel Senatus Populusque Romanus, tutti gli elementi su S., la spiegazione della storia (sentimentale, sensuale, d’amore, erotica o sociale?) fra capo e subalterna, la conferma delle circostanze in cui è stato fatto il ritratto del padre di S., qualcosa sull’autorità insopportabile e provocante della madre di S., ma anche qualche diceria sul comportamento della moglie di S. e sul modo come è stato ideato e poi attuato il piano per liquidare una ditta concorrente, con la segretaria Olga quale unica testimone, nella sua qualità di impiegata di fiducia e di segretaria particolare dell’amministrazione. Ho ascoltato tutto senza prestarvi grande attenzione (non avevo ancora cominciato a scrivere), prendendo quel lungo discorso, quasi una confessione, come l’espressione della fiducia nella bontà universale che a volte proviamo (la fiducia, non la bontà) dopo aver fatto tanto l’amore, specialmente se gli orgasmi sono avvenuti simultaneamente e i corpi si abbandonano poi a uno sfumato sentimento simile alla gratitudine. E ho paragonato tutto a quelle conversazioni, anch’esse tanto lunghe, nel letto della prostituta, purché la donna non vada di fretta e la padrona abbia la luna buona (perché siamo clienti nuovi o, al contrario, clienti abituali), anche se lì, nel mio letto, la mia mente annebbiata non riusciva a centrare perfettamente le competenze, anche se, cioè, mi sfuggiva quale di noi due, io o lei, occupasse a maggior diritto il posto della prostituta. Verso mezzanotte mi ha telefonato Adelina, già a letto, già pronta alla sua notte dolorosa, e io sono riuscito a parlare in modo disinvolto e normale, mentre cercavo di non sentire le dita insistenti che mi frugavano tutto il corpo. Finalmente Adelina mi ha salutato: “A domani”, e io: “A domani”, mentre la segretaria Olga, improvvisamente un po’ fredda, si alzava e si accingeva a cercare i vestiti.

Mi sentivo troppo stanco per tentare di capire. Sono rimasto lì, sdraiato sopra le lenzuola, perché mi piace stare nudo e perché so che il mio corpo non è fra quelli che inesorabilmente disturbano lo spazio. L’età non ha distrutto ancora tutto. La segretaria Olga (perché mi rifiuto di separare il nome dalla professione? Il nome della professione?) ha finito poi di vestirsi e, in quell’istante, il quadro che formavamo mi si è fatto incongruente, come lo è la Festa campestre (Giorgione) o il suo riflesso ottocentesco Déjeuner sur l’herbe (Manet), o come lo sono i quadri lunari di Delvaux, con la differenza che nel mio caso era il signor (o Monsieur) a essere nudo. L’incongruenza del quadro (il mio quadro) e dei quadri (Giorgione, Manet, Delvaux) era, dentro di me, la stessa che ha accostato il parapioggia alla macchina da cucire sul tavolo anatomico (Lautréamont). Ho domandato alla segretaria Olga se conoscesse Lautréamont e lei mi ha risposto semplicemente: “No”, senza neppure preoccuparsi di sapere chi fosse l’oggetto della mia domanda. A sua volta, mi ha domandato l’ora, e le ho risposto che li, nella camera, era l’una meno dieci, ma fuori non lo sapevo, doveva essere più tardi visto che il mio orologio andava indietro (spesso). Ha voluto sapere dove fosse la differenza, sorridendo, le ho risposto: “Se fosse fuori, probabilmente sarebbe già andata via, ma lì c’era ancora”. Emendando all’ultimo istante l’impertinenza, ho aggiunto, e meno male, perché così potevo averla con me ancora per un po’ di tempo. Lei ha accennato un movimento, quasi un riflesso condizionato, non (del tutto) consapevole, un movimento che era il primo gesto di chi sta per rispogliarsi, con una rassegnazione stanca. Poi si è ripresa (anche lì, forse, inconsapevolmente) e ha raccolto dal pavimento il vassoio della cena che ha portato in cucina. Da lì, mi ha domandato se bisognasse lavare i piatti, e io le ho risposto: “No”. Non doveva lavarli, come non doveva lavare il lenzuolo sporco. Ho tenuto per me queste ultime parole e ho cominciato ad avvertire il sonno, ad aver voglia di sfuggire al mondo. Sentivo la segretaria Olga nel bagno, probabilmente lì a truccarsi, e ho desiderato che se ne andasse, che scendesse quella profonda spirale della mia scala, trascinata dal peso della macchina da cucire che funzionava a pieno ritmo e cuciva gli scalini, mentre il parapioggia chiuso, rigido, forava gli occhi di personaggi dipinti in quadri appesi alle pareti della scala di un’altra spirale, mentre io, ancora sdraiato e nudo, aspettavo, sul tavolo anatomico, l’inevitabile. Mi sono svegliato e ho visto la segretaria Olga davanti alla porta della camera, pronta per andarsene. E mi ha detto: “Me ne vado. Adesso puoi rimettere l’orologio”. Ho fatto per alzarmi e trattenerla, ma lei ha accennato un saluto, senza avvicinarsi, ed è sgusciata via nel corridoietto, ha aperto la porta, che poi ha richiuso delicatamente, seguendo certo le lezioni della madre, e infine ho sentito i suoi tacchi picchiettare sugli scalini come l’ago di una macchina da cucire. Chissà, forse i vicini pensavano che fosse Adelina a scendere. Allora ho fatto il 161 (l’ora esatta), e poi ho chiamato Adelina per dirle quanto mi piacesse (stava già dormendo). Il giorno dopo, la domestica avrebbe cambiato le lenzuola. Mi sono alzato per cercare un libro e, casualmente, per onorare la patria prima di dormire (non la patria, ché sta già dormendo), mi sono capitati i Dialoghi di Roma di quell’ingenuo buonuomo che è stato Francisco de Holanda. [[2]]. Ho aperto a caso e mi sono messo a leggere, fino a quel brano del secondo dialogo dove Messer Lattanzio Tolomei risponde a Michelangelo: «“Sono soddisfatto”, rispose Lattanzio, “e conosco meglio la grande forza della pittura, che, come avete accennato voi, in tutte le cose degli antichi si conosce, e financo nello scrivere e nel comporre. E forse con le vostre grandi fantasie non avrete tanto, quanto me, sondato la grande consonanza che possiedono le lettere con la pittura (che della pittura con le lettere, quella certo l’avrete sondata); né come siano tanto legittime sorelle queste due scienze che, separate l’una dall’altra, niuna di esse è perfetta, malgrado che il tempo presente sembri averle in qualche modo distinte. Eppur tuttavia ogni uomo dotto e consumato in qualsivoglia dottrina troverà che, in tutte le sue opere, egli esercita sempre in più maniere il mestiere di pittore discreto, dipingendo e sfumando il suo tema con grande cura e precisione. Ebbene, aprendo gli antichi libri, pochi fra di essi sono quelli famosi che non sembrino pittura e tavole dipinte; ed è certo che i più pesanti e confusi lo sono solo perché lo scrittore non è buon disegnatore e molto acuto nel disegnare e ripartire la sua opera. E le opere più facili e limpide sono opera del miglior disegnatore. E persino Quintiliano, nella perfezione della sua Retorica, prescrive che non solo nel ripartire le parole il loro oratore disegni, ma che con la sua stessa mano sappia tracciare e fissare il disegno. Ne consegue, signor Michelangelo, che talvolta voi definiate un grande letterato o predicatore come un discreto pittore, e che il grande disegnatore lo chiamiate “letterato”. E chi massimamente si avvicinerà proprio all’antichità, troverà che tanto la pittura quanto la scultura furono ambedue chiamate “pittura”, e che al tempo di Demostene la chiamavano “antigrafia”, vale a dire “disegnare” o “scrivere”, ed era parola comune a entrambe le scienze, e che la “scrittura” di Agatarco si può chiamare “pittura” di Agatarco. E penso che anche gli egiziani solevano notoriamente tutti dipingere, coloro che dovevano scrivere o esprimere qualcosa, e i loro stessi geroglifici erano animali e uccelli dipinti, come si vede ancora negli obelischi di questa città venuti dall’Egitto.». Il giorno dopo non ricordavo di aver letto oltre, e non saprei se mi fossi addormentato subito alla fine del paragrafo, o se fossi rimasto lì per un bel pezzo a fissare questo passo del lungo discorso di Lattanzio. Ho dormito e non ho fatto sogni, ma forse erano sogni quelle sinuosità, in apparenza liquide, che lentamente, quasi vortici scritti o disegnati, mi son passate davanti agli occhi per non so quante ore di sonno.

Ho trascorso la mattina lavorando al secondo ritratto. Mi ero svegliato deciso (quale motivo mi aveva fatto decidere mentre dormivo?) o, forse, mi ero deciso in qualche momento di questo mio stato di veglia (ma quando, e per quale motivo?) a portare avanti il quadro. Non che pensassi di non concluderlo, ma il secondo ritratto, al contrario del primo, obbediente a un programma stabilito di schemi e procedimenti (soggetti, naturalmente, all’introduzione dei fattori e delle varianti peculiari a ciascun modello), ammetteva ed esigeva una libertà diversa, un pizzico d’instabilità in più, in base agli elementi nuovi di cui avrei potuto, o creduto, di disporre in quella che, per me, era allora la ricerca della verità di S. Per la prima volta ho trasportato il quadro dal ripostiglio nell’atelier, senza toglierlo dal cavalletto, e l’ho affiancato al primo ritratto. La somiglianza era quasi inesistente, solo quella che c’è tra un uomo e un altro uomo, entrambi appartenenti a una specie per certi versi caratterizzata e distinta dalle altre. Io stesso non mi ero reso conto di averli dipinti così diversi: ma, nel più profondo, sapevo che erano la stessa persona. Eppure bisognava indagare su un certo dubbio: erano la stessa persona grazie a una medesima mancanza di significato (“Quella che faccio io non è pittura”), oppure la stessa persona perché colta, in fin dei conti, nel secondo ritratto e quindi necessariamente diversa nella sua immagine? Quanto alla somiglianza, il primo ritratto è un ritratto di S.: persino sua madre (e le madri non sbagliano mai) lo ha confermato, quell’unica volta che è venuta con il figlio ad assistere alla posa. Ma il secondo ritratto, che la madre non riconoscerebbe, secondo me è altrettanto somigliante, malgrado sia diverso dal primo, come una goccia d’acqua è diversa da un’altra goccia d’acqua. Per chi sarebbe un’immagine vera questo secondo ritratto? O ancora: quale momento della vita di S. ha rappresentato o rappresenterà questo ritratto? Mentre guardavo ora l’uno ora l’altro dei due dipinti, ho pensato a come sarebbe stato interessante mostrare il quadro del ripostiglio alla segretaria Olga senza dirle chi avevo inteso raffigurarvi (ah, questa ambiguità della scrittura). Forte della sua conoscenza di letto, sarebbe stata in grado la segretaria Olga di riconoscere S. in quello stravolgimento? Intenderei forse affermare che quella conoscenza è stravolgente? Che quello stravolgimento corre parallelamente a questo che ho realizzato nel quadro, entrambi conoscenza o, perlomeno, un tentativo di? E perché no, tentativo anch’esso stravolto? Che cosa rappresentavo, io, per Adelina quando, pur conoscendola, non ero ancora andato a letto con lei? Chi sono per lei, di fronte a me stesso, ora che sono stato a letto con la segretaria Olga, senza che lei lo sapesse, ma essendone consapevole io stesso?

Ho bevuto solo una grande tazza di caffè, senza toccare cibo. A metà mattina è arrivata la donna delle pulizie. Viene qui da tre anni e io ne so ben poco della sua vita. Sembra più vecchia di me, ma probabilmente non lo è. Dura, spinosa e taciturna, lavora con la sobrietà di una macchina. Ha lavato i piatti, cambiato le lenzuola (certo, questo l’avrà fatta soffrire un po’ se ha provato anche lei il suo piacere prima di restare vedova) e pulito il resto della casa, senza avvicinarsi all’atelier, e poi se n’è andata. Non ha fatto domande, sa che pranzo sempre fuori, e la pago ogni settimana. Ma, in realtà, cosa penserà di me la domestica Adelaide? Che primo e secondo ritratto farebbe di me se fosse un pittore (cattivo) come me? Sento il rumore attutito delle pantofole giù lungo la scala e scopro (a dir la verità: rinnovo la scoperta) che mi interessano i suoni prodotti da chi scende una scala, che li registro in un archivio assolutamente inutile ma, a quanto pare, indispensabile, come una mania insignificante, e tuttavia coinvolgente. Eccomi di nuovo nel silenzio dell’atelier, la strada dimenticata al di là delle finestre e il resto della casa che sta recuperando la solitudine interrotta, mentre gli oggetti, cambiati di posto, trasportati bruscamente o semplicemente spostati di qualche millimetro, si abituano alla nuova posizione, rilassandosi sollevati, come le lenzuola pulite nel letto, o, al contrario, cercando di adattarsi alla violenza, come le lenzuola sporche, ammucchiate nella cesta della lavanderia, odorose di corpo ormai freddo.

Visto a distanza, compio i gesti di un Rembrandt. Come lui, mescolo i colori sulla tavolozza, come lui allungo il braccio deciso senza esitare nella pennellata. Ma il colore non dà lo stesso risultato, c’è una torsione del polso in più o in meno, una pressione maggiore o minore sui peli di tasso (non di Tasso) del pennello: ma forse Rembrandt non usava pennelli di tasso, e quindi la differenza è tutta qui? Se facessi fare una macrofotografia di un particolare di un quadro di Rembrandt, potrei forse trovare la conferma di questa differenza? E la differenza non sarà, magari, quella che separa il genio (Rembrandt) dalla nullità (io)? [Fra parentesi, ho messo fra parentesi “Rembrandt” e “io” perché non risultasse scritto “il genio dalla nullità”, un’assurdità che neppure un praticante alle prime armi, quale sono io, si farebbe sfuggire]. Ma i pittori a me contemporanei usano tutti pennelli uguali o simili ai miei, e quindi dev’esserci qualche altra differenza perché la critica esalti loro e non me, perché loro, per quanto diversi l’uno dall’altro, siano tutti migliori di me e io peggiore di tutti loro. Questione di polso? Questione di che? Mi viene in mente la frase di Klee: “Un quadro che abbia per soggetto un uomo nudo deve essere costruito in modo tale che sia rispettata non l’anatomia dell’uomo, ma quella del quadro”. In tal caso, quali mancanze e quali errori commetto nell’anatomia di questi volti, visto che non mi bastano per rispettare l’anatomia del quadro? Eppure, io sono pienamente consapevole che la macrofotografia di Rembrandt non presenterebbe niente di simile a quella di Klee.

Mi dilungo sullo sfondo del secondo ritratto, tracciando volute brunastre recuperate forse dal sogno. Cominciano a coprire tutti quei segnali naturalistici con cui, prima, avevo inteso esprimere un potere industriale e finanziario: ciminiere, tetti a dente di sega, nuvole a forma di cifra orizzontale. A mano a mano che il nuovo sfondo si allarga, il viso di S. (o l’immagine che io chiamo S.) sembra coprirsi, mi pare, di cenere, ed è come un viso morto che, al primo stadio della corruzione, cominci ad assumere una tonalità azzurrognola. Non avvicino il pennello alla testa. Tutto il lavoro è dedicato allo sfondo, dove metto colore su colore, adesso con certe sfumature più scure che creano segnali intraducibili in qualunque linguaggio, mentre la densità del colore crea una sorta di piano anteriore che trasforma quello della testa e del busto in un collage che si direbbe fatto posteriormente, pressando bene col palmo della mano e premendo con la punta delle dita il contorno, su cui gocciola il colore ancora umido. In quel momento, ma senza interrompermi per pensarlo, ho la prima intuizione del risultato finale del quadro. Avevo rinchiuso S. in una prigione di escrementi.

Due giorni dopo ho cominciato a scrivere, e in tutto questo tempo i due quadri hanno progredito verso la loro fine inevitabile: il secondo verso la nuvola nera che lo ha isolato dal mondo, il primo verso la sala del consiglio di amministrazione del Senatus Populusque Romanus. Oggi è proprio oggi. Non c’è nessuna verità da ricercare, niente sarà creato dall’interno della sua apparenza. L’unico ritratto di S. che rimane vengono a prenderlo domani. È asciutto, tecnicamente ben realizzato, garantito nel tempo: riguardo a questo, sono il miglior pittore della città. Ma in questa città sono anche il maggior errore vivente: non ho fatto nulla di quanto ho progettato, e queste pagine non hanno aggiunto allo zero iniziale neppure il valore dello spessore di una sola di esse. È finita. Ho tentato, ho fallito, e non ci saranno altre occasioni.

Non mi serve più a niente quello che scrivo, ma ho deciso di annotare almeno il succo di questi quattro mesi. A ritirare il ritratto è venuta la segretaria Olga, accompagnata da un fattorino della ditta (per la prima volta ho notato sul colletto della giacca di quell’uomo la sigla SPQR, mentre credevo di essere stato io a inventare questo anacronismo), e si è dimostrata, in tutto, l’impiegata efficiente, disinvolta, con quel pizzico di autorità (per contaminazione e contrasto) che mi aveva accompagnato a vedere i ritratti nella sala del consiglio. Mi ha consegnato l’assegno, ha infilato in una cartella la ricevuta che avevo già scritto, timbrato e firmato, e mi ha salutato naturalmente, senza durezza, senza freddezza, neutra. Sono rimasto lì a sentire i passi acuti che scendevano le scale accompagnati da quelli dell’uomo, dei passi pesanti e cauti, in un contrasto di suoni alti e bassi che scemavano in parallelo, mantenendosi diversi, sempre più lontani, sempre più giù nella spirale, fino a perdersi in un silenzio che era il rumore della strada, per poi risorgere, trasformati in un battito di sportelli, nel rombo di un motore che si gonfiava nell’aria e poi si riduceva nella prospettiva della strada, fino a cessare del tutto.

Nessuno direbbe che su questo divano la segretaria Olga, per quanto scomoda, abbia fatto l’amore con me, che su quel letto, comoda e tutta nuda, abbia rifatto l’amore per ben due volte, parlando ad alta voce la seconda. Nessuno direbbe che in tutte e due le occasioni abbia portato via dentro di sé una parte del mio corpo, una secrezione, quel liquido incredibile in cui galleggiano e nuotano, a milioni, quegli aspiranti a un parassitismo del tutto particolare. Nessuno direbbe, vedendoci semplicemente nell’atto di pagare e di ricevere, che vi siano stati ben altri conti fra di noi, non in sospeso, ma saldati così di recente che non so neppure se fosse già completamente asciutta la macchia umida lasciata da entrambi sul lenzuolo. Credo di aver già scritto che la vita è terribilmente semplice. Adesso ho un motivo in più per pensarlo. Se come filosofia non è valida, in compenso ha il vantaggio di porre subito i suoi limiti nel punto in cui si definisce, come per esempio morire prima della nascita, come per esempio che la farfalla non vive più di un giorno, e di quel giorno non arriva neppure a vedere la notte. Mi sento, dentro, in una specie di notte, senza avere realmente conosciuto il giorno, aggrappato solo alla semplicità di affermare che la vita è semplice. Oggi, come faccio sempre quando vendo un quadro (e questo l’ho venduto bene), do una festicciola (è una riunione, per essere precisi) nell’atelier. Al solito: qualcosa da bere, la trinità di noci, pinoli e uva passa, dei salatini, tutte quelle cose che si comprano pronte e sono fatte, ho il sospetto, con gli stessi materiali o ingredienti di base, diversamente combinati in dosi e accostamenti. Ci sarà Adelina, naturalmente, e verranno alcuni amici. Ma io mi chiedo che interesse ci sarà nell’annotare tutto questo.

Quale ostacolo mi ha trattenuto, in fondo, sul cammino indicato nella prima pagina di questo manoscritto ed è ancora lì a interrogarmi? Proprio lì, io confesso di aver fallito il tentativo del secondo quadro, proprio lì, o subito dopo, si dice chiaramente ciò che io, pittore, penso della mia pittura, di quella che il mio primo quadro veramente esprime. Forse non è coi mezzi che offre la pittura che potrei giungere a conoscere qualcosa (non la chiamo più “verità”) di un modello, per quanto questi possa credere di conoscersi riconoscendosi nel quadro. Ricorrendo alla scrittura, mi rendevo conto che stavo semplicemente voltando le spalle a una difficoltà: non la ignoravo, la sapevo comunque minacciosa, ma era come se la novità dello strumento, tutto ciò che per me doveva essere invenzione reale e non puro e semplice calco di esperienze precedenti, bastasse, di per sé, ad avvicinarmi all’obiettivo. Era come se (fiducioso come lo era S. nell’ovvietà del mio lavoro di pittore) io lo cogliessi di sorpresa. Se da qualcosa S. riteneva opportuno difendersi, doveva essere dai miei pennelli, dalla tela, dai colori, dai miei movimenti di benedizione o di scomunica sul ritratto che a poco a poco si andava definendo: non certo da qualche pagina cui non poteva avere accesso, non certo da un lavoro che, non solo per lui, era segreto. Ma quali strade dovrei percorrere per arrivare a questo luogo indifeso, sondato, per così dire “innocente”, dove infine potrei scoprire, dove finalmente potrei conoscere S.? Quanto di lui sono venuto a sapere, l’ho scoperto tramite la segretaria Olga, e per giunta involontariamente: mi si è concessa lei, non l’ho conquistata io. Ho perso tempo in tante digressioni che (oggi me ne rendo conto) mi hanno condotto altrove, là dove ho scoperto me stesso piuttosto che l’altro. Che delusione avrebbe provato Vasco da Gama se, intrapresa la via delle Indie, si fosse imbattuto laggiù nell’estuario del Tago? In situazione ben diversa si trovava Fernao de Magalhaes, [[3]], per il quale doveva essere una questione d’onore, se fosse arrivato vivo alla fine del viaggio, di approdare nel punto esatto da cui era partito. Ma io non volevo fare il giro del mondo, né del resto questa mia calligrafia potrebbe condurmi così lontano: ho solo progettato (uomo con un lavoro) di dare al mio lavoro una ragione per continuare a essere, sia pur barando nell’usare i ferri di un altro mestiere e di altre mani. Col risultato dell’esperienza davanti, vorrei sapere in quale punto ho sbagliato, dove mai mi sono infilato in quelle diversioni che mi hanno portato sempre piú lontano dal mio proposito e dove non ho neppure accettato l’aiuto di chi magari poteva darmelo al suo meglio, come nel caso della segretaria Olga. Voglio pensare che oscuramente sapevo già quanto sarebbe stato inutile: la segretaria Olga mi avrebbe dato (e qualcosa del genere me l’ha dato) la sua immagine di S., come d’altronde me ne darebbe un’altra l’uomo che lavora per lui appuntando schede e timbrando fogli. Come me la darebbe il fattorino che è venuto a ritirare il ritratto e se n’è andato scendendo le scale, forse nervoso per l’onore di tenere fra le braccia la preziosa immagine, forse nervoso per la rabbia di doverlo fare, forse servile, forse pronto agli ordini, forse orgoglioso e capace di un odio profondo. Come, in fin dei conti, la darei anch’io se mi fossi preso la briga di coglierla, sapendo in anticipo dove trovarla. Ma sarebbe sempre un’immagine, mai la verità. Ed è stato questo, probabilmente, il grande errore: pensare che la verità sia possibile coglierla dall’esterno, con i soli occhi, supporre che esista una verità acquisibile in un istante e poi, da quel momento, tranquillamente immobile, come neppure la statua lo è, la statua che si contrae e si dilata in virtù della temperatura, che si consuma nel tempo e che modifica non solo lo spazio circostante, ma anche, impercettibilmente, la composizione del suolo su cui poggia, per quelle minuscole particelle di marmo che si staccano da lei, come da noi i capelli, i pezzetti d’unghia, la saliva e le parole che pronunciamo. Anche se fossi andato a scuola da Sherlock Holmes, o da quei detective moderni che usano il cervello quanto i muscoli e le armi, mi ridurrei a un povero frustrato cui S., integro, direbbe sorridendo: “La vita, mio caro Watson, è estremamente semplice”. In verità, quali domande potrei fare, e a chi, per scoprire la verità? Andare a letto (giacché caso ha voluto che cominciassi così con tutte le donne con cui è andato a letto S., ivi compresa la legittima? Piazzare qualche spia nella SPQR per installare microfoni e telecamere, per microfotografare documenti compromettenti? Travestirmi da caddy al golf? Da cameriere al bar? Puntargli un’arma dietro un angolo, intimandogli: “La vita o la verità”, e quindi riconoscendo che la vita non è la verità? Con grande lavorio potrei scoprire la storia del Senatus Populusque Romanus e della famiglia, sapere la data di nascita di S. e tutte le altre date per lui importanti fino a oggi, potrei indagare fra i suoi amici e nemici, ne otterrei tante immagini quanti sono gli episodi, le date, gli amici e i nemici, ma pur conoscendo tutto quanto fosse possibile conoscere, rimarrebbe pur sempre l’ultimo problema: come trasporre tutto in un ritratto, come trasporre tutto ciò in un manoscritto? In fin dei conti, la mia arte non serve a niente: e questa mia calligrafia, a che cosa serve?

Chi fa un ritratto, dipinge se stesso. L’importante, perciò, non è il modello ma il pittore, e il ritratto varrà solo quanto varrà il pittore, non un atomo di più. Il dottor Gachet che Van Gogh ha dipinto è Van Gogh, non Gachet, e i mille orpelli (velluti, piume, colletti d’oro) con cui Rembrandt si è ritratto, sono meri espedienti per far credere che dipingesse qualcun altro, dipingendo una diversa apparenza. Ho già detto che non mi piace la mia pittura: perché non mi piaccio io e sono costretto a riconoscermi in ogni ritratto che dipingo, inutile, stanco, arrendevole, smarrito, perché non sono Rembrandt né Van Gogh. Ovviamente.

Ma chi scrive? Anch’egli, forse, scrive di se stesso? Chi è Tolstoj di Guerra e pace? Chi è Stendhal della Certosa? Che Guerra e pace sia tutto Tolstoj? Che la Certosa sia tutto Stendhal? Quando hanno concluso questi libri, vi si saranno poi ritrovati? O avranno creduto di avere scritto rigorosamente ed esclusivamente opere di pura narrativa? E come, se i fili della trama sono in parte storia? Chi era Stendhal prima di scrivere la Certosa? Chi è diventato dopo averla scritta? E per quanto lo è stato? Non è trascorso ancora un mese da quando ho cominciato questo manoscritto, e non mi sembra, oggi, di essere lo stesso di allora. Forse perché trenta giorni si sono aggiunti alla mia vita? No. Perché ho scritto. Ma queste differenze, cosa sono? Indipendentemente dal sapere in cosa consistano, mi hanno forse riconciliato con me stesso? Non mi piace vedermi riprodotto nei ritratti degli altri uomini che dipingo: e allora, mi piacerebbe forse vedermi riportato per iscritto in questa alternativa di ritratto che è il manoscritto, e dove, in fin dei conti, ho ritratto piuttosto me stesso? Non sarà che, in questo modo, mi avvicino a me stesso di più che non attraverso la strada della pittura? Ma subito ne consegue un’altra domanda: proseguirà questo manoscritto, quand’anche io lo ritenessi concluso? Se l’imboccatura del Tago è proprio là dove pensavo di trovare l’India, dovrò forse lasciare il nome di Vasco e assumere quello di Fernao? Speriamo che io non muoia per la strada, come succede sempre a chi, da vivo, non trova quanto cerca. A chi ha preso la strada sbagliata – e il nome.

Erroneamente si considera spesso anche il nome di amico, o forse l’errore è già insito nella parola, e quindi così, e non altrimenti, essa si è formata. Non sono gli amici che intendo giudicare qui, ma la funzione che, tacitamente, attribuiamo loro, tollerando che ci sorveglino, che si impegnino con una solerzia magari non gradita, ma di cui ci si rimprovera la mancanza se non la si dimostra, che ci si serva della presenza e dell’assenza, e di entrambe ci si lamenti o meno, in base a quanto più convenga a quella parte della nostra vita in cui l’amico non rientra. Per via di questa cattiva coscienza (rimorso, sconforto morale o benevola accusa proprio di questa coscienza), una riunione fra amici è simile per decisione a ciò che sarebbe un incontro fra anime gemelle: tutti hanno tralasciato quanto non sia possibile condividere con i presenti, tutti si impoveriscono o sminuiscono in ciò che sono (nel male e nel bene), per essere solo quello che da loro ci si aspetta. Ragion per cui, chi ci tiene a mantenere le amicizie vive sempre all’erta, nel timore di perderle, e vi si adatta continuamente, come la pupilla obbedisce alla luce che riceve. Ma lo sforzo che fanno i gruppi di amici per questo accomodamento (come si accomoderebbe la pupilla a varie luci simultanee di diversa intensità, se potesse separarle e reagirvi a una a una?) non può durare più della capacità individuale di accordare (più su opiù giù) la propria personalità al diapason comune adottato. È bene, quindi, non prolungare troppo le riunioni, per non raggiungere quel punto di rottura in cui ciascuno di quei piccoli astri prova il desiderio irrefrenabile di formare altrove un’altra costellazione o, semplicemente, di abbandonarsi, stanco, alla caduta nello spazio nero e vuoto.

Oltre ad Adelina, che ha svolto il suo ruolo di anfitrione, sono venuti a casa otto amici, fra uomini e donne. Erano coppie fisse, eccetto una che reputavo non lo fosse (perché ancora non lo era la volta precedente) e aveva quell’aria provvisoria che abbiamo cominciato ad avere Adelina e io. Mentre loro, però, bruciano ancora d’amore (una parola, quel “bruciano”, che, seppur banale, esprime esattamente quella sorta di alone fiammeggiante che, invisibile, circonda le coppie di fresca data), il nostro fuoco si sta smorzando, e noi ne siamo consapevoli. Che cosa fanno, nella vita, questi miei amici? Alcuni sono pubblicisti, poi c’è un architetto, un medico con la moglie, una arredatrice, che è soprattutto amica di Adelina, un editore vedovo, poco più vecchio di me (e per fortuna, così non sono io il più vecchio di tutti) che sospira per l’arredatrice e si limita ad assistere ai flirt che lei intreccia a destra e a manca. Un gruppo che si distingue non solo per la sua capacità di fumare, parlare e bere contemporaneamente (nella qual cosa è tale e quale agli altri gruppi), ma anche per l’amicizia nei miei confronti, un’amicizia ricambiata al meglio che posso o so (o voglio). Se ci mettessimo a cercare le motivazioni di questo rapporto, sono certo che non le troveremmo: eppure siamo ancora amici, per effetto di un’inerzia che si alimenta solo del timore di quella piccola solitudine che, per egoismo, non vogliamo sopportare. In fin dei conti, quello che ci lega al gruppo è il sapere che esso continuerebbe a esistere al di là di un nostro allontanamento. Rimanendovi inseriti, anche noi possiamo continuare a ritenerci indispensabili. Una questione di orgoglio.

Di quello stesso orgoglio, ma anche del timore di ritrovarci inferiori nel paragone con altri gruppi, per cui dentro ciascuno di noi le lamentele e i diverbi passano sotto l’estrema giustificazione dell’amicizia, il che consente di pari passo l’esistenza impune di un’aggressività alquanto particolare, di cui le vittime, occasionali o abituali, devono mostrarsi grate. Tant’è sicura questa aggressività che, persino in un gruppo come il nostro, attento alla delicatezza di non introdurre mai nella conversazione alcunché della professione di ciascuno dei suoi membri, delicatezza di cui io sono il principale beneficiario, perché tutti mi riconoscono come un pessimo pittore, o addirittura neppure pittore, giacché i miei quadri nessuno li vede mai da nessuna parte, persino in questo gruppo, dicevo, non è raro che nasca qualche duro conflitto, qualche crisi, quando all’improvviso uno di noi si vede giudicato da tutti gli altri e si viene a creare un processo di reciproca azione sadomasochistica che sfocia perlopiù in lacrime o parole violente. E capita quando qualcuno, per dispetto o perché stanco di fingere, sposta il discorso su un aspetto disastroso della professione della vittima del momento, e a quel punto, per colpa delle nostre professioni, ci definiamo tutti sfruttatori o parassiti della società. L’architetto, perché è così; l’editore, perché è la cultura; il pubblicista, perché è ovvio; il medico, perché lo sappiamo bene; l’arredatrice, per questo; Adelina, per questo e quest’altro, e io, pittore di ritratti, perché si. Io, comunque, di solito vengo risparmiato perché, lo ripeto, loro sono tutti competenti nella professione scelta, oppure ce la mettono tutta, mentre la mia competenza tecnica serve solo ad accentuare la pessima qualità della mia pittura.

Ma Antonio, l’architetto, si era forse ubriacato? Non mi pare. Questo nostro modo di bere raramente arriva a tanto. Ma se è vero che in vino veritas, si dà il caso che in questo tipo di riunioni oltrepassi la soglia della verità chi per caso ne sia più vicino. Malgrado le finestre aperte, il caldo era quasi insopportabile nell’atelier. Avevamo parlato di mille cose avulse, sconnesse, assurde, e adesso, a notte fonda, ci stavamo prendendo un po’ di riposo da quella febbre discorsiva. Adelina, seduta per terra, teneva la testa posata sulle mie cosce (solitamente si dice sulle ginocchia, forse per rispetto alla decenza, ma è sempre sulle cosce che in questi casi la testa è poggiata, perché le ginocchia sono sempre dure, figurarsi le mie) e io, per simpatia e per una sorta di piacere tattile, le sfioravo lentamente con le dita i capelli, sorseggiando il mio gin tonic, come mi va di chiamarlo quando sono di buonumore. Sandra, l’arredatrice, che però non si chiama così, ma fa lo stesso, riallacciava il suo flirt con il medico, ma non più di tanto, quanto bastava perché Carmo, l’editore (più vecchio di me, lo ripeto), soffrisse tutto quello che Shakespeare non ha fatto soffrire a Otello, ed era abbastanza perché anche la moglie del medico accettasse di farsi corteggiare (ah, che bel verbo antico) da Chico, il pubblicista, conquistatore impenitente, che prende a cuore la sua fama e porta avanti il flirt, ma senza strascichi. In fondo, lo sappiamo tutti, non c’è niente di significativo: qualcosa di più serio o spinto un po’ troppo farebbe esplodere il gruppo, e questa è l’unica cosa che nessuno di noi potrebbe sopportare. Pubblicisti lo sono anche (e così si completa il quadro) Ana e Francisco, poco più che trentenni, furiosamente innamorati e sinceramente spaventati dal loro amore, che se ne stavano li, seduti sul divano, sperando che attribuissimo all’alcol ingurgitato la loro palese eccitazione. So che Carmo non approva queste esibizioni, e neppure io, del resto, le sostengo, ma le capisco per il terrore che deve essersi impadronito di quei poveri cuori, o cervelli, o vene, o sessi, per quell’oscillazione metronomica tra la morte e la vita, quella furia nel proclamare eterna persino la definizione di ciò che è precario. Carmo, queste cose non le accetta, ma cosa farebbe lui il giorno in cui Sandra lo accettasse o gli concedesse una metà del letto, fosse anche per un’ora soltanto?

E Antonio, l’architetto del gruppo, che dice di voler progettare un giorno case per tutti? Dov’era Antonio? Era andato in bagno, ma eccolo lì affacciarsi alla porta dell’atelier, con un sorriso stampato sulle labbra, deciso, che sarebbe potuto essere un sorriso di malvagità, ma che in Antonio non lo era, Antonio, silenzioso e serio. Teneva in mano, appeso all’indice, il secondo ritratto di S., invisibile sotto quel nero: ho pensato che l’avesse trovato per caso, perché avevo lasciato accesa la luce del ripostiglio e lui ci aveva dato uno sguardo, visto che, già avanti nella serata, eravamo tutti un po’ stufi (tranne Ana e Francisco), o sul punto di impelagarci in qualche assurda discussione su argomenti culturali (argomenti di cui noi, borghesi, adoriamo discutere), ma anche perché, essendo amico mio, provato e dichiarato, ogni cosa riguardasse me, riguardava anche lui. Per tutto ciò, e per tante altre ragioni, o indefinibili o inconfessabili in quel momento, Antonio mi stava domandando: “Ti sei dato all’astratto? Al punto da dipingere con un colore solo? E quei tuoi ritrattini, allora?”. Quello che ho pensato di Antonio tra il momento in cui l’ho visto sulla porta con il quadro e il momento in cui l’ho fatto parlare è qualcosa che riporto solo adesso, perché non voglio avere fretta, perché bisogna non avere fretta, prendere tempo perché le cose si capiscano o, casomai non le si debba capire, perché di tempo ne ho tanto per il momento, a meno che la morte non disponga altrimenti. Una volta spiegato questo, posso finalmente dire che sono balzato di colpo su dal mio posto (facendo cadere Adelina) e, mentre mi avvicinavo ad Antonio, sono riuscito a dominarmi fino a strappargli (sì, con violenza) soltanto il quadro che lui stringeva ormai con entrambe le mani, e che ho dovuto trattenermi ancor di più per non dargli un pugno, per quel quadro tutto nero che non avrei mai potuto spiegare (neppure Adelina ne sapeva niente, la sua ben scarsa curiosità era aiutata d’altronde dalla cautela con cui solevo nascondere il quadro dietro a tanti altri, in una stanza che li salvaguardava finché i colori erano freschi), ma anche perché Antonio aveva infranto deliberatamente le regole del gruppo, classificando come “ritrattini” quei dipinti che solo io, a porte chiuse e con la testa ficcata sotto le lenzuola, avevo il diritto di definire con quel tono ironico che non ammetteva repliche. E mentre riportavo il quadro nel ripostiglio, sentivo nitidamente, come se mi accompagnassero sfiorandomi le orecchie, le parole insistenti di Antonio: “Quando si deciderà a dipingere?”, e quelle degli altri che gli ordinavano di stare zitto con tono preoccupato, implorante, come si ordina di stare zitto a chi, davanti al malato di cancro, ne ha pronunciato la parola. Antonio aveva dimenticato (o aveva deciso di dimenticare) che non si parla di corda in casa dell’impiccato, che non si parla di “ritrattini” a chi fa solo quelli, e nient’altro. Quando sono rientrato nella stanza, Antonio aveva dato l’ultimo giro di vite e aveva assunto un’espressione ostinata, ma pacifica, tra le facce e gli atteggiamenti costernati di tutti gli altri, occupatissimi nei loro fatti personali (ma non troppo, perché non mi offendessi anche per questo), come si notava in Sandra, che chiacchierava solo con Ricardo, il medico, oppure in Chico, che chiacchierava solo con Concha, la moglie del medico, in Francisco, che chiacchierava solo con Ana, in Carmo, che tentava di chiacchierare con Adelina, mentre lei, invece, guardava solo me, con l’aria tutt’altro che cupa, ma, piuttosto, priva di espressione, in attesa. Non se n’è più parlato e la serata è finita lì. Ana e Francisco, per vari motivi, poverini, solo per non chiedermi il letto in prestito per un quarto d’ora, sono stati i primi ad andarsene. Seguiti immediatamente da Ricardo, perché era di guardia il giorno dopo, e da sua moglie, perché è la “concha”, l’ostrica. Antonio, poi, si è dileguato in un baleno dopo avermi detto, contrito: “Scusa, non era quello che volevo”. Dopo di che, di fronte a quell’esodo, se n’è andata anche Sandra, baciando e abbracciando Adelina e portandosi dietro a mo’ di paggi il resto degli uomini, tranne me, che rimanevo lì: e cioè Carmo e Chico. Mi sono figurato l’agitazione di Carmo, speranzoso che Sandra si offrisse di accompagnarlo a casa (Carmo non ha la macchina, non ce l’ha mai avuta), e Chico, sempre spiritoso, a insistere dicendo: “Nient’affatto, Carmo, ti ci porto io”, e poteva finire proprio così, a meno che Sandra, per divertirsi un po’, non abbia preteso di accompagnare lei Carmo, tutto tremante e incapace di spiccicar parola se non sul tempo e per invitarla a disegnare qualche copertina A Chico non gliene importa niente, lui è un panzer, e ha il sospetto che Sandra sia lesbica o giù di lì (me l’ha già detto) e lui, con le lesbiche, non ci sta. E quindi, magnanimo, avrà certo lasciato che Sandra accompagnasse Carmo con la sua macchina, profumata di sigarette e di Chanel, perché Carmo potesse infine andarsene felice nel suo desolato letto di vedovo.

Siamo rimasti Adelina e io, all’improvviso soli in quell’immenso silenzio delle due del mattino. Lei mi si è avvicinata e mi ha dato un bacio sulla guancia, nel punto in cui la pelle è un po’ incavata. E poi ha cominciato a raccogliere i bicchieri e i piatti sporchi, i portaceneri stracolmi di cenere e mozziconi di sigaretta, mentre io l’aiutavo, per farle compagnia ed essere gentile piuttosto che per necessità. Lo sapevamo tutti e due: e volevamo essere gentili. E lei, malgrado non potesse rimanere, si è trattenuta ancora un po’, quando le ho messo un braccio sulle spalle, come andava fatto. Abbiamo parlato per un po’ del più e del meno, ma poi, di colpo, introducendovi però quella trasgressione che vuole (o vorrebbe) esprimere la noncuranza per ciò che, nonostante tutto, si dice, le ho spiegato: “Sto facendo qualche prova con un colore spray. Quell’ Antonio. Ma in fondo ha ragione”. E Adelina non ha battuto ciglio, neppure per dire “Ah, si?” Ma ha cominciato ad agitarsi per darmi il suo segnale di ritirata e poi, come una semplice formalità, ha domandato: “Mi accompagni a casa?” Ha la macchina dal meccanico e si era già d’accordo che l’avrei accompagnata dopo la riunione (o la festa). Ma le ho risposto: “Certo”, come la mossa obbligata di un gioco a carte.

L’ho lasciata sull’angolo della strada in cui abita (alla madre non piace che la lasci davanti al portone) e sono rimasto li a guardarla camminare lungo il marciapiede, prima visibile sotto la luce dei lampioni e poi nascosta dall’ombra nell’intervallo fra l’uno e l’altro, fino a quando l’ho vista armeggiare un po’ con la serratura e subito dopo sparire. Ho messo in moto lentamente e, senza fretta, mi sono avviato per quella lunga traversata della città. È un mio piacere che ogni tanto soddisfo: guidare per le strade deserte, lentamente, dando l’impressione di andare a caccia di donne, tant’è che alcune mi guardano interdette quando passo senza degnarle neppure di uno sguardo, o guardandole sapendo che cosa si aspettano da me, mentre io so bene che non è così, e poi proseguire, non fino alla fine della notte, ma attraverso una notte che altrimenti non saprei come concludere. Stavolta, neanche tanto: le strade e le donne erano tutte ai loro posti, come gli uomini che sgattaiolavano nell’ombra, i gatti che frugavano nella spazzatura, e quello sfolgorante luccichio dell’asfalto, e i lampioni, e l’acqua che stagnava qua e là, ma io, dentro la macchina, non guidavo, mi sentivo piuttosto trascinato, vuoto, senza pensieri, abbrutito. Andavo così piano (mi era già successo in altre occasioni) che un poliziotto mi ha fermato e ha voluto sapere il motivo del mio procedere lento. Gli ho risposto (come avevo risposto altre volte, quanto fa l’abitudine) che il motore non funzionava bene, che guidavo così tentando di arrivare fino a casa. Dallo specchietto retrovisore mi sono accorto che, in ogni caso, il poliziotto stava prendendo nota della targa, torcendo il collo per sfruttare la luce del lampione. Aveva perfettamente ragione quel degno rappresentante dell’autorità: se giusto quella notte avessi avuto un incidente con feriti o morti, avrebbe certo avuto la sua bell’importanza nel contribuire a risolvere la pratica con la sua preziosa diffidenza e la sua cinica preveggenza. E se, putacaso, fosse scoppiata una bomba, un lavoretto dell’IRA o delle BR, è garantito che avrei avuto le mie noie. Io, però, non ho avuto nessun incidente, e la bomba non è scoppiata.

Erano le tre e mezzo quando ho posteggiato la macchina in Piazza Camões. Ero lontano da casa, ma avevo voglia di fare due passi. Mi sono avviato verso Santa Catarina e, giunto al belvedere, mi sono avvicinato alla ringhiera e fermato lì a guardare il fiume, riuscendo a non pensare a niente, perché neppure le luci delle imbarcazioni laggiù avessero un significato, se non quello di brillare senza un motivo. Non gli avrei permesso altro. Alla fine mi sono seduto su una panchina e, senza sapere né come né quando avessi cominciato, mi sono ritrovato a piangere. Se quello era piangere. Probabilmente la fisiologia possiede certe ragioni che il dispiacere o la commozione ignorano, per cui le donne possono piangere in quella maniera fluente, continua, ininterrotta e perciò angosciante, mentre degli uomini si dice che non piangono o si vergognano di piangere, forse perché già prima non erano capaci di farlo e si è sentito il dovere di trovare un’altra ragione quando la prima si è scoperta. È vero che non sono mai stato spettatore privilegiato delle lacrime di un uomo, e che il mio errore è forse di giudicare gli altri in base a me, ma realmente non mi vengono più che queste due lacrimucce spremute lentamente dall’interno bruciante dei miei occhi, talmente scarse, o forse troppo concentrate, che cadono, restando lì fra le palpebre, consumandosi pian piano, talmente piano che all’improvviso mi scopro gli occhi asciutti. Giurerei che lacrime non ve ne siano state, se per un po’ di tempo, impossibile da ricostruire, o da ricordare come tempo, o da raccontare, non fosse calata fra me e il mondo esterno una cortina tremula e luccicante, quasi fossi dentro una grotta e lì, davanti a me, si riversasse una cascata, rivoli d’acqua densi e risplendenti, ma senza rumore, se non questo sibilo negli occhi, il rumore delle lacrime che bruciano. Non c’è dubbio, ho pianto. Per un minuto o per un’ora, le luci delle imbarcazioni e quelle sull’altra sponda del fiume, bianche e gialle, nei miei occhi sono state un sole: ho avuto la fortuna di quei miopi che, in quanto tali, non vedono la luce ma la sua moltiplicazione. Poi, ancora seduto li, mi sono reso conto che per un certo tempo, incalcolabile perché ormai passato (e tanto più ne divenivo consapevole, a mano a mano che i rumori della città ricominciavano a penetrarmi nella coscienza), mi sono accorto (o forse mi pare di buon effetto «prosistico» [esiste questa parola?] l’affermare adesso di essermene accorto) che in quel periodo di tempo trascorso e incalcolabile mi ero trovato da solo nel mondo, il primo uomo, la prima lacrima, la prima luce e gli ultimi istanti di incoscienza. Mi sono messo, allora, a esaminare la mia vita, a rivederla lentamente, a smuoverla come sollevando pietre in cerca di diamanti, di millepiedi o di grosse larve, quelle bianche e grasse che non hanno mai visto il sole e all’improvviso lo sentono sulla pelle morbida, come un fantasma che altrimenti non si manifesterebbe. Sono rimasto lì seduto per tutta la notte, guardando ora il fiume, ora il cielo nero e le stelle (che cosa deve dire lo scrittore delle stelle, dopo aver detto che le ha guardate? Beato me, che scrivo appena, e così, e perciò non sono obbligato ad altro), fino a quando, sul far del mattino, è caduta un po’ di pioggia, così, senza motivo, e poi ha cominciato ad albeggiare alla mia sinistra e l’acqua a ingrigirsi come il cielo. Allora le luci si sono spente nella città, settore dopo settore, a poco a poco, congedandosi dall’ombra che a occidente si dilungava ancora un po’, e io mi sono sentito perdutamente umiliato perché la notte così trascorsa si concludeva con il gelo nelle ossa e con lo sguardo indifferente del primo passante incrociato lungo la via.

Tutto questo lo scrivo a casa, è ovvio, dopo aver dormito non più di quattr’ore. Mi sembra necessario, o utile, o perlomeno non dannoso, neppure per me, e quindi decido di continuare a scrivere, forse la mia vita, quella trascorsa e l’attuale, forse la vita, perché all’improvviso mi sembra più facile parlarne che non della mia vita personale. In realtà, come potrò recuperare dal passato tanti anni, e non soltanto miei, confusi come sono con gli anni di tanta altra gente, quando frugare in questi anni miei significa disfare anni che non mi appartengono oggi né mi apparterranno mai, per quanto dolcemente o bruscamente io possa invaderli in ciascuno di quei momenti che può essere comune, o ritenuto tale? Probabilmente nessuna vita può essere raccontata, perché la vita è come le pagine sovrapposte di un libro o le stratificazioni di un colore che, appena sfogliate o separate per leggerle o guardarle, si polverizzano e marciscono: viene loro a mancare quella forza invisibile che le legava, vengono a mancare il peso, l’agglutinazione, la continuità. Anche i minuti che non si possono staccare l’uno dall’altro sono vita, e il tempo sarà un insieme pastoso, denso e oscuro, in cui nuotiamo con difficoltà, sotto un chiarore indefinito che lentamente si va spegnendo, come un giorno che, dopo avere albeggiato, finisce per rientrare nella notte da cui è uscito. Le cose che scrivo, se mai le ho lette prima, forse adesso le sto imitando, ma non lo faccio apposta. Se non le ho mai lette, le sto inventando, e se, viceversa, le ho lette, allora le ho imparate e ho tutto il diritto di servirmene come se fossero mie e le avessi inventate lì per lì.

Nacqui l’anno 1632, nella città di York, da una buona famiglia, che tuttavia non era di quella regione. Mio padre era infatti un forestiero di Brema, stabilitosi dapprima a Hull. Raggiunta l’agiatezza come commerciante e abbandonati in seguito gli affari, s’era trasferito a York, dove aveva sposato mia madre, che portava il cognome dei Robinson, una stimata famiglia della città, ragion per cui io mi chiamavo Robinson Kreutzenaer; ma per effetto di quella corruzione delle parole che in Inghilterra è usuale, ora siamo chiamati, o meglio, ci chiamiamo, e scriviamo il nostro nome, Crusoe, e così fui sempre chiamato dai compagni. Dei miei due fratelli maggiori, uno era tenente colonnello in un reggimento di fanteria inglese nelle Fiandre, comandato un tempo dal famoso colonnello Lockhart, e fu ucciso nella battaglia di Dunkerque contro gli spagnoli. Che cosa avvenisse dell’altro non seppi mai, così come i miei genitori non seppero mai che cosa avvenisse di me.

Altre volte ho copiato dei testi da quando ho cominciato a scrivere, e per svariati motivi, per sostenere una mia affermazione, per controbatterla, o perché magari non sapevo esprimerla meglio. Adesso l’ho fatto per allenare la mano, come se stessi copiando un quadro. Trascrivendo, copiando, imparo a raccontare una vita, soprattutto in prima persona, e tento così di capire l’arte di rompere il velo che sono le parole e di disporre le luci che le parole sono. Ma dopo averlo copiato, oso affermare che tutto quanto è scritto lì è una menzogna. Menzogna del copista, che non è nato nel 1632 nella città di York. Menzogna dell’autore copiato, di Daniel Defoe, che è nato nel 1661 nella città di Londra. La verità, se ci fosse, potrebbe essere solo quella di Robinson Crusoe o Kreutzenacr, e per riconoscerla sarebbe stato necessario cominciare col provare che è esistito, che suo padre veniva da Brema ed era passato per Hull, che la madre era davvero inglese e quel suo primo nome era davvero il nome di famiglia, che da quel matrimonio erano nati altri due figli ed era loro accaduto proprio quello che è stato raccontato. Una verità che non esimerebbe dal verificare la reale esistenza del colonnello Lockhart e del suo reggimento e, di conseguenza, delle battaglie sostenute, specie quella di Dunkerque contro gli spagnoli. (Sull’esistenza di questi ultimi non ci sono dubbi). Non credo che qualcuno potrebbe raccapezzarsi in questo intreccio di fili, districarli, distinguere i veri dai falsi e (lavoro anche più sottile) definire e indicare il grado di falsità nella verità o di verità nella falsità. Di quanto Daniel Defoe – Robinson Crusoe (il più giovane dei tre fratelli) ha scritto ed è rimasto annotato, solo poche e misurate parole mi fanno gioco e devo usare: “Come i miei genitori non seppero mai che cosa avvenisse di me”. Perché li avevo abbandonati io? Perché, al contrario, mi hanno abbandonato loro? Per volontà della loro vita o volontà della loro morte? Niente di tutto ciò. Solo perché chiunque di noi potrebbe dire lo stesso dei genitori, o un giorno i nostri figli potranno dirlo di noi. Ché io, pittore di ritratti e calligrafo di questo testo, non ho discendenza, o se ce l’ho non la conosco, o magari ce l’ho in un futuro ancora da scrivere. Robinson Crusoe (lo si dice nell’ultima pagina della storia che Defoe racconta a nome suo) ebbe tre figli, due maschi e una femmina: informazione inutile per la comprensione del testo, ma che mi tranquillizza sull’importanza del superfluo.

Sono nato a Ginevra, nel 1712, dal cittadino Isaac Rousseau e dalla cittadina Susanne Bernard. Un modestissimo patrimonio spartito fra quindici figli aveva ridotto pressoché a niente la parte di mio padre che, per campare, aveva solo il suo mestiere d’orologiaio nel quale, in verità, era abilissimo. Mia madre, figlia del pastore Bernard, era più agiata; era discreta e bella []. Ero nato quasi moribondo: non si sperava granché di mantenermi in vita.

Questi genitori, fin dall’inizio, presentano il grande vantaggio di essere reali e di promettere perciò più veridicità di tutta la narrazione di Defoe. Come reale è jeanJacques Rousseau, nato nella città di Ginevra nel 1712. Ma nel copiare fedelmente queste righe, con l’onesta intenzione di imparare, non noto alcuna differenza, salvo nello stile, tra questa realtà e quell’invenzione. Credo che, per la mia vita che racconto qui (come la racconterei altrove?), mi sarà utile soltanto ciò che a Rousseau qualcuno deve aver detto in seguito (perché lui, senza coscienza, o almeno non abbastanza, allora non poteva saperlo): “Ero nato quasi moribondo”. Anch’io, per le stesse ragioni, non potevo saperlo quando sono nato, ma, al contrario di jeanJacques, non ho avuto bisogno che me lo venissero a riferire. Per il fatto di essere nato, sono nato all’inizio della mia morte, e pertanto quasi moribondo. Ammetto per ipotesi che la levatrice che mi ha aiutato a uscire dal ventre di mia madre abbia detto: “‘È un bimbo pieno di vita”. Si sbagliava.

La convenzione ufficiale vuole che un imperatore romano sia nato a Roma, ma io sono nato a Italica: a quel paese arido e tuttavia fertile, in seguito ho sovrapposto tante regioni del mondo. La convenzione ha del buono: dimostra che le decisioni dello spirito e della volontà hanno la meglio sulle circostanze. Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi [].

Uno racconta la vita di un altro che non è esistito, o perlomeno non così: Defoe inventa. Uno racconta una vita, asserendola propria e confidando nella nostra credulità: Rousseau si confessa. Uno racconta la vita di qualcuno vissuto prima: Marguerite Yourcenar memorizza Adriano, è Adriano che ricorda e inventa per lei. Davanti a questi esempi mi ritrovo io, li, incognito sotto questa iniziale, mentre copio diligentemente e tento di capire, propenso ad affermare che ogni verità è un’invenzione letteraria, invocando, per asserirlo, sei testimoni di verità sospetta e di menzogna idonea che si chiamano Robinson e Defoe, Adriano e Yourcenar e Rousseau due volte. Mi affascina, in particolare, il gioco geografico che rimbalza da Italica (Spagna) a Roma, da Roma a Londra, da Londra a York, da York a Ginevra e da Ginevra al luogo di nascita di Marguerite Yourcenar, che non conosco né voglio conoscere. Perché lei stessa, coprendo con le parole tanti secoli e tante distanze minori dei secoli, ha fatto scrivere ad Adriano: “Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi”. Dove sarà nato quindi Defoe? Dove sarà nato quindi Rousseau? Dove sarà nata la Yourcenar, così? Dove sarò nato io, pittore, calligrafo, nato-morto finché non avrò deciso dove, quando e se mai abbia posato uno sguardo consapevole su me stesso? Resta da sapere se, una volta scoperto il luogo natio, potremo recuperare e mantenere uno sguardo consapevole o se, al contrario, ci perderemo fra nuove geografie. Tutto, probabilmente, è invenzione letteraria: la vita autentica di Adriano viene schiacciata a poco a poco, triturata, distrutta e ricomposta con altro aspetto, nella narrazione di Marguerite Yourcenar. Si può scommettere, e vincere, che di Adriano manca ancora qualcos’altro, sia pure solo perché né a Defoe né a Rousseau è mai venuto in mente di scrivere una biografia di quell’imperatore romano che è nato a Italica, ma che la narrativa ufficiale vuole sia nato a Roma. Se cose del genere la narrativa ufficiale suole fare, quali altre, ben più straordinarie, non avrebbe mai fatto quella privata?

A ben riflettere su queste sottigliezze (esistono davvero, o solo nella mia mente?), finisco per riscontrare come le differenze non siano poi molte fra le parole che talvolta sono colori e i colori che non riescono a resistere al desiderio di essere parole. così passo il mio tempo, con il tempo degli altri e con il tempo che per gli altri si è inventato. Scrivo, e penso: che cos’è, oggi, il tempo per Defoe, per Rousseau, per Adriano? Che cos’è il tempo per chi in questo preciso istante sta morendo senza aver mai saputo, col bene dell’intelletto, dove sia nato?

Primo esercizio di autobiografia in forma di racconto di viaggio. Titolo: Le cronache impossibili.

Il titolo è già lì a suggerire prudenza, ad avvertire che non ci si deve attendere mondi e meraviglie da una narrazione che inizia così prudentemente. Non è pretesa da poco ritenere che un rapido viaggio per terre d’Italia ti conferisca il diritto di parlarne ad altri che non siano gli amici interessati e talvolta reticenti per non esservi andati. Credo che dell’Italia non sia stato detto tutto, ma certo è che ne rimane pochissimo per il comune viaggiatore, armato unicamente della propria sensibilità e sospetto di parzialità confessa, che senza dubbio gli tapperà gli occhi di fronte a certe inevitabili ombre. Quanto a me, affermo di essere sempre andato in Italia in uno stato di totale sottomissione, in ginocchio, in quella condizione, insomma, cui la maggior parte della gente non bada, essendo tutta psicologica.

Delimitato così il mio piccolo spazio, piantate le bandierine che segnano i punti di partenza e di arrivo, non mi si potrà più obiettare che dove ha scritto Pietro non può scrivere Paolo, e che dove hanno visto occhi migliori devono chiudersi tutti gli altri. L’Italia dovrebbe essere (mi si perdoni l’esagerazione, se in essa non ho compagni) il premio per essere venuti a questo mondo. Una divinità che sia davvero incaricata di distribuire la giustizia, e non gli affanni, esperta d’arte, dovrebbe mormorare all’orecchio di ciascuno di noi, almeno una volta nella vita: “Sei nato? Allora vai in Italia”. Proprio come chi se ne va alla Mecca, o in altri luoghi meno contestati, per garantirsi la salvezza dell’anima.

Ma tralasciamo questi preliminari ed entriamo a Milano. Per un motivo o per l’altro, Milano era ancora fuori della mia carta d’Italia, come se due milioni di abitanti e una superficie di quasi duecento chilometri quadrati fossero una cosa da nulla. È pur vero che le grandi città non mi attirano granché: non c’è mai tempo abbastanza per sapere che cosa veramente siano, tant’è che riusciamo a conoscerne solo quel minimo, quasi fossero piccoli borghi limitati a una piazza, un duomo, un museo e qualche viuzza che il tempo non ha cambiato molto, o forse siamo noi a credere che non le abbia cambiate, perché sono vecchie, silenziose e noi non ci viviamo. A meno che il viaggiatore non cerchi nelle città quello che già conosce nelle altre (un negozio, un ristorante, un locale), nel qual caso tutto gli si riduce maggiormente, perché allora è lui che si trasporta in una sfera protettiva, al riparo da ogni avventura.

Anch’io, quindi, ma non per le stesse ragioni, mi sono limitato a impadronirmi fugacemente di un piccolo spazio di Milano, di un poligono il cui vertice piú immediato è Piazza Duomo, una cattedrale di un gotico flamboyant che, nonostante il suo splendore (o proprio per questo), mi lascia freddo. Gli altri vertici di questa figura geometrica entro cui ho deciso di concentrare Milano sono Brera, il Castello Sforzesco, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie e la Pinacoteca Ambrosiana. Da me non ci si attenderà, certo, né una guida né un itinerario di opere d’arte, e tantomeno un fruttuoso contributo per confermare o per contestare idee prestabilite, dirette o di seconda mano. Ma un uomo si avventura fra spazi organizzati dall’architettura, attraversa saloni popolati di volti e di figure e, quando esce, certo non è più lo stesso di quando vi è entrato, o avrebbe fatto meglio a starsene alla larga. Ecco perché ho deciso di correre il rischio di raccontare mediocremente ciò che i privilegiati magari hanno spiegato con uno stile da parata storica oppure, con maggior profitto, nel discreto linguaggio dei cataloghi.

Quanto ai castelli la sappiamo lunga, noi portoghesi, che ne abbiamo il culto ufficiale. Ma i nostri castelli sono, di norma, costruzioni nude, cui puntigliosamente sono stati tolti tutti i segni di vita, obbedendo alla singolare preoccupazione di mantenerli scevri dalle contaminazioni dell’uso o dell’odore dell’umanità. Il Castello Sforzesco, all’interno, più che una fortificazione è un palazzo, ma è raro che una costruzione possa dare, come questa, un’impressione di forza così grande, e poche sono così palesemente guerresche. Le massicce mura di mattoni sembrano più invulnerabili che se fossero fatte di pietra grezza. Nel cortile interno, immenso, potrebbero compiere le loro evoluzioni cavalcature e drappelli dell’esercito, e tutto l’edificio, circondato da una città così gigantesca, si erge all’improvviso, nel silenzio degli altri suoi piccoli cortili o dei saloni trasformati in musei, come un paradossale luogo di pace. In uno di quei saloni, però, una mostra di Folon è un tentacolo insidioso del polpo esterno: uominipalazzi, uoministrade, uomininumeri, uoministrumenti avanzano sulle colline rase, mentre i cieli si coprono di frecce ricurve, incrociate, che puntano contemporaneamente in varie direzioni.

Ma insieme c’è, nel Museo di Arte Antica, situato lì nel castello, nella Sala delle Asse, una felicità luminosa e che ti incute un vago timore. Si entra per una porticina stretta, ad arco, e gli occhi fissi a destra vedono ben poco, solo cose indefinite che sembrano colonne dipinte sulle pareti, tutt’intorno. Appena una sala oltre ed ecco che, finalmente, gli occhi si levano al soffitto. Compiangiamo tutti coloro che, immediatamente, non siano percorsi da un repentino e lancinante brivido. Tutta la volta ci appare ricoperta da un intreccio vegetale che forma un’inestricabile rete di tronchi, rami e foglie, dove gli uccelli non entrano, è vero, ma da cui forse scende, come un mormorio, il fantasma del respiro di Leonardo da Vinci quando, sul ponteggio, dipingeva quell’alberoforesta. Neppure la Pietà Rondanini di Michelangelo, qualche sala piú avanti, malgrado la riverenza con cui l’ho guardata (quattro giorni prima di morire Michelangelo vi lavorava ancora, una statua incompiuta che attira e respinge le nostre mani), mi ha fugato dallo sguardo il paradiso creato da Leonardo da Vinci.

E adesso parlerò della Pinacoteca di Brera, perché è là che si trovano lo Sposalizio della Vergine di Raffaello e lo scorcio terribile e austero del Cristo morto di Mantegna, ma soprattutto per via di colui che rappresenta il mio grande incanto nella pittura italiana, Ambrogio Lorenzetti, di cui vi si trova una dolcissima Vergine col Bambino avvolta in un manto adorno di fiori inaspettatamente stilizzati. Sempre di Ambrogio Lorenzetti sono quei due meravigliosi paesaggi che si trovano a Siena, i più bei quadri del mondo. Ne riparlerò quando sarà il momento in cui Siena, come promette a tutti i viaggiatori, e tutti esaudendoli, mi aprirà le porte del suo cuore.

E c’è la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Proprio lì accanto, dov’era il refettorio del Convento dei Domenicani, si trova la Cena di Leonardo, già condannata a morte quando il pittore vi diede l’ultima pennellata: l’umidità del terreno aveva intrapreso immediatamente il suo lavoro di corrosione. Oggi ha trasformato in pallide ombre le figure del Cristo e degli apostoli, le ha disseminate di nuvole, le ha scrostate in migliaia di punti come una costellazione di stelle morte in uno spazio luminoso. È questione di tempo. Nonostante tutte le cure meticolose che le prestano, la Cena agonizza e, al di là del fascino dell’arte incomparabile di Leonardo, è forse questa morte prossima che ci rende ancor più prezioso quel magnifico dipinto. Quando ci allontaniamo, abbiamo molteplici motivi per ritenere che non la rivedremo. Anche se non verrà un’altra guerra a distruggere di nuovo l’edificio, trasformandolo in un cumulo di rovine, di travi, di calcinacci o di mattoni sbriciolati. La Cena sembra definitivamente promessa ad altra fine.

E adesso, prima di partire, la Pinacoteca Ambrosiana. Non è un grande museo, quasi nascosto com’è in Piazza Pio XI che, a sua volta, solo una fantasia meridionale potrebbe arrivare a definire piazza, ma proprio li si trova il profilo un po’ rustico di Beatrice d’Este (o Bianca Maria Sforza?) con le sue perle a ornare la retina che le raccoglie i capelli e il nastro che aiuta a legarli e che un hippy di oggi non disdegnerebbe. Ha dipinto il ritratto Giovanni Ambrogio de Predis, milanese, vissuto a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento. Ma, principalmente, è lì nella Pinacoteca Ambrosiana, in una sala a esso riservata, che si trova esposto l’enorme cartone della Scuola di Atene. Sotto un’illuminazione perfetta, il disegno di Raffaello prefigura nella spontaneità e nella leggerezza quasi imponderabile del tratto, che sembra un chiaroscuro piuttosto che una linea, la sapienza e la nobiltà delle figure che nella stanza del Vaticano sostengono gli sguardi fugaci del turista.

Solo questo può essere Milano, per me. E insieme, la sera, i gruppetti di gente nella Galleria Vittorio Emanuele, giovani che discutono con adulti, carabinieri di guardia, inquietudine. E i muri dei palazzi, lungo Via Brera, ricoperti di distici: “Lotta Continua”, “Potere Operaio”. Qualche giorno dopo, quando ormai sarò in Toscana, la polizia milanese entrerà nell’università, ci saranno violenza, feriti, arresti, gas lacrimogeni. E la stampa di tutte le destre, conservatrice, fascista o fascisteggiante, esulterà.

Quello che ho scritto, l’ho definito (primo) esercizio di autobiografia, e credo di non essermi sbagliato né di sbagliare (essermi sbagliato e sbagliare non saranno, a rigor di termini, la stessa cosa?). In fondo, le confessioni di Rousseau e i fitti ricordi o le memorie di Robinson o di Adriano non sono che docili adattamenti alle regole di un genere: tutti prendono l’avvio da un punto comune, cui si dà il nome di nascita, e sono, a ben notare, altre storie trasposte che avrebbero potuto comunque cominciare, piú obbedienti alla tradizione, con: “C’era una volta”. Quanto a me, avendo notato, nell’ambito delle mie possibilità, l’inanità del metodo classico di biografar(mi), ho preferito coprire la trasparenza del vetro che sono (per me) i mille pezzi della circostanza, i sedimenti della polvere tra l’aria e il naso, la pioggia delle parole che, simile all’acqua piovana, finisce per allagare tutto se cade nella dovuta quantità, per cercare, dopo aver tutto ben nascosto, i tenui bagliori, le dita che, chiamando, si muovono, e che sono, quelli, la mia risposta al sole e, queste, la frustrazione di non essere radici multiple che, salde nel suolo, imprigionino saldamente anche lo spazio. Riassumendo: nascondere per scoprire.

Ho l’ossessione (o ce l’avevo nell’adolescenza, e ce l’ho ancora) della morte, o forse non tanto della morte quanto del morire. Non so se dirlo così crudamente, considerando che a nessuno piace confessare le vigliaccherie, e questa è la più grande di tutte, proprio perché ci assale quando siamo soli, nel silenzio, e talvolta completamente al sicuro: prima di addormentarci, quando la stanza perde le sue dimensioni e neppure i mobili sono più minacciosi, senza nemici che lì, pian piano, ci puntino davanti agli occhi un’arma o ci mostrino un coltello. Probabilmente non lo direi. Questo primo esercizio di biografia dissimulata, tuttavia, mi denuncia subito: cinque volte vi si parla di morte e di morire, una volta si agonizza. Eccomi già caratterizzato, eccomi già con questo segnale separato dai miei simili, non solo io, naturalmente, perché questa macula nera è comune a tanta gente, e così, grazie a visioni successive, arriverò (ci arriverò?) a ritrovarmi finalmente individualizzato, singolare, definitivamente spiegato, con tutti i motivi per mettere, prudente, metodico, l’ultimo punto finale a questo testo. Per quanto allora, per scrupolo totale, dovrei ricominciare, perché sia altrettanto chiaro anche il movimento di quel punto finale, una volta inquadrato, centrato e focalizzato lo spazio minimo verso cui convergeranno lo sguardo e quel diverso ordine che dal cervello muove i muscoli della mano e le fa esercitare la giusta pressione sul foglio perché vi rimanga solo un punto e non uno scarabocchio o un mare di inchiostro. Da un cervello che si suppone non abbia più nulla da dire di se stesso, da un cervello bianco come il foglio di carta che, in fondo, bianco non è. Perché il bianco non esiste, come del resto io, pittore, già sapevo. Nessuna cosa inesistente esiste.

Quindi Dio non c’è. Sono tanti i modi per saperlo, e il mio mi basta. Quando l’immagine antropomorfica della divinità si è perduta, si è perduto tutto. Nessuno dei tentativi compiuti in seguito per giustificare l’immaterialità ha potuto di nuovo alimentare o risuscitare le credenze. Erano dèi buoni, quelli greci, dèi che si adagiavano nei letti sudati dei mortali e fornicavano con loro, era buono Moloch, che provava la propria esistenza nutrendosi sostanzialmente, davanti a tutti, di carne umana, era buono Gesù, figlio di Giuseppe, che girava in groppa a un asino e aveva paura di morire. Ma finite queste storie, che erano storie di esseri umani tra i propri simili, Dio non ha più avuto né luogo né tempo e non è riuscito a ottenere niente di più di Defoe, che ha scritto e riscritto la vita di Robinson. Un Dio che non se ne stia li, maestosamente assiso sulle nuvole, un Dio che non abbiamo la speranza di conoscere in persona una e trina, è un Robinson inventato, creatore secondario di una religione di paura che aveva bisogno di un Venerdì per essere chiesa.

Dico cose che dicono tutti, ma questo feltro pressato e ripressato che è la cultura, che è l’ideologia, che è anche ciò che definiamo civiltà, si compone di mille e una piccola scheggia, che sono eredità, voci, superstizioni di un tempo e così perdurate, cui si dà il nome di convinzioni, e tanto gli basta. In questo feltro dal colore dei diversi colori che sono i minuscoli frammenti di lana, gli apostoli Pietro e Paolo fanno capolino sul mio esercizio di autobiografia e sorridono come chi crede di essere l’ultimo a sorridere. E non solo loro: eccomi là, a entrare in ginocchio in Italia, eccomi a parlare delle divinità dispensatrici di giustizia, ecco, marginalmente, levarsi la Mecca, cui si dirigono pellegrinaggi che neppure culturalmente ci riguardano, come culturalmente mi riguarda, adesso me ne accorgo (o era già il mio primo scopo), la gente che si reca a Fàtima e si trascina (in ginocchio) per le strade e nel recinto, compiendo promesse, confessando peccati, nutrendo Moloch in altro modo. Prima c’è il sorriso, poi viene il riso e dopo la risata. La religione occupa il quarto posto nella scala. Chi sappia intendere, intenda, come diceva il figlio del falegname quando proponeva indovinelli agli amici. Ma niente di tutto questo evita che a un uomo, intento a scrivere nella maniera più naturale del mondo, senza intenzioni apologetiche o contrarie, senz’altra idea se non quella di raccontare un viaggio per poi chiamarlo esercizio di autobiografia, le religioni che non gli appartengono gli spuntino fra le parole, reclamando voce, e non di rado contraddicendo quanto è pur detto. Ragion per cui sorge il dubbio se siamo noi che possediamo lo scibile del mondo o se, al contrario, noi siamo una sorta di interpreti di questo scibile/saputo che aleggia sopra la terra come un altro strato atmosferico e che sopravvive alla morte delle civiltà e, insieme, degli dèi che esse sono o sono esse. In questo tempo di donne stupende, la Venere di Willendorf è ancora, probabilmente, un’ossessione.

Ci si addentra fra spazi, fra sale popolate di volti e di figure, e certo non si va via essendo quelli che si era prima, o meglio sarebbe stato starsene alla larga. Questo l’ho detto a lode dei musei. Questo lo dico all’ingresso di ciascuno, perché non susciti stupore ogni nuova ricerca del segreto o del messaggio che là dentro c’è, lo so, e si mantiene, per quanto lo si sfiori, intatto. Questo lo dico a chi afferma che i musei sono istituzioni anacronistiche, tumuli, depositi ammuffiti, e che l’arte deve uscire nelle strade e nelle piazze. Magari avranno ragione loro. E a me, che faccio una pittura così modesta, manca l’autorità artistica per oppormi a questa ragione. Mi sembra tuttavia che siano due sguardi diversi quello dell’uomo immobile e ritto nel silenzio e nell’intimità del museo, e dello stesso uomo che cammina, attento ai sassi su cui posa i piedi, girando intorno alla statua del Gattamelata di Donatello. Questo problema del bello o del brutto dei musei non è altro, forse, che un passatempo di eruditi e critici. Tutto si riassume, nel mio semplice modo di vedere, nel sapere dove siano le opere d’arte e come si possa vederle, come si impari a guardarle e, soprattutto, nel conoscere le ragioni per cui tutto ciò vada fatto. Io penso (sono certo che nessuno dei miei quadri diventerà famoso) che nessuno vada volentieri là dove non riconosce buone ragioni per andare.

Non è stato facile formulare queste frasi. Ricordo a me stesso che non ho l’abitudine di scrivere, che non domino certe abilità della scrittura (immaginate nell’atto di scrivere e tuttavia non conosciute, non dominabili), ma mi accorgo che su questa strada sto arrivando a conclusioni per me finora inaccessibili, una delle quali, per quanto semplice possa sembrare, adesso mi si presenta a questo punto della mia scrittura, ed è la contentezza di sapere che posso parlare di pittura, sia pur nella certezza che la mia è una cattiva pittura, ma restandone comunque indifferente, che parlo di opere d’arte consapevole che le mie fatiche non turberanno affatto le discussioni e le analisi degli esperti. È come se dicessi fra me e me: “Non mi riguardano”. L’uomo senza talento è invulnerabile quanto il genio, forse di più, ma non è dimostrato che la sua vita sia meno utile. Curiosa conclusione, questa. Se non è solo mia, se non è appena una facile autogiustificazione, se è ed era anche prima un dato generale che i potenti e i dotati hanno fatto nel tempo per presentare le loro varie forme di dominio: tutto nei musei merita di essere salvato, i colori sulla tela, la tela sotto i colori, il soffitto che copre tutto e la guida che ripete quanto le hanno insegnato, il pavimento che calpesto e la suola che lo calpesta, l’etichetta che illustra il quadro e la mano assente che l’ha scritta.

Quante parole scritte dall’inizio fino a qui, quanti segni, quanti segnali, quanti dipinti, quanto bisogno di spiegare e di capire, e al tempo stesso quanta difficoltà perché non abbiamo ancora finito di spiegare e ancora non riusciamo a capire. A Milano, certe pareti parlavano, pronunciavano parole per me insolite, proibite nel mio paese di dolore e di paura: “Lotta Continua”, “Potere Operaio”. A Milano, la polizia è entrata nell’università, ha ferito e arrestato, e la stampa reazionaria ha applaudito e complimentato le autorità. Io dico che gli uomini non sono fratelli. O meglio: gli uomini non possono essere tutti fratelli. Rockefeller, Melo, Krupp, Schneider, Champalimaud, Brito, Vinhas, Agnelli, Dupont de Nemours non sono miei fratelli né sono miei fratelli i poliziotti che li servono. Poliziotti e banchieri, invece, sono fratelli fra di loro, anche se non figli dello stesso padre e della stessa madre. A Milano, i fratelli di questa confraternita, bastardi poveri e bastardi ricchi, li hanno complimentati quei bastardi dei giornali. Il mondo è vecchio e dolente.

Sarò nato allora? Non credo. L’avrei già saputo prima, oggi non sarei qui, dopo tanti anni, a interrogarmi, ripetendo Adriano, sulla data e sul luogo della mia nascita. Ma senza dubbio potrebbe essere stato durante gli anni della guerra di Spagna (1936-1939), quando un poliziotto di Lisbona mi sorprese con un mucchio di fogli in mano, poveri e mal stampati rettangoli di carta, l’inchiostro ancora umido, in cui si protestava contro l’invio di grano agli eserciti franchisti e si attaccava il fascismo, sia l’esterno sia l’interno. Firmava questi fogli un certo Fronte Popolare Portoghese (influenza onomastica della Francia, sicuramente, dico io), che non immaginavo neppure che cosa fosse. C’era una festa popolare alle Amoreiras, e c’ero andato, non so perché, visto che sono adesso ed ero allora così poco incline alla baldoria, e per giunta da solo, a un passo ormai dalla malinconia che poi non ho modificato. C’era un mucchietto di fogli, lì, sopra un muretto, e oggi riesco persino a immaginare il batticuore di chi poteva averli messi li, così impilati, a disposizione, magari, di chi passava e voleva saperne qualcosa di più di delitti. Io ero troppo giovane. Afferrai tutti quei fogli e mi accostai a una luce per leggere meglio. C’era la musica, un suono di fisarmonica, una pedana affollata di gente che ballava, tante luminarie, tante baracche per il tiro a segno, e qualcos’altro che non ricordo. Ma ricordo assai bene (“Odio vecchio non cede”, ha detto Rebelo da Silva) la mano che mi afferrò bruscamente per un braccio (per la violenza si sparpagliarono per terra tutti i foglietti) e la voce del poliziotto. L’unica cosa di cui non riesco a rammentarmi è la sua faccia. So che non era più giovane, sono passati tanti anni per cui ormai sarà morto, e mi domando solo se poi abbia mai pensato a cosa aveva fatto, se in punto di morte non abbia sofferto un po’ anche per questo (ammesso che la giustizia esista e che lui non fosse responsabile di crimini ben più’ gravi). Si chinò per prendere un foglio, lo lesse, mi ordinò di raccogliere tutti gli altri e consegnarglieli, mentre continuava a tenermi per il braccio con una forza inutile, perché neppure libero io sarei stato capace di fuggire. Conobbi allora un tipo di paura di cui fino a quel momento non conoscevo l’esistenza: la paura della vittima prescelta, condannata senza processo, la paura del reo che è appositamente nato per esserlo. Sto tentando di definire oggi la paura di allora, propenso a esagerare per avvicinarmi all’inesprimibile. “Andiamo alla centrale”, disse la guardia. Gli giurai che non avevo fatto niente di male, lo supplicai di lasciarmi andare, dicendo che quei fogli li avevo solo trovati e letti per vedere di che cosa si trattava, e nulla più. L’uomo mi domandò se me li aveva affidati qualcuno per distribuirli (“Eri in giro per distribuirli, non è vero, mascalzone?”), e io ripetei, piangendo, la mia vera ma non veridica storia. Per il poliziotto, la mia verità era una menzogna. Tutti quelli che si erano avvicinati prima si allontanarono subito appena capirono che si trattava di politica: non si limitavano a guardare da lontano, ma addirittura si mostravano distratti, oggi me ne rendo conto, vigliacchi e felici per lo scampato pericolo. E adesso mi ritrovo a chiedermi se non fosse ancora lì chi aveva lasciato quei fogli sul muretto, se non mi stesse ancora guardando da lontano con simpatia e, insieme, con la speranza che non mi facessero tanto male. Fui portato in questura, a molti isolati di distanza, metodicamente spinto e minacciato, per le strade a quel tempo e a quell’ora silenziose. Una cosa senza importanza, innocente: allora perché questo tremito di rabbia che a stento riesco a dominare?

Fui interrogato dal capo, io in piedi, lui seduto. Poi mi rinchiusero in una stanza per più di due ore. Lì smisi di piangere. Me ne rimasi tutto il tempo buono buono seduto su una sedia, quasi al buio, mentre là fuori le guardie parlavano fra di loro e il capo telefonava, dove, lo so adesso, sempre chiedendo se dovevano mandarmi “laggiù” o qualcos’altro. Finalmente mi rilasciarono, dicendomi che ero davvero fortunato, che “laggiù” erano dell’opinione che non ne valesse la pena. Ma presero nota di nome e indirizzo. Arrivai a casa molto tardi rispetto alle mie semplici abitudini e fui rimproverato e interrogato per il ritardo. Non dissi niente. È più che certo che i miei genitori dovevano aver pensato che quella sera avevo deciso di perdere la verginità. Era vero, ma non come pensavano loro, l’unica cosa a cui potevano pensare.

Scrivere in prima persona è una cosa facile, ma è anche un’amputazione. Si dice quello che sta succedendo in presenza del narratore, si dice quello che egli pensa (se vuole confessarlo) e quello che dice e fa, e quello che dicono e fanno tutti coloro che si trovano in sua compagnia, ma non quello che pensano, a meno che le parole non coincidano con i pensieri, e nessuno può averne la certezza. Se i miei amici fossero personaggi di un romanzo, scritto non da me o da uno di loro, ma da qualcuno (il romanziere) a noi esterno, a ciascuno basterebbe poter leggere quel romanzo e saremmo tutti onniscienti, come in effetti il romanziere si ritiene. così, essendo loro reali quanto me, e come me conchiusi, o, qualora aperti, non tanto che gli altri possano davvero dire: “Io lo so”, e solo dei miei pensieri potendo render conto in questo mio testo che non è un romanzo, mi rassegno all’ignoranza, all’impenetrabilità dei volti e delle parole che quei volti esprimono (sono i volti che parlano, sono i volti che capiscono), e degli amici miei continuerò a parlare senza sapere che cosa pensano, ma solo che cosa dicono e che cosa fanno. A patto, comunque, che lo dicano e lo facciano davanti a me, perché non saprò mai se sia vero quanto potrebbero affermare di aver fatto e detto lontani da me. E se qualcosa mi diranno, io non potrò sapere se lo hanno concordato fra di loro qualora uno invocasse la testimonianza dell’altro. Se questo scritto non fosse in prima persona, avrei trovato una maniera più perfetta di ingannarmi: in tal caso immaginerei tutti i pensieri, come i gesti e le parole, e, tutto sommato, crederei alla verità di tutto, anche alla bugia che potrebbe esservi, perché sarebbe verità anche questa bugia. La vera menzogna è l’ignoto, non quello che è stato solo formulato seguendo la centesima di quelle cento maniere di formulare che si è soliti definire menzogna.

Ho mostrato ad Adelina il mio resoconto di viaggio, separato, ovviamente, dalle pagine precedenti e seguenti. Ho provato una soddisfazione maliziosa mentre la guardavo leggere, seduta davanti a me, calma, la gamba accavallata, tanto sicura di sé, mentre io sapevo (unico sulla terra a saperlo) che, qualche pagina prima, lei era qualcosa di più della figura a me visibile e a se stessa sensibile, perché era qualcosa che maneggiavo solo io, che avvicinavo a me o allontanavo senza che lei lo sapesse, senza che potesse immaginarlo. Ho scoperto come la mia sensazione (o forse impressione?) non fosse soltanto maliziosa, ma l’espressione di una malizia reale (malvagità, indole cattiva), qualcosa che potrebbe provare il padrone di schiavi, il signore della piantagione, e, se ho detto reale, il re. C’era di che vergognarmi, e per fortuna mi sono vergognato. Posso distendere Adelina nuda sul mio letto, non posso sollevarle volgarmente le gonne.

“Non conoscevo questa tua dote per la scrittura”. Ecco che cosa ha detto quando ha posato i fogli in grembo. C’era un’espressione di sorpresa nei suoi occhi (hanno espressione, gli occhi? Oppure gliela dà quello che li circonda: le ciglia, le palpebre, le sopracciglia, le rughe?) e un tono interrogativo che avrei potuto indicare alla fine della frase se ne fossi ben certo. “Ho deciso di scrivere dei ricordi di viaggio finché non compare qualche altro lavoro”. Lei ha fatto una pausa e poi, sviando lo sguardo, ha aggiunto: “Non capisco perché hai chiamato questo articolo (è un articolo, non è vero?) primo esercizio di autobiografia. Come può, un racconto di viaggio, essere un’autobiografia?” “Non so se possa esserlo, non ne sono sicuro, ma non ho trovato niente di piú interessante da raccontare”. “O è un racconto di viaggio, o un’autobiografia. E perché mai devi scrivere la tua biografia?”

La logica in persona. So bene come in tutto questo c’entri molto la mia sensibilità, e c’entrino i miei scrupoli, ma al posto di questa domanda, benché di solito Adelina non sia aggressiva, avrebbe potuto essercene un’altra: “Che cosa può esserci nella tua vita che valga la pena di raccontare?” Né all’una né all’altra c’era risposta che potessi dare, tantomeno se le fosse venuto in mente di aggiungere: “E a chi?” Ho scelto perciò l’alternativa che Adelina aveva proposto per prima: “O è un racconto di viaggio, o un’autobiografia”. “Credo che la nostra biografia si trovi in tutto quello che facciamo e diciamo, in tutti i gesti, nel modo come ci sediamo, come camminiamo e guardiamo, come volgiamo la testa o raccogliamo un oggetto da terra. È questo che vuole fare la pittura. Non sto parlando della mia, è chiaro”. Ho visto Adelina arrossire: “Potresti anche parlarne, credo”. Mi ha fatto pena e ho tagliato corto: “In tal caso, quindi, un racconto di viaggio può servire all’uopo come un’autobiografia nella sua buona e debita forma. Si tratta di saperla leggere”. “Ma chi legge un racconto di viaggio, legge proprio questo, e non gli passa neppure per la testa di cercare qualcos’altro se non gli dicono che c’è”. “Forse si dovrebbe fare una premessa generale. Se la gente non ha bisogno che le venga detto che in un quadro ci sono due dimensioni e non tre, non ci dovrebbe esser bisogno neppure di avvisarla che tutto è biografia o, meglio, autobiografia”. Adelina ha radunato con cura i fogli e me li ha restituiti. “Non hai numerato le pagine”. Ovvio che non le avevo numerate. Le avevo copiate solo per mostrargliele. Non mi volevo mica scoprire. “Quello che dici è interessante, ma non posso discutere con te. Davvero non immaginavo che avessi queste idee”. “Quali?” “Queste. Scrivere, pensare a quello che si scrive. Ti vedevo solo a dipingere”. “Non va bene?” “Non l’ho mai detto”. “Ma è quello che pensi. E quello che pensano tutti”.

D’improvviso, mi sono ritrovato a dire cose che non avrei voluto, che non avevo mai pensato di dire. Adelina si era alzata, di nuovo tutta rossa, come se l’avessi offesa. E quell’impressione è stata così forte che le ho chiesto scusa. Lei mi si è avvicinata e ha detto una cosa che non avrebbe dovuto dire: “Sciocco”, e ha fatto una cosa che non avrebbe dovuto fare: mi ha dato due colpetti sulla mano (ho due mani, e quindi dovrei dire su quale mano Adelina mi ha dato i colpetti, ma pare che, scrivendo, di solito non lo si chiarisca, a meno che non sia proprio indispensabile, come nel caso che avessi la mano ferita o ammaccata e quindi dovessi lamentarmi, cosa che, oltre tutto, potrebbe essere addirittura importantissima, fondamentale per il resto della storia – qualora stessi scrivendo una storia). Mi sono limitato a domandarle: “Allora, andiamo?” “Sì”. Avevamo combinato di cenare insieme, e Carmo era d’accordo di venire al ristorante, forse con Sandra che, a quanto mi aveva informato Adelina sorridendo senza ironia, “gli va un po’ dietro”. “Per divertirsi”, ho suggerito io senza prestarle attenzione. E lei, come chi pensa pure a qualcos’altro: “Ce n’e pur bisogno”. Dette così:, con la semplicità di questa, certe frasi di Adelina mi intrigano. Direi che hanno qualcosa di irritante, o di acido, o di astringente, o di abrasivo, eppure, se trasferite sul foglio, di tutto questo forse non mostrano o denunciano niente. Udendole, mi sento un po’ come tradito: c’è, in quelle parole, un progetto di allontanamento che, in queste condizioni, potrebbe essere soltanto mio, perché ho sempre pensato che la rottura, quando dovesse arrivare, arriverebbe a lei e non a me, perché da me ne partirebbe la volontà. Mentre scendevamo le scale, lei avanti, io dietro, sentendo i tacchi picchiettare, secchi e rapidi, sugli scalini, ripetevo fra me quella sua frase e l’interrogavo: “Ce n’è pur bisogno”. Di che cosa ha bisogno la gente quando si unisce? Di cosa comincia ad aver bisogno, o di che cosa aveva bisogno anche prima senza saperlo, quando si separa? Ho capito che stavamo arrivando alla fine di questa nostra camminata insieme, non tanto perché io lo volessi (sempre un po’ distratto, un poco estraneo), ma perché lei si era stancata e le sarebbe stato difficile dire di cosa, il che potrebbe essere un motivo in più per non ritardare la separazione, prima che il tempo, passando, possa richiedere ulteriori spiegazioni, sempre più inutili e sempre più imperiose, a meno che un gesto semplice e in qualche modo schivo non abbia messo il punto finale dove non c’era altro da dire.

In macchina, poi, Adelina mi ha domandato: “A quando risale quel viaggio?” “A un paio d’anni fa”. “Pensi di continuare a scrivere?” “Può darsi. Non ci ho pensato quando ho cominciato a scrivere. Ma forse continuerò”. Siamo rimasti in silenzio per qualche minuto. Poi lei è tornata sull’argomento. “Dovresti pubblicarlo su qualche giornale. O su una rivista”. Ha fatto una pausa e poi ha aggiunto: “Togliendo, credo, quel titolo, quell’esercizio di autobiografia. La gente non capirebbe”. Di nuovo “la gente”. Curiosa maniera di parlare. Ho deciso di troncare definitivamente il discorso: “Non si sa mai di che cosa la gente abbia bisogno o che cosa capisca”. Con la coda dell’occhio ho visto Adelina voltare la testa verso di me. Ho udito o sentito che faceva un respiro profondo, come chi si decide a fare una domanda di una certa importanza, ma poi ho sentito o udito che si rilassava, e il pallore del suo viso è diminuito, mentre lei volgeva lo sguardo di nuovo avanti. Non abbiamo parlato più fino al ristorante.

Carmo e Sandra erano già seduti, poeticamente spilluzzicando formaggio fresco e vino. Noi che apparteniamo a questa classe siamo così, preferiamo i ristoranti popolari ma non troppo, con le tovaglie a fiori e gli azulejos sulle pareti, con gente popolare che ti serve ai tavoli e in cucina. Per quale mistero io non lo so, ma la clientela ha sempre quest’aria cosiddetta civile, con certe frange di intellettualità o di pretenziosa semplicità che sono il nuovo modo di essere cosmopolita in un tempo in cui tutti lo sono o stanno per diventarlo. Carmo aveva gli occhi sfolgoranti e le labbra lucide. Sandra rideva come se si divertisse un mondo, ma io, che credo di conoscerla abbastanza per capirlo senza difficoltà, la vedo anche furiosa per il nostro ritardo che la obbliga, pertanto, a farsi vedere in giro con un vecchio. Mentre prendiamo posto, guardo freddamente Carmo. Non gliene voglio, anzi, mi piace, ma è me stesso che detesto quando lo guardo, perché mi rivedo in lui, fra qualche anno, anch’io vecchio, e accanto a chi? Chi si divertirà, allora, con me? Quale uomo più giovane, per quanto di poco, si siederà davanti a me e mi guarderà così? Sandra si è impossessata della conversazione, lasciando Carmo con la frase a metà, arriva il cameriere con la lista, scegliamo i piatti, le cose si aggiustano tutte, il vino è dell’Alentejo e buono, la pace sia con noi.

A metà della cena, Sandra, incongruente, è diventata uno zucchero con Carmo. Certo, continuava a farmi segnali con il piede, ma non credo avesse altra intenzione se non quella di farmi notare che si stava divertendo a prendere in giro Carmo. E il mio (più) vecchio (di me) amico era, per usare la frase tanto spesso udita da bambino, «ai settimo cielo». (Ricordo che vi si aggiungeva: “bel bello”, ma l’enigma che era continua a esserlo per me il significato di quel “bel bello”, che riferisco solo per amore della verità e che per ignoranza non spiego). Impongono le regole del nostro gioco mondano di non fare domande quando ci si trova con amici in estasi sentimentale: ne parleranno loro quando lo riterranno necessario, se lo riterranno, anche perché non di rado i fatti consumati s’incastrano nel tran tran quotidiano di noi tutti senza spiegazioni né domande. In questo caso, l’amore era solo una ripetizione un po’ trita di storie precedenti. Ma Carmo, probabilmente, aveva le sue buone ragioni: all’aspetto vent’anni di meno, e un fuoco che sembrava consumarlo dentro, ma che non era dovuto solo al vino. Beato Carmo. Se resiste con Sandra per otto giorni almeno, o muore o entra nell’immortalità.

Adelina ha detto: “Sapete che H. [ecco il mio nome] sta scrivendo certe descrizioni del viaggio che ha fatto in Italia, due anni fa?” E Sandra, educata: “Sì?” E Carmo, sorpreso, ma sorridente e incrollabilmente felice: “Davvero?” Ho guardato Adelina pacatamente, forzandole lo sguardo con il mio. “Non dovevi dirlo”. “Non parli mai delle tue cose. Siamo fra amici, e non vorrai certo tenere un segreto”. Ho alzato il bicchiere di vino, facendolo oscillare un po’: “Non parlo mai delle mie cose, sono fra amici e non vorrei tenere il segreto. O forse sì. Era qualcosa su cui spettava a me decidere, e tu l’hai deciso per me”. L’attacco era inutilmente violento. Poi ho aggiunto: “Ma non ha importanza”. Per disperdere l’ombra che era scesa sulla tavola, Sandra ha fatto per sistemarsi i polsini e ha domandato ad Adelina: “Tu l’hai letto? Ti è piaciuto?” “Sì, molto”. Il giudizio, comunicato così semplicemente, l’ho gradito: i miei occhi, attenti, hanno accarezzato gli occhi di Adelina, ma subito ho fatto marcia indietro perché qualcosa di simile a un sorriso le ha sfiorato il viso, e questo, qualunque cosa fosse, significava che non era più sulle difensive. È stato allora che Carmo, tutto proteso verso di me dall’altro lato del tavolo (il che gli consentiva di appoggiarsi fruttuosamente sul braccio e sul seno sinistro di Sandra), l’ha sparata: “Tu scrivi, che te lo pubblico io”. Ho sentito una specie di cazzotto, localizzato nella regione del plesso solare, e ho ribattuto a Carmo: “Sei matto. Oppure sei stupido”. E lui: “Te l’ho detto. Tu scrivi, che te lo pubblico io. Fa’ un libro e io te lo pubblico. E ti pago persino i diritti d’autore”. È chiaro, Carmo non poteva certo perdere l’occasione di pubblicare l’Hemingway che aveva davanti, non poteva perdere Sandra, non poteva perdere quel braccio e quel seno. Ho insistito: “Siete usciti tutti di testa. E tu, pubblicando così, finirai per impantanarti [“impantanarti”, da “pantano”]. Come lo sai che può essere interessante quello che ho scritto? Il fatto che sia piaciuto ad Adelina non significa niente. Non è mica la tua lettrice, e tu, che io sappia, non credi all’opinione dei lettori”. Carmo, prudente, ha accettato la riserva: “Sta bene. Non l’ho letto, non posso dirlo. Ma quando finirai di scrivere, dammelo da leggere, e se sarà abbastanza interessante, parola, ti pubblico il libro”. Sandra, come se facesse parte del mio gioco, come se io stessi dirigendo un qualche gioco, si è voltata improvvisamente verso Carmo e gli ha dato un bacio sulla guancia congestionata. Non ha importanza, fra noi i baci non hanno importanza. Eppure, credo che quella sera Carmo sia andato a letto con Sandra per la prima volta.

Secondo esercizio di autobiografia in forma di capitolo di un libro. Titolo: Io, Biennale a Venezia.

Durante la proiezione di Morte a Venezia mi sono ritrovato a chiedere mentalmente al regista quando si decidesse, sia pure con malavoglia, a mostrare almeno uno dei “luoghi famosi” della città: Piazza San Marco, i Mori della Torre dell’Orologio, il Campanile, la Loggetta di Sansovino, il Palazzo dei Dogi, la facciata o le cupole della Basilica. Ma il film ha continuato a svolgersi, fino all’ultima bobina, e non una sola concessione alla tentazione del pittoresco facile. Perché? Ho lasciato aperto l’interrogativo in attesa che il caso mi desse un giorno la risposta. Ma non me l’aspettavo così presto.

La prima volta che sono stato a Venezia ho impiegato il mio tempo nella scoperta personale dell’epidermide della città, posando scrupolosamente i piedi e gli occhi dove migliaia di persone avevano già posato i loro. Per questa innocente mancanza di originalità mi scagli la prima pietra chi non ne ha mai commesse altre ben più gravi. Questa volta, però, ho rivisitato tutti i luoghi noti, di nuovo rassicurato sugli eccellenti incentivi turistici di Venezia, mi sono deciso a voltare le spalle agli splendori rivieraschi del Canal Grande e sono penetrato nell’interno della città. Sono fuggito deliberatamente dagli spazi aperti e mi sono sperduto, senza carte né mappe, fra le strade più tortuose e abbandonate (le calli), fino a ritrovarmi nel cuore oscuro di una città che finalmente si rivelava. Solo allora ho creduto (e lo credo ancora) di aver capito l’atteggiamento di Visconti: se una magia sottraesse a Venezia tutte le cose ovvie che la raffigurano agli occhi del mondo, il suo particolare fascino le resterebbe intatto. Il film Morte a Venezia si svolge nell’unica Venezia reale: quella del silenzio e dell’ombra, della nera frangia che l’acqua dei canali disegna sul limite delle facciate, dell’odore insidiosamente putrido di un’umida bruma che nessun sole potrà dissipare. Di tutte le città che conosco, Venezia è l’unica che sta morendo apertamente, che lo sa e, fatalista, non se ne cura.

L’ultimo giorno ha piovuto. Il Canal Grande era un fiume grande e pulsante, e la breve marea, spinta dal vento, gorgogliava in Piazza San Marco e presso le porte della Basilica. Venezia fluttuava come una zattera immensa, affonda, non affonda, miracolosamente sostenuta, all’ultimo istante, da qualche minuscolo ponte laggiù, ai confini della città. Ma, come una rivincita contro l’inevitabile, mi è sovvenuto il ricordo di quel dipinto di Fabrizio Clerici che mostra Venezia senz’acqua, coi suoi palazzi eretti sopra altissimi pali, mentre lo sfondo dell’Adriatico si copre di quella stessa nebbia che un tempo stemperava la città, adesso aperta, lassù, al sole.

Non entro nella polemica della Biennale. Tra le frenetiche proteste e le infervorate apologie, vago con i miei piccoli strumenti di percezione, accettando e rifiutando (spesso accettando e rifiutando poi, o viceversa), e sento dentro di me il ricordo di un agitato caos che, considerato adesso da lontano, mi si rivela singolarmente armonico.

Non potrò mai dimenticare i volatili di Trubbiani, fatti di zinco, alluminio e rame, uccelli dalle ali enormi, legati a tavoli di tortura, immobilizzati nell’istante precedente a quello della morte, all’urlo-gracidio che siamo costretti a crearci ciascuno nella nostra mente. E ho gran timore che le mie notti mi riserveranno degli incubi nella Stanza con bambini dell’austriaco Oberhuber: una sala soffocante, vuota, dalle pareti rivestite di tela a tutta volta, con dei bambini giganteschi dipinti in toni sfumati, bambini evanescenti, ma silenziosamente spaventosi.

Che cos’altro devo annotare, qui? La Cultura bovina del brasiliano Espindola, forme di arte ambientale che singolarmente hanno attratto il mio sguardo, il tatto e l’olfatto; le fibre di vetro del canadese Redinger, cilindri rugosi, sparpagliati sul pavimento, che ricordano vermi giganteschi e ciechi; i legni dipinti del Ciclo delle cinque stagioni dello jugoslavo Otasevic; le Persone del polacco Karol Broniatowski, decine di figure umane di cartone o cartapesta, a dimensione naturale, nude ma rivestite di carta di giornale, atteggiate in tutte le posizioni concepibili, per terra, sedute, sdraiate, appese al soffitto a grappoli, che invadono lo spazio in cui circolano i visitatori come se volessero aggredirli, abbracciarli, possederli; i bronzi dell’ungherese Andras Kiss Nagy, simili a formazioni prismatiche di basalto; le acqueforti dell’uruguaiano Luis Solari, quasi tutte minuscole, goiesche, dove le figure umane sono sostituite o si fanno accompagnare da sosia animali; le ripugnanti fotografie dell’americana Diane Arbus, o il ripugnante fotografato.

Da questi riferimenti si potrà vedere quanto sia stato colpito da opere che, in una maniera o nell’altra, hanno radici in un espressionismo esaltato e polemico; e sottolineo questo fatto come il probabile risultato di una tendenza personale, temperamentale, e non come un tentativo di dare un giudizio di valore che, decisamente, non mi proporrei.

Uscendo dai Giardini di Castello, dove la Biennale distende pigramente i suoi padiglioni, è già la partenza da Venezia che si avvicina. Il vaporetto si fa strada con difficoltà nelle acque torbide e mosse, lungo la Riva dei Sette Martiri e la Riva degli Schiavoni, dove finalmente scendo. Una malinconia sfrenata copre tutta la città. La facciata del Palazzo Ducale, che alla luce del sole è di un pallido arancione, diventa, con la pioggia, di un rosa antico e sembra fragilissima. Sotto l’arcata che dà sulla piazzetta, seduti sulla panchina di pietra che corre lungo tutto questo lato della facciata, cinque ragazzi americani, di quelli che semplicisticamente chiameremmo “hippy”, riposano dormicchiando, appoggiati l’un l’altro in una fratellanza che ti stringe il cuore.

Mi congedo dai Tetrarchi, i guerrieri di porfido, egizi o siri, che sono scolpiti all’angolo della Basilica, proprio all’ingresso della Porta della Carta. Sono venuti da lontano, questi armigeri, che si abbracciano fraternamente come gli hippy, ma poi sono rimasti qui a guardare in faccia le folle, stringendo l’impugnatura della spada, mentre la mano libera si posa, pacifica, sulla spalla del compagno. Amo questi Tetrarchi. Sfioro con le dita la pietra rossa, in segno di congedo, e proseguo. Arrivederci a quando?

Il 14 marzo 1944 (trent’anni orsono) bombardarono Padova. La Chiesa degli Eremitani fu distrutta quasi totalmente: così scomparvero o furono danneggiati gli affreschi di Mantegna sulla storia di San Giacomo (il pittore aveva diciassette anni quando si ritrovò, coi suoi colori e i suoi pennelli, davanti alla superficie nuda della parete). Guardo ciò che rimane del mondo pittorico di Mantegna, le architetture monumentali, le figure ampie e possenti come paesaggi rocciosi. Sono da solo nella chiesa. Sento i rumori della città che ha dimenticato la guerra, il sibilo degli aerei, il fragore delle bombe. Quando mi decido a uscire, entra una coppia di vecchi inglesi, alti, magri, rugosi, uguali. Come trovandosi in una casa conosciuta, si dirigono alla Cappella Ovetari, quella di Mantegna, e si fermano li a guardare.

Ma Padova (città di Sant’Antonio e del Gattamelata, la statua equestre di Donatello che sembra non sia stata vista da nessuno di tutti coloro che, oggi, fanno statue equestri in Portogallo) è soprattutto la Cappella degli Scrovegni, dove Giotto dipinse gli affreschi della Vita di Maria e di Gesù, della Passione, Ascensione e Pentecoste e un Giudizio universale.

Questi dipinti non possiedono, forse, la freschezza narrativa del ciclo della Vita di San Francesco, sempre di Giotto, in Assisi, ma non so quale stile potrebbe adattarsi meglio al tiepido bozzolo, alla dimensione perfetta della Cappella degli Scrovegni. Le figure si mostrano riservate, talora ieratiche, appartengono a un mondo ideale, premonitore di Giotto. In un mondo così descritto, il divino si diffonde serenamente sopra le cose e le vicissitudini terrestri, come una predestinazione o una fatalità. Lì, nessuno sa sorridere con le labbra, forse per incapacità espressiva del pittore. Ma gli occhi, incavati, dalle palpebre lunghe e pesanti, spesso brillano animati e possiedono una calma e benigna saggezza che fa aleggiare le figure al di sopra e al di là dei drammi che gli affreschi raccontano.

Mentre percorrevo una prima, una seconda e poi una terza volta la cappella, seguendo nell’ordine i tre cicli, mi è sovvenuto un pensiero che ancora oggi non riesco a esplicitare e a esaminare. Più che un pensiero è stato un augurio: poter dormire una notte lì dentro, nella cappella, svegliarmi prima dell’alba e veder emergere dall’oscurità, a poco a poco, come fantasmi, i gruppi in processione, i gesti, i volti, quel colore turchino da miniatura che dev’essere un segreto di Giotto perché non esiste in altri pittori. Oppure non esiste finché guardo lui.

Non si creda che in me vi sia qualche richiamo religioso che in tal modo si manifesterebbe. Si tratta piuttosto, e assai terrestremente, di voler sapere come possa nascere un mondo.

Se sono capace di essere, al tempo stesso, o successivamente, autore e giudice delle mie azioni, credo che l’offerta di Carmo abbia avuto una certa influenza su questo secondo esercizio. Vi si ritrova (almeno a quanto mi sembra) un diverso e più ampio respiro narrativo, più cura nello stile, e quell’aria composta di chi si sente osservato. Entrambi gli esercizi sono collegati, sia nel tempo che descrivono sia nel tempo in cui li scrivo, ma il primo è sprovveduto, libero, innocente, mentre quest’ultimo è divenuto adesso letterario, non so se in bene o in male. Direi che male è, forse, la preoccupazione di nobilitare il gesto e la frase, adesso manifestazioni controllate, non naturali, non scorrevoli, e che bene sarà stato lo stesso controllo che ha permesso di dire cose un po’ più intelligenti, un po’ più attente, un po’ più vicine, e perciò, probabilmente, infine, personali. In tal caso, grande sospetto merita la spontaneità, e complicati elogi meriterebbe l’artificio, questo sì, davvero arte, artefatto e, come si dice nell’Alentejo (o si diceva quando ancora lo si diceva) artenzages, come a dire “artimmagie”, che, balza agli occhi, è il modo popolare di designare le arti magiche. O si tratta piuttosto di arte di immagini? Visto che non ho ancora dimenticato del tutto di essere un pittore, quest’ultima ipotesi mi attira: quella di chiamare “artimmagie” la pittura. Quanto sarebbe più bello il nome di “artimmagista” invece che “pittore”, quanto più rigoroso nel suo caso, se tanto e tanto diversamente dà il pittore, e tanto lontano dalla pittura.

Non dubito che sia una grande ingenuità, la mia. Queste prose non lo meritano certo, e Carmo non deve aver pensato seriamente di pubblicare testi che non ha visto e che, passati i fumi dell’alcol e il turbamento, cercherà di non vedere. Accanto a Sandra, sentendole il seno formoso e forse toccandole la gamba, Carmo si sarebbe dichiarato volontario per lo spazio, primo nella storia, se Gagarin si fosse ammalato all’ultimo momento e l’Unione Sovietica non avesse potuto disporre di altri astronauti. Sono tante le maniere di fare gli eroi e la brava gente: la difficoltà sta nel cogliere la gente nel momento preciso in cui tre o quattro fattori, prima sconnessi, si incontrano nello spazio ottimale. È un momento impercettibile, e si sa come il punto d’incontro sia anche il punto d’incrocio, e come i fattori, inoltre, una volta incontratisi, immediatamente si allontanino per sempre, a meno che, come mi hanno insegnato a scuola, lo spazio sia infinito e circolare, o sferico, e quindi sia ripetibile l’incontro. In poche parole, nessuno di noi si ritroverà subito in quel punto così precario: il tempo non potrebbe attendere tanto tempo. In questo caso c’è ancora una speranza: finché Sandra, non so per quale capriccio o intimo sconforto, sarà o sembrerà interessata a Carmo, la promessa, la garanzia, il quasi giuramento non potranno essere dimenticati. Carmo, certo, non vorrà venir meno a quel gradino cui è asceso quella sera. C’è solo un modo di fare il Don Chisciotte: ingrandire gli ideali. C’è solo un modo di ritardare il tempo: vivere il tempo di un altro. Dell’una e dell’altra cosa approfittano i furbi, ma non è il mio caso, ché degli scritti sull’Italia a Carmo non parlerò.

Darei probabilmente tutta la mia arte di pittore (non darei granché, questo è vero, ma darei tutto ciò che possiedo) per conoscere le ragioni profonde che spingono a scrivere. Lo stesso si potrebbe dire del dipingere, ma lo scrivere, lo ripeto, mi sembra un’arte di ben maggiore sottigliezza, forse più rivelatrice di colui che scrive. Posso giurare che a Venezia (controlli sui cataloghi chi ne dubiti) c’erano davvero quegli uccelli di cui parlo, gli uccelli di Trubbiani, fatti di zinco, alluminio e rame, legati a tavoli di tortura, con le ali troncate, il dispositivo meccanico che scatta e innesca la lama di una ghigliottina o fa partire una rivoltellata, o solo prolungare una lenta agonia. Ma perché ho colto e fissato tutto ciò, perché tutto ciò mi ha colpito, al punto di essere la prima cosa di cui ho parlato, e che così mi denuncia? Quando l’ho scritto non lo sapevo, lo so adesso che torno a scriverlo (lezione importante: nulla si deve scrivere una volta sola). In realtà mi sono denunciato, ma nessuno potrebbe immaginarlo, perché la prima volta si usa sempre il linguaggio segreto che dice tutto e nulla consente di capire. Solo il secondo linguaggio spiega, ma tutto ritornerebbe occulto se il codice del primo linguaggio, in quel preciso istante, fosse dimenticato o smarrito. Il secondo linguaggio, senza il primo, serve per raccontare storie, ma solo tutti e due insieme creano la verità. Che cosa ho denunciato, allora? Ho denunciato una tortura commessa tanti anni fa, molto prima dell’episodio del poliziotto e dei volantini del Fronte Popolare Portoghese. Quanto può essere lungo il tempo! Si dice che esista una peculiare crudeltà infantile, anche se qualcuno lo nega. Quanto a me, se chiamato in causa, affermo che questa crudeltà esiste, è vero, se chi dà questa sentenza attribuisce l’ipotetica crudeltà a un altro tempo e ad altre circostanze. In tempi e circostanze diverse, ma nel posto giusto, l’ho creduto e ne ho tratto questa conclusione.

In cima a un albero (un ulivo, per essere preciso) c’è un uccello. Un passero. Sotto, con la fionda in mano, muovendosi pian piano, un ragazzino. Il quadro è classico, l’obiettivo semplice. Nessuna crudeltà, i passeri sono nati per essere presi a sassate, i ragazzi per prendere a sassate i passeri. È così dall’inizio del mondo, e come i passeri non sono emigrati su Marte, così i ragazzi non si sono rinchiusi in convento, schiacciati dal loro rimorso. (È vero, è accaduto al pilota che ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima [o forse era quella di Nagasaki?], ma l’eccezione, stavolta, non conferma la regola). Ragion per cui, teso l’elastico, presa la mira, ecco partire il sasso. Il passero, però, non è caduto. Non è caduto e neppure ha spiccato il volo. È rimasto li sullo stesso ramo, nello stesso posto, cinguettando in un modo che pareva indefinito, ma che, lo si è saputo in seguito, era di abbandono. Il sasso gli era passato accanto, strappando due foglie di ulivo che erano cadute giù lentamente, oscillando, come appese a un filo che pian piano si distendesse fino a terra. Il ragazzo ne fu irritato, poi sorpreso e infine contento. Irritato perché aveva fatto cilecca, sorpreso perché il passero non era volato via, e contento per la stessa ragione. Un altro sasso nella fionda (detta anche frombola), un’altra e più precisa mira, e il rapido rumore della frizione con l’aria, del sibilo. Lanciato in verticale, il sasso risalì al di sopra dell’albero, un punto nero che si rimpiccioliva nello sfondo azzurro del cielo, quasi al limite bianco di una nuvoletta tonda, e lassù si fermò per un istante, come approfittandone per guardare il panorama. Poi, come in uno svenimento, si lasciò ricadere, avendo già deciso il punto in cui di nuovo si sarebbe sistemato al suolo. Il passero era ancora li sul ramo. Non si era mosso, non si era accorto di nulla, quel povero uccello non faceva che pigolare e scuotere appena le piume. Dapprima irritato e sorpreso e contento, a poco a poco cominciai a provare solo vergogna. Due sassi, un uccello pacifico e vivo. Mi guardai intorno, per vedere se ci fosse qualcuno a osservare la mia pessima mira. L’uliveto era deserto. Si udivano solo il canto spedito di tanti altri uccelli, e forse lì, a pochi metri, una lucertola verde, all’ingresso del buco, nel rifugio di un albero, mi guardava con i suoi occhi fissi e vitrei, tentando di capire quel che vedeva. Volò un terzo sasso, e un altro, e poi un altro ancora. Sei o sette sassi furono lanciati, sempre meno decisi, con mano sempre più tremula, fino a quando, senza che il passero si fosse mosso, senza che avesse smesso di pigolare, un sasso fortuito, quasi privo di forza, lo colpì in pieno petto. L’uccello precipitò di ramo in ramo, battendo le ali, in quel penoso pigolare di chi si accomiata dall’elastica saldezza dell’aria, e venne a cadermi ai piedi, scuotendo spasmodicamente le zampe e spalancando come dita le malformate remigi (“remigi”, “artimmagie”, credo proprio che non si dica così). Era un passerotto giovane, che doveva aver abbandonato il nido per la prima volta quel giorno, tanto giovane che aveva ancora la commissura gialla del becco aperta. Era riuscito a radunare le sue forze per volare fino a quel ramo e vi si era posato per recuperare le energie nelle ali e nella sua piccola anima. Che belle, viste da lassù, le cime arrotondate degli ulivi, e laggiù, lontano, a meno che vista di passero non sbagli, quegli altri alberi, tutti frassini e pioppi, piantati in fila, coperti di foglie che sembravano manine che salutavano o ventagli che facevano un po’ di vento. Raccolsi il passero da terra. Me lo vidi morire fra le mani, che tenevo a conca, prima gli vidi la pupilla nera offuscarsi, poi la palpebra quasi traslucida rovesciarsi all’insù e lì restare, lasciando appena una fessura percorsa ancora da uno sguardo, nell’ultima pellicola di tempo che restava. Morì nella mia mano. Prima vi si era trovato da vivo, e poco dopo vi morì. Ed è morto di nuovo a Venezia, imprigionato in ceppi e incatenato a un tavolo di tortura. La testa, un po’ reclinata, volgeva verso di me un occhio dilatato dall’orrore. Qual è la morte vera? Viaggiando a ritroso nel tempo e insieme spostandosi nello spazio, sopra l’Italia, la Francia e la Spagna, o librandosi morto sopra le acque ringiovanite del Mediterraneo, l’uccello di Trubbiani, di rame e alluminio, è venuto a posarsi nel palmo della mia mano, a prendere il posto del corpo ancora tiepido, ma che ormai si stava raffreddando, di quell’altro uccello assassinato. Nell’uliveto caldo e silenzioso, il ragazzo comincia a intuire che i crimini esistono e hanno dimensione. Porta a casa il passero morto e lo sotterra nel giardino, presso il fossato dove la zappa non arriva: un tumulo per l’eternità.

Ciò che ancora non esiste, ciò che è arrivato e passa, ciò che non esiste più. Il luogo solo spazio e non luogo, il luogo occupato e, quindi, nominato, il luogo di nuovo spazio e deposito di quanto resta. Ecco la più semplice biografia di un uomo, di un mondo e forse anche di un quadro. O di un libro. Ribadisco che tutto è biografia. Tutto è vita vissuta, dipinta o scritta: lo star vivendo, lo stare dipingendo, lo stare scrivendo, l’aver vissuto, l’avere scritto o l’aver dipinto. E tutto quanto vi è prima, il mondo ancora deserto, che sta aspettando o preparando la venuta dell’uomo e degli altri animali, di tutti gli animali, gli uccelli dalla carne tenera, e le piume, e i canti. Un enorme silenzio sopra le montagne e le pianure. E poi, molto più tardi, lo stesso silenzio, sopra montagne e pianure ormai diverse, e sopra le città vuote, ancora per un po’ di tempo, con qualche foglio sospinto qua e là per le strade da un vento interrogativo che soffia verso la campagna senza risposta. Fra le due immagini, quella che il prima richiede e quella che il dopo minaccia, c’è la biografia, ci sono l’uomo, il libro, il quadro.

Ritiratasi l’acqua dal Mediterraneo, Venezia in equilibrio sugli alti pali che sono le sue ossa, così alti che solo gli uccelli la visitano, con quelle figure di uomini e donne in movimento, forse, per le strade e le piazze, tutte nude, imbottite o rivestite di fogli di giornale, con la pelle, la bocca, tutto il corpo, il sesso, gli occhi, completamente ricoperti di notizie. Ecco un dopo possibile. È con immagini del genere che popolo la mia ossessione, ma non lo vorrei. Bisogna immaginare il deserto, guardare il deserto, come Lawrence d’Arabia ha fatto nel film, spopolare tutto, creare il silenzio perfetto, quel silenzio in cui solo i rumori del nostro corpo rivivono, sentire il sangue scivolare fra la sinuosa morbidezza delle vene, il pulsare del sangue, l’arteria del collo che batte, la pompa del cuore, la vibrazione delle costole, il gorgogliare delle viscere, l’aria che fischia tra i peli delle narici. E adesso si. Adesso il giorno può cominciare a nascere, lentamente, un po’ più lentamente ancora, non c’è fretta. Sdraiato per terra, supino, guardando lassù dove nasce un primo chiarore, poi volgendo la testa da un lato e dall’altro, perché in questo mondo non c’è certezza che il sole nasca a oriente, ed è necessario cogliere il primo raggio di luce, la prima fascia, forse un altro uccello, quel punto della montagna su cui poggia il cielo, un viso, uno sguardo, un sorriso, due mani pronte a creare. Tanto può essere, in fondo, la Cappella degli Scrovegni, come la fratellanza dei Tetrarchi, spalla contro spalla, l’impugnatura comune perché comune è la volontà.

Adesso è giorno fatto. Giotto, seduto sul ponteggio, dipinge Lazzaro risuscitato. È molto lontano, in Egitto (o forse in Siria), ancora oggi c’è un enorme masso di porfido che mostra la cicatrice lasciata dal blocco in cui furono scolpiti i Tetrarchi.

Tra morte e vita, tra grafia di morte e grafia di vita, continuo a scrivere queste cose, in equilibrio sullo strettissimo ponte, ad afferrare l’aria con le braccia spalancate, desiderandola più densa, perché non sia stata o non sia troppo rapida la caduta. Non sia stata, non sia. In pittura sarebbero due tonalità vicine dello stesso colore, il colore “essere” per maggior precisione. Un verbo è un colore, un sostantivo, un tratto. Nel deserto, solo il nulla è tutto. Noi, qui, separiamo, distinguiamo, riordiniamo in cassetti, in depositi, in magazzini. Biografiamo tutto. Talora raccontiamo correttamente, ma la correttezza è assai maggiore quando inventiamo. L’invenzione non si può paragonare alla realtà: infatti ha più probabilità di essere esatta. La realtà è ciò che è intraducibile perché è plastica, dinamica. E anche dialettica. Ne so qualcosa perché l’ho imparato col tempo, perché ho dipinto, perché sto scrivendo. Adesso, anche il mondo là fuori si trasforma. Nessuna immagine lo può fissare: l’istante non esiste. L’onda che arrivava accavallandosi ormai si è franta, la foglia non è più ala e fra poco comincerà a crepitare, secca, sotto i piedi. E c’è il ventre gonfio che cala rapidamente, la pelle tesa che si riassorbe, mentre un bimbo respira e strilla. Non è tempo di deserto. Non è più tempo. Non è ancora tempo.

Ho avuto un’altra commissione, ma non comincerò immediatamente a dipingere. In questo mio mestiere è proficuo, di tanto in tanto, ma senza abusare della tattica, mostrare di non essere disponibili. Se qualcuno vuole essere ritratto e il pittore dice subito: “Ai suoi ordini”, è più che certo che il cliente ne resterà deluso. Dobbiamo farci furbi, noi, pittori di ritratti. La regola basilare è di considerare chiunque desideri un ritratto come un malato. Che cosa fa il malato? Il malato telefona al medico, alla segretaria del medico, e gli fissano la visita da lì a tre settimane: esiste forse felicità più grande? Mentre aspetta, il malato si sente importante come il medico che lo fa aspettare: si inorgoglisce di avere un medico tanto ricercato, si preoccupa degli impegni di un individuo per tre settimane inaccessibile, prima che finalmente questi lo possa ricevere, vedere, auscultare, palpare, prescrivergli delle analisi ed esaminare. E curare, se possibile. Ma l’attesa, in tali casi, è già metà della cura. Com’è noto, solo i poveri muoiono per mancanza di assistenza medica.

Non è diverso quanto accade con questo mio lavoro di fare ritratti, anche se, in questo caso, vi si unisce l’ulteriore vantaggio che il futuro effigiato potrà disporre di qualche giorno in più per prepararsi. Si preoccuperà del proprio aspetto, si sforzerà di non apparire sminuito, anche psicologicamente, perché quel ritratto sarà un esame quando ormai è passato il tempo degli esami. E al momento della prima seduta, il futuro effigiato guarderà il pittore nel modo in cui io penso che il confessato sia tentato di guardare il confessore e il malato il medico: quali segreti o quali misteri finiranno per trovare i segreti e i misteri? A quali parole andranno a unirsi le mie parole? Quale viso è stato, prima di essere il mio? Chi ha vissuto qui, prima di me? Buone ragioni, tutte, per fare aspettare il cliente. Ma intanto ho bisogno di denaro. Perfino questa mia vita tranquilla, questo mio poco uscire, questo starmene in casa a dipingere (a scrivere da qualche mese), questo semplice respirare, questo mangiare, questo mettermi qualcosa addosso, questi colori per dipingere e adesso questo inchiostro per scrivere, quest’automobile che non uso neppure tanto – perfino questo reclama denaro, richiede denaro ogni momento. Non sono lussi miei, ma la vita è sempre più cara. Tutti si lamentano. È vero, non ho bisogno di granché per vivere. Se fosse necessario arrivare a quel punto, so che mi basterebbero quattro fogli (pareti, vorrei scrivere), un letto, un tavolo e una sedia. O due, per non lasciare in piedi una (eventuale) visita. E un cavalletto, giacché così dev’essere. Dico subito che la mia infanzia e la mia adolescenza non sono state facili. Ne so qualcosa delle privazioni. Nella casa dei miei genitori (ormai sono morti tutti e due) il denaro non abbondava e il cibo non avanzava. E quella casa fu per alcuni anni (molti per un bambino) una camera sola, con l’aggiunta di quel che si definiva, nel linguaggio imprestato di allora, l’uso di cucina, e anch’esso per lungo tempo fu solo questo: soltanto in seguito divenne comune l’altro uso, quello del bagno, quando costruire bagni cominciò a essere normale. In questa città di Lisbona, quand’erano ancora pochi e piccoli i quartieri di baracche, quando l’emarginazione significava il cortile e il giardinetto di periferia, non erano rare le grandi case in cui un solo lavandino in cucina serviva per tutti gli scarichi e i rifiuti, liquidi e solidi. Si usavano i bacili nelle varie stanze e poi la donna, da quelle stanze, portava il bacile in cucina, dopo aver avvisato le altre donne e i bambini di allontanarsi. Lungo il corridoio, la donna portava il bacile coperto con un panno, non tanto per l’odore, che un semplice pezzo di stoffa non sarebbe riuscito a trattenere (tutti, quindi, si conoscevano dall’odore), ma per una semplice e ingenua forma di decenza, di riserbo, di un pudore che oggi, dopo tanti anni, mi fa scuotere impercettibilmente la testa e sorridere.

Probabilmente sto invecchiando. La vita è cara, e quindi mi porta a ricordare cose di un passato doloroso. Forse voglio mostrarmi in credito per tutto il resto della mia vita, ai miei occhi soltanto, e questo non è bene per l’equilibrio psicologico. Che nessuno abbia pena di se stesso, ecco il primo comandamento del rispetto umano (contraddizione: nessuno avrà pietà degli altri se non avrà avuto pietà di se stesso). Ma è senza dubbio segno di invecchiamento (se i libri dicono il vero) questa facilità con cui gli avvenimenti remoti, tanto insignificanti, sorgono da una memoria che pensavo ne avesse perduto definitivamente il ricordo. Ma ecco, mi sta venendo in mente quella vecchia ospite (oppure ospita?) alcolizzata che un giorno, fra le sottane delle donne di casa, scandalizzate e insieme divertite (le donne, non le sottane), vidi sdraiata sul pavimento pulitissimo della sua camera a cantare e masturbarsi. Allora sapevo solo che cosa fosse cantare. Riuscii a spiarla non piú che per un rapido secondo, al massimo. Le donne chiusero la muraglia che facevano sulla soglia della camera e una di loro (non mia madre) mi portò via da lì, sul balcone, dove poi rimasi, assai più indifferente di quanto non sia oggi, che lo ricordo. Su un altro balcone di un’altra casa sarei stato messo in castigo (o vi ero già stato messo prima?), con due brucianti ceffoni (o tre? o quattro?) per essere stato sorpreso infilato in un letto con una bambina di casa, poco più vecchia di me (e oggi, se la rivedo, irrimediabilmente vecchia). Che cosa facevamo? Ovviamente, nulla. Tentavamo solo di imparare, di imitare quel che entrambi avevamo già visto nelle camere dei nostri genitori, quando loro ci credevano addormentati e il nostro cuore batteva all’impazzata davanti a quell’ignoto che si rivelava e, al tempo stesso, si ritraeva. Seduti nel lungo balcone sul retro della casa, che si affacciava su un ampio spazio pieno di giardini, ciascuno nel suo cantuccio (su quei giardini ho spesso volato in sogno), piangevamo, lei e io, non per la lezione interrotta, ma per il vigore degli schiaffi e la vergogna che le voci acute delle donne tentavano di avvitarci nell’anima. Loro, che nel silenzio delle camere sospiravano e gemevano, dopo aver deciso, insieme ai loro uomini e nostri padri, che noi dormivamo profondamente e che non c’era pericolo. Quanti avvenimenti, quante cose riempiono l’infanzia.

Sono uscito di rado. Adelina è andata, come si suol dire, a passare le ferie al paese, insieme a sua madre. Coltiva quest’abitudine tranquilla e borghese di tornare per quindici giorni (l’altra settimana la riserverà per noi, siamo d’accordo, non tutta, non di seguito, in vari giorni) in un paese dove non so bene se sia nata o sia cresciuta. Torna al paese, alla terra come si suol dire in portoghese, e come direbbe e farebbe, o dirà e farà quell’uomo che, trasferitosi sulla Luna o su Marte per viverci e lavorare, torna da noi durante le vacanze, o solo per ristudiare (ammesso che ne valga la pena) i costumi e aggiornarsi sulle mode e le idee passeggere del terzo pianeta del sistema, contando dal più vicino al sole al più lontano. La Terra, per farla breve. Siamo alla fine dell’estate, e io sono solo. È ancora facile posteggiare le macchine, si rivedono le cunette, le strade sembrano aver recuperato vecchie fisionomie, si circola senza difficoltà. Ma sono solo. Praticamente, i miei amici sono tutti fuori. Qualcuno si è fatto vivo per dare un saluto. Qualcun altro neppure questo. E che obbligo avevano? Sembra che Carmo e Sandra siano in Algarve, o andavano in Spagna, non sono sicuro. Chico è tutto preso da una ballerina inglese del Casinò di Estoril e nessuno lo vede. Mi telefona ogni tanto per vantarsene – e come sa vantarsi bene. Quanto ad Ana e Francisco (mi risulta pratico usare l’altro Francisco al diminutivo, Chico), credo che siano un po’ meno innamorati. Ma non bisogna pensarne male. Hanno dato tutto quel che avevano, convinti che si sarebbero così attenuti a certe vaghe regole eterne dell’amore, e forse per provare agli amici e ai semplici conoscenti come, nel caso loro, fosse una faccenda seria. E lo è stata. Continua a esserlo, sebbene in maniera un po’ diversa. Si fanno vedere ancora mano nella mano, ma è un ruolo studiato che ha meritato le ovazioni di un pubblico di amatori e adesso non si aspetta più che qualche applauso. Li vedo infelici, preoccupati di tener duro, di sorridere, di fronteggiare il logorio, e perciò voglio bene a tutti e due. Penso a loro con amicizia e lo scrivo. Quanto ad Antonio, non ha più dato notizie di sé dopo quella scena (o episodio) disastrosa della tela dipinta di nero, dove solo io sapevo che c’era sotto un ritratto che non mi era riuscito di portare a termine. Vorrei vederlo, parlargli. In me, probabilmente, c’è un po’ di masochismo: in questo momento (in questo momento solo, non più in quest’altro che gli succede, quando non lo vorrei già più), vorrei dargli queste pagine scritte. Forse per prendermi una rivincita, forse per lanciare una nuova sfida. Che potrei anche perdere, ma che, per il fatto di averla lanciata io, mi darebbe un certo tipo di vittoria irrefutabile. Io credo.

In questo momento è sera. Non molto tardi, sono le undici, forse poco più. Mi tolgo sempre l’orologio per dipingere, lo tolgo anche per scrivere, e in genere lo infilo in un dito del Sant’Antonio, o rispettosamente glielo metto al polso, perché questo santo si distingua dagli altri santi e sappia, almeno quando io scrivo o dipingo, a quanto va – mentre io vado alla ricerca di me stesso. È un Sant’Antonio di legno, diciamo di legno tarlato. Un tronco per il corpo rigido, un blocco per la testa, una forcella d’albero per le braccia, un gran lavoro di sgorbia, colore secondo le convenzioni, un foro sulla nuca per assicurare lo splendore – quanto basta per farne un Sant’Antonio. Dietro di lui ho badato che vi fosse una parete bianca, il lato recuperato della cella, quando i miracoli ormai si rifiutavano di diffondere la fede all’aria aperta. Con questo legno (tutto dello stesso albero? O di alberi cresciuti insieme? O di altri che hanno trovato solo qui?) ci si potevano fare tanti altri santi, tutta la Leggenda Dorata, una delle Undicimila Vergini, Eva, Maddalena, la Madre Eterna e il Padre Mortale, l’Angelo delle Annunciazioni, la prima della Vita, la seconda della Morte, e nessuna della Risurrezione. Guardo il santo e scrivo, ed è come se stessi dipingendo. Mi agito un po’ sulla sedia, la sento cigolare, e tutte le cose di questo mondo mi sembrano tanto semplici quanto il fatto che sia di legno la sedia su cui sono seduto e di legno il santo che sto contemplando. La suprema irriverenza e la venerazione somma.

Eccomi di nuovo a scrivere dopo essermi interrotto per andare a sistemare accanto alla statua la sedia su cui ero seduto. Ed eccomi qua, adesso sono seduto in terra, le gambe incrociate come lo scriba egizio del Louvre, alzo la testa e guardo il santo e la sedia, due opere dell’uomo, due giustificazioni per vivere, e dibatto fra me e me su quale sia più perfetta, più adatta alla funzione, più profondamente utile. Poi, dopo averne discusso, il premio non lo dò al santo, ma non lo dò neppure alla sedia. È un pareggio onorevole, come si dice nel linguaggio dei giornalisti sportivi, i più emollienti e riposanti uomini fra tutti coloro che scrivono, abati della religione più tranquillizzante fra quelle finora inventate. Aggiungerò che per poco non mi decidevo per la sedia, influenzato slealmente dall’altra, quella dipinta da Van Gogh. Sarebbe stato un caso di parzialità manifesta, e l’ho evitato. E per equilibrare il mondo e le influenze, ho deciso di dipingere il santo. Attenzione. Che cosa ho scritto? Dipingere il santo. So perfettamente ciò che ho fatto, ma lo saprebbe chi leggesse queste tre parole? Dipingere il santo: che cos’è? E che cosa significa dipingere il santo? Qualunque cosa io faccia, avrò sempre ragione, avrò sempre mantenuto fede alla mia parola, alle tre parole che ho pronunciato, ma nessuno saprà mai se avrò fatto quello che realmente ho annunciato: dipingere il santo.

Sono andato a guardare il fiume e le luci dalla finestra. È coperto, e una sottile nebbiolina rischiara il cielo. Alla fin fine, domani telefonerò al cliente. Dipingerò in fretta, sento che dipingerò in fretta. Il ritratto è doppio, marito e moglie. Sposano la figlia, mi ha detto lui, e vogliono che abbia nella nuova casa il ritratto degli amatissimi genitori, dipinto a olio. Eccellente idea. Che significa: dipingere il santo?

Terzo esercizio di autobiografia in forma di capitolo di un libro. Titolo: Il compratore di cartoline.

Sono persone timide, insicure, schiacciate in anticipo dalle navate delle cattedrali, che sono come cieli carichi di ombre, o dalle grandi sale dove si trovano gli enigmi. Sono appena arrivate e vanno a sottoporsi alla grande prova, all’interrogazione della sfinge, alla sfida del labirinto, e giacché vengono da un mondo ordinato, che dappertutto mette cartelli stradali, segnali di divieto, limiti di velocità, si sentono sperduti in questo nuovo regno dove c’è una libertà da conquistare: quella libertà conosciuta col nome banale di opera d’arte.

E allora corrono ai chioschetti dove le cartoline, a decine, disciplinano la marea nel frattempo trattenuta. La cartolina illustrata, nelle mani del viaggiatore perplesso, è una superficie che si percorre facilmente, che si offre a un semplice sguardo, che tutto riduce alla piccola dimensione della mano inerte. Perché l’opera vera che aspetta là dentro, anche quando non molto più grande, è protetta dagli sguardi inetti grazie alla rete invisibile che le vive mani del pittore o dello scultore hanno tracciato, mentre laboriosamente ne inventavano i gesti della nascita.

Al viaggiatore, poi, non resta altro che avventurarsi, pena la vigliaccheria, e avanzare nella foresta pietrificata e piana delle statue e delle tavole, in mezzo a folle rumorose se la pinacoteca è celebre, e ricercata per abitudini turistiche, o in un silenzio che permette di sentire il cigolio discreto di una vecchia tavola di legno del pavimento (altro destino della tavola), qualora si trovi in un piccolo museo di provincia, di quelli dove i custodi ci guardano sorpresi e grati. Molto più tardi, ormai rientrato a casa, la cartolina illustrata avrà un suo valore di conferma: su quella strada c’è stato davvero il viaggiatore, non lo ha fatto in sogno.

Ma questa veduta del Castello Estense, a Ferrara, che ho fra le dita, non la conosco. Mi sono comportato solo da animale terrestre intorno a esso e dentro le sue mura, e questa cartolina me lo mostra fotografato dall’alto, dalle ali di un uccello. Nel sogno mancava quest’immagine, ma la intreccio rapidamente alla veduta aerea di Venezia, minuscola in mezzo alla Laguna, circondata di melma quasi a fior d’acqua, con quelle placide correnti che, viste dal cielo, sono come foglie di acanto in perpetua trasformazione.

(Ho ricevuto una lettera da Adelina. Ha deciso di troncare la nostra relazione).

Ferrara è un luogo tranquillo, con lunghe strade che, anche nel centro della città, possiedono una modestia di periferia, con alte mura che si affacciano su giardini da cui irrompono, col movimento della brezza, effluvi, nuvole invisibili e profumate di nardo che mi avvincono. Proprio lì, in una di queste strade, in Corso Ercole I d’Este, c’è il Palazzo dei Diamanti, che corrisponde alla Casa dos Bicos [[4]] che gli abitanti di Lisbona vorrebbero avere nel Campo das Cebolas. Sono ottomilacinquecento bugne a punta di diamante, sulle quali il sole e l’ombra giocano come all’interno di un cristallo. E sempre lì, in quella strada, all’improvviso si apre il modesto portone della Pinacoteca Nazionale, offrendomi immediatamente una mostra di Man Ray, quasi duecento opere fra dipinti, disegni, sculture, e tutto quello che in Man Ray lo rappresenta, pur non essendolo.

Il museo è tranquillo come può esserlo solo un giardino. Conserva due tondi di Cosmè Tura con episodi della vita di San Maurilio (chi sarà?) e un San Girolamo attribuito a Ercole de’ Roberti., i quali giustificano ampiamente la visita. Ho firmato il libro dei visitatori. E serbo ancora nel ricordo lo sguardo affettuoso del custode perché avevo scelto, venendo da così lontano (dal Portogallo), il “suo” museo.

Da lì vado a Palazzo Schifanoia, a vedere gli affreschi di Francesco del Cossa, di Tura e di Ercole de’ Roberti, fra tanti altri. La Sala dei Mesi, nei sette compartimenti ancora intatti, è di una esuberanza cromatica che sfiora lo stordimento. Mi sperdo nei particolari che mi attirano e sorrido dinanzi al dipinto di Ercole raffigurante gli amori di Venere e Marte: pudicamente coperti da un lenzuolo le cui pieghe sono quasi una proposta di disegno astratto, Marte e Venere, l’uno sdraiato accanto all’altra, sembrano riposare dopo l’amore. Di lei si vede appena il profilo sfuggente, mentre Marte, in secondo piano, ma rivolto verso di noi, mi fissa, al di sopra del viso dell’amata, con un unico occhio, audace e insieme imbarazzato. Per terra e sopra un’arca, le armi del guerriero e gli ornamenti della dama.

Città dai quattro appellativi – “dotta”, “turrita”, “città dei portici”, “grassa” , Bologna è seducente, femminile, soffice. Accettiamo pure i luoghi comuni, che la esprimono più di mille parole ricercate. Ed è anche una città molto vecchia che ha compiuto il miracolo di fissare le proprie antichità, difendendole dalla livella del turista, che uniforma tutto: Casa Isolani, per esempio, un’abitazione privata in Strada Maggiore, che risale al XII secolo, in cui regolarmente vivono e dove il turista, per fortuna, non è ammesso. Mi ritrovo anche a pensare, a immaginare come dev’essere stata la Bologna vista da Dante, allora, nel 1287, con le sue centottanta torri nobiliari, in disputa fra loro per l’altezza e il primato.

Bella è la Basilica di San Petronio, luminosa, con quelle ogive in bilico fra l’estasi religiosa e la dimensione umana che non vuole abbandonare, neppure per il cielo, il suolo dov’è nata: fuori, la vita bolognese tesse le maglie amabili delle seduzioni terrestri. Ma non lontano da lì, nella Chiesa di Santa Maria della Vita, c’è uno dei più drammatici gruppi scultorei di terracotta che abbia mai visto. È la Lamentazione sul Cristo morto di Nicolò dell’Arca, modellato dopo il 1485. Queste donne che si prodigano sul corpo disteso, urlano il loro dolore tutto umano sopra un cadavere che non è Dio: lì nessuno si aspetta che la carne risusciti.

Ma la città turrita, in questo viaggio, è stata innanzi tutto la scoperta di un grande pittore vissuto nel Trecento: Vitale da Bologna. Quel San Giorgio che uccide il drago possiede, al tempo stesso, la semplicità della miglior pittura naïve e un movimento convulso, fotografico, che avvolge le figure in un turbine costante. Il piede destro del cavaliere, privo della staffa su cui poggiare, è saldo sulla groppa, in una posizione che sembra instabile, ma che lo arpiona alle carni del cavallo. E questo, che alza il muso al cielo, terrorizzato, e resiste al tiro delle redini con cui il Santo vuole costringerlo ad affrontare la belva, mi ricorda il cavallo dipinto da Picasso nella sua Guernica: lo stesso orrore, lo stesso folle nitrito.

In un altro quadro, sopra un cuscino rosso, Cristo incorona la Vergine. Vitale da Bologna ha immaginato due adolescenti che potrebbero essere fratelli o innamorati. La religione non c’entra in quella grazia delle mani congiunte della Vergine, in quel gesto danzante della mano sinistra del Cristo, in cui solo una piaga quasi invisibile rammenta storie di sangue e di agonia.

Fantastiche, come un sogno vissuto in sogno, sono le Scene della vita di Sant’Antonio Abate. Quasi indecifrabili per chi, come me, non sia lettore assiduo della Leggenda Dorata o delle Vitae Patrum, questi episodi raccontano, prima d’ogni altra cosa, storie di pittura, e in quel campo sono costruiti con un sapere prezioso, non solo negli sfondi dorati, ma anche nella disposizione dei piani, ordinati secondo una prospettiva multipla che, nello stesso istante, pone l’osservatore in tutti i possibili punti di vista. E tale è l’incongruenza che, sopra un lastricato che, allungandosi verso il centro del quadro, ignora completamente le leggi della prospettiva rinascimentale, si vede poggiare l’edificio di un carcere il quale, invece, a tali leggi obbedisce fino all’assurdo. L’effetto (lo dico, ovviamente, senza alcun rigore scientifico, ma per farmi capire meglio in queste pagine che accettano solo la scrittura) è quello che ci susciterebbe, forse, la rappresentazione di una quarta dimensione e dove già se ne potrebbe immaginare un’altra ancora.

Ritrovo Francesco del Cossa, insieme a un Marco Zoppo di cui non conosco molto di più di questo truculento San Girolamo, inginocchiato in un paesaggio roccioso, ma con i meandri di un fiume sullo sfondo e, in lontananza, colline che si stemperano in una nebbia che a quel tempo non dovrebbe essere convenzionale.

Qualche bel Carracci non offusca un polittico di Giotto o la Madonna in gloria del Perugino. In fondo a una sala, come un segnale che lì è scomparsa ogni agitazione e tutti i movimenti del corpo dovranno essere nobili e meditati, c’è l’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello. È singolare questo mio atteggiamento dinanzi a Raffaello: mi sento come abbandonato, e al tempo stesso irritato, in attesa che cominci a succedere qualcosa che possa turbare quella fredda perfezione, in attesa di una qualche sintonia fra me e il quadro. E torno rapidamente al San Giorgio convulso e drammatico di Vitale da Bologna.

Mi accingo a lasciare la città e, mentre prendo commiato, mi dico: “È qui che dovrei vivere”. Ed è un omaggio. Ma ecco che si avvicinano due terre dove non m’importerebbe di morire: Firenze e Siena. E questo è un omaggio ben più grande.

Lettera di Adelina.

So di non comportarmi bene dicendoti per lettera quanto sto per dirti. Pensavo di parlarti prima di venire qui, ma non ne ho avuto il coraggio. E sono otto giorni che mi ripeto che ti parlerò rientrando a Lisbona, ma anche allora non ne avrò il coraggio. Non che io pensi che te ne dispiacerai. Non che io senta che mi peserebbe più di quanto sempre pesano queste cose. Entrambi abbiamo già vissuto molto, o perlomeno quanto basta perché non vi siano grandi novità, ma la verità è che è difficile guardare una persona che abbiamo desiderato, non importa per quali ragioni, e dire: “Adesso non ti desidero più”. Ecco che cosa avevo da dirti: “Non ti desidero più”. Potrei limitarmi a queste parole. Sono lì scritte, e io mi sento sollevata. Non ho ancora imbucato la lettera, ma è come se tu l’avessi già ricevuta. Non tornerò indietro ed è per questo, forse, che ho deciso di risolvere questa faccenda per iscritto, per lettera, da lontano. Se fossi lì, accanto a te, forse mi sentirei vigliacca. Così, tu non lo sai ancora, ma io sì: la nostra relazione è finita. Ti sorprende questa decisione? Non credo. Da qualche tempo, o forse da sempre, ti vedo sfuggente, riservato, chiuso in te stesso, come se ti trovassi in mezzo a un deserto e volessi restare in quel deserto. Non mi lamento. Non mi hai mai spinto fuori dalla tua vita, ma, benché io non sia molto intelligente, le donne intuiscono e indovinano. Stringerti fra le braccia e sentire che tu non sei lì, l’ho sopportato fino a un certo punto. Non ce la faccio a sopportarlo oltre. Ti chiedo di non diventare nemici. Non c’è bisogno che rimaniamo amici. Forse mi piaci ancora, ma non ne vale la pena. Che non ne valga la pena, credo, è la cosa peggiore di tutte. Ci si può amare e soffrire molto per questo, ma che almeno ne valga la pena. Continua a esserci l’amore che si prova, pur dovendo continuare a soffrire di più. Il nostro caso è diverso. La nostra relazione è stata una come tante, e finisce come si merita. Sono io che lo decido, ma so che anche tu decideresti di finirla. Nonostante tutto, mi dispiace. Tutte le cose sarebbero potute essere diverse da come sono se non mancasse loro la differenza, quella differenza tra le cose, quello che le distingue tanto. Mi accorgo che sto scrivendo troppo. Addio. Adelina. P.S. Credo tu debba continuare a scrivere. Scusa. Non ho il diritto di dirtelo, visto che la tua vita non mi riguarda più. Ma la tua vita, mi ha mai riguardato?

Non provo niente. Al momento, una piccola scossa, un moto di dispetto, una certa irritazione da maschio liquidato, e poi un gran sollievo e un sentimento confuso che ritengo sia gratitudine o qualcosa di simile. Un sentimento in cui, lo capisco, c’è un che di mostruoso: in realtà, a pensarci su, è come se soltanto per simili gesti le donne dovessero essere nate, per essere esemplari e scaricare gli uomini dalle azioni sgradevoli e dai compiti fastidiosi o poco puliti, se non addirittura sudici. Si dice che le donne devono spazzare la casa, soffiare il naso ai bambini, lavare la biancheria e i piatti, scrostare con pollice affettuoso la merda che resta casualmente sulla cucitura interna delle mutande dell’uomo. Sembra che sia andata più o meno così fin dal principio del mondo. Quindi sarà altrettanto giusto (o perlomeno necessario, che è un altro tipo di giustizia) che siano loro a occuparsi dei termometri, o barometri, o altimetri che misurano gli affetti e le passioni, e dopo aver visto e valutato, che facciano i loro resoconti sul combustibile consumato e l’energia prodotta, perché poi l’uomo si avvicini a prenderne conoscenza e apporre la propria firma da capoccia sulla riga tratteggiata, all’uomo destinata, visto che a lui non si chiederebbe altro, né altro ci si aspetta. È mostruoso, lo ripeto, aver provato gratitudine, perché questa gratitudine è di nuovo un sollievo, una prova del nove dei soliti atteggiamenti egoisti dell’uomo, della sua intrinseca viltà, ma anche di quella sfacciataggine che gli permette di gloriarsi, almeno con se stesso, e di mentire a se stesso nel farlo, del fatto che tutti i gesti e le parole del passato sono state, appositamente, intese a forzare l’altro (la donna) a prendere la decisione finale. L’uomo, così, può dimostrarsi romanticamente malinconico o drammaticamente sconvolto (secondo la convenienza personale, o il vantaggio, talvolta anche sentimentale, ma orientato in altra direzione, che ne può trarre), dichiararsi vittima dell’incomprensione femminile, oppure, ritorno al punto, sottintendere, come chi non controlla bene ciò che dice, che Adelina ha fatto quanto mi aspettavo che facesse, perché ce l’avrei portata io, senza farle notare le porte che le ho aperto e chiuso, la pressione sulle spalle, una pressione lieve e affabile, con cui l’ho spinta verso il punto strategico della rottura.

Prima non lo avevo notato: Adelina scrive piuttosto bene. Con certe frasi brevi, certi periodi tronchi che io non sono in grado, o lo sono solo raramente, di usare. È una lettera da conservare e rileggere. Come l’avrà scritta? In una volta sola, di getto, d’impeto, oppure, viceversa, avrà tentato, saggiato, fino a trovare il tono giusto, non tanto secco ma neppure impacciato, non tanto altero ma neppure piagnucoloso? Mi piacerebbe saperlo. Mi metto a pensare a come potrebbe essere una lettera del genere scritta da me, e la vedo ingarbugliata, con frasi interminabili, nel tentativo di spiegare l’inesplicabile, o forse, invece che così, e peggio ancora, di una durezza, di un’insolenza estrema. Sapendo bene, e sapendolo in questo istante, che un dolore immenso (ma inutile, aggravante) si potrebbe respirare sulle parole scritte, per quanto dure, o addirittura malevole.

In una delle pagine precedenti, ho scritto che non è ancora tempo di deserto. Rileggo e non capisco perché l’abbia scritto. Non capisco neppure perché abbia scritto che non è più tempo di deserto. Andiamo pi+ vicini. Esistono le premonizioni, dicono. Ma credere nelle premonizioni è comodo, e soprattutto ci rende interessanti. Una forza a noi estranea, ma non estranea a taluni, aleggerebbe, forse non nello spazio comune e abitabile da tutti, ma in un altro (per passare nel quale dovremmo spostarci a quella misura minima non terrestre che definisco centisecondo, per uno spostamento simultaneo nel tempo: secondo, e nello spazio: centimetro), e da lì, con sistemi di trasmissione e captazione imperscrutabili, ci avvertirebbe di quel che diremo, penseremo e (o) faremo in seguito, oppure che ci diranno o faranno gli altri. Non saremo avvisati soltanto di quello che penseranno, come non lo siamo stati, a tempo, ammesso che ciò sia avvenuto, di quel che hanno pensato.

Sarà tempo di deserto, adesso? E perché di deserto? Forse perché anche Adelina è uscita dalla mia vita, come dice quella ben nota e stupida frase che presuppone che qualcuno possa mai stare nella vita di un altro? E che cos’è, in fondo, il deserto? Quello che, nel film, ha contemplato Lawrence d’Arabia per tutta una lunghissima notte? È una scena di sicuro effetto, ben concepita, ma, se andiamo a vedere, assai poco originale. Voler riprendere l’illustre ed evangelico esempio del Getsemani può essere efficace, non lo nego, ma dimostra ben poca fantasia. È scritto: “Uscito se ne andò, secondo il solito, al Monte degli Ulivi; e i suoi discepoli lo seguivano. Giunti in quel luogo, disse loro: “Pregate per non cadere in tentazione”. Poi, allontanatosi da essi quanto un tiro di sasso e inginocchiatosi, pregava dicendo: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice, però non la mia ma la tua volontà sia fatta!” Gli apparve quindi un angelo dal cielo per confortarlo. Ed essendo in agonia, pregava ancor più intensamente; e il suo sudore divenne come gocce di sangue rappreso che cadevano in terra. Poi, alzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò addormentati per la tristezza, e disse loro: “Perché dormite? Alzatevi e pregate, affinché non entriate in tentazione”“ (Luca, 22, 39-46). Trasposta e senza i discepoli (che nel caso di Cristo erano dodici), è la scena di Lawrence rivolto, in angoscia, verso il deserto per tutta una notte. Di notte, non di giorno, ché il sole non consentirebbe questo episodio drammatico, o lo renderebbe drammatico in modo differente, con Lawrence morto per un’insolazione, rendendo così impossibile il proseguimento della politica britannica in Arabia, o perlomeno costringendola ad attendere un altro Lawrence meno contemplativo. Lo stesso per Cristo: se, sul Monte degli Ulivi, Gesù fosse morto per quell’emorragia che lo colpì benignamente e non fatalmente, si sarebbe avuto, poi, il cristianesimo? Se non ci fosse stato, la storia sarebbe stata diversa, la storia degli uomini e delle loro opere: tanta gente non si sarebbe rinchiusa nelle celle, tanta gente sarebbe morta altrimenti, non certo nelle guerre sante né sulle pire con cui l’Inquisizione rispondeva a se stessa, lei che pure era recidiva, lei che era eretica, lei che era scismatica. Quanto alle mie prove di autobiografia in forma di racconto di viaggio e di capitolo di un libro, mi pare che anch’esse sarebbero dovute essere diverse. Per esempio: che cosa avrà mai dipinto Giotto nella Cappella degli Scrovegni? Le orge terrificanti di una mitologia prolungata fino ai suoi giorni, se non addirittura ai nostri? Oppure Giotto non sarà magari stato solo l’imbianchino di quella casa, non della cappella, pur sempre dei medesimi Scrovegni?

Deserto. Disertare. Riporta il dizionario, del primo: “Agg. Vuoto di abitanti o di occupanti, disabitato, eremo, spopolato. Abbandonato, poco frequentato. (Dir.) Designativo di azione legale estinta per inattività delle parti durante un lasso di tempo stabilito dalla legge. S. m. Vasto tratto di superficie terrestre, arido, sterile e disabitato. Luogo solitario, eremo, solitudine”. E, del secondo, scrive il dizionario: “V. tr. Distruggere, devastare, spopolare. Abbandonare, lasciare. V. intr. Abbandonare il posto ricevuto o scelto. Fuggire. Si applica in particolare il verbo ai militari che si assentino senza permesso e senza alcuna intenzione di tornare nelle fila”.

Mi domando come si azzardino gli scrittori, i poeti, a scrivere ciascuno centinaia o migliaia di pagine, e tutti insieme milioni di milioni, quando una semplice definizione o due basterebbero, se ben pensate, a colmare queste centinaia o migliaia o milioni di milioni di pagine. Oggi penso che gli scrittori abbiano proceduto con troppa fretta: problematizzano micrometricamente i sentimenti senza aver prima fatto fare un semplice giro di dizionario alle parole. Prendo questi due esempi, che risultano solo dall’essermi avvantaggiato di una presunta vera premonizione che dal deserto mi ha condotto al deserto, dopo essere passato per T. E. Lawrence (Thomas Edward) (1888-1935), nato a Tremaldoc, agente dei servizi segreti britannici in Arabia e in Asia Minore durante la guerra 1914-1918. I Sette pilastri della saggezza (1926, cd. def. 1936); e per Cristo, che significa “Unto dal Signore”, che designa Gesù, il quale, secondo venerabili scartafacci che sono capaci di dire tutto, ma non di confessare l’ignoranza, nacque a Betlemme (che in Portogallo è Belém, fra Pedroucos e Junqueira), il 25 dicembre dei 4004 del mondo (4963 secondo l’Arte di verificare le date), nell’anno 753 di Roma, nel trentunesimo anno del regno di Augusto. Quanto a Gesù, afferma l’autorità che l’anno della sua nascita fu fissato da Dionigi il Piccolo, con grande esattezza. Secondo altri calcoli altrettanto meritevoli di credito e rispetto, però, la data della suddetta nascita (senza peccato né dolore, senza copula né lacerazione dell’imene) la si dovrà riportare al 25 dicembre dell’anno 747 di Roma, sei anni prima dell’era volgare. Gesù, quindi, in realtà sarebbe vissuto trentanove anni, e non trentatré. Un uomo fortunato.

Eccomi dunque deserto e nel deserto. Adelina, come la vedo ora, è stata solo quell’ultima sagoma che ancora poco fa, sebbene già lontana, era visibile sul pendio scosceso di una duna scivolosa, duplice ombra confusa o duplice lama di forbici aperte che si accingono a tagliare se stesse, diventando sempre più piccole, per ridursi a un semplice segno sulla cresta sabbiosa da cui il vento trascina via brandelli (materia pura, polverulenta, vetrificabile, che proviene dalla disgregazione delle rocce silicee, granitiche o argillose) e all’improvviso, giusto il tempo di aprire una lettera e leggerla, scomparsa dall’altra parte. Siamo forse noi il deserto, oppure ci lasciano deserti? Abbandonati, lasciati, rimossi, oppure siamo noi coloro che spopolano e creano l’eremo? Quanto a me, che non ho fatto neppure il militare e potrei assentarmi senza permesso, posso confessare a questo punto che le fila mi hanno sempre affascinato, la pluralità, il possedere la mia forza personale e al tempo stesso la forza dei Tetrarchi moltiplicati, mille volte quattro, quattro volte mille, e, insieme, l’intelligenza moltiplicata, e la sensibilità, e il sudore, e il lavoro, sì, il lavoro, quattromila volte uno. Ma se in ogni esercito ci sono fila, non tutte le fila sono un esercito. E poiché il deserto può avere i suoi abitanti ed essere deserto, non bastano gli abitanti perché il deserto non esista più. Con tutti i miei amici a far baldoria qui, in questa casa, o magari lontani, ma considerandoli amici miei, nessun mio deserto (o io deserto) si è popolato. Ne ho cominciato ad avere coscienza quando ho iniziato a scrivere: tutti i miei sforzi sono serviti, in fondo, a recuperare il deserto, per (tentare di) capire poi quanto fosse rimasto, quanto è rimasto, quanto rimarrà. La solitudine, certo, ma non la sterilità. Disabitato, ne convengo, ma non inabitabile. Arido, sì, ma con un po’ d’acqua dentro, una terribile acqua fatta di lacrime, una possibile freschezza sulle mani, H2O. L’acqua primordiale e ciò che in essa vi è sospeso.

Il ritratto della coppia che sta per sposare la figlia non sarà dipinto qui, nel mio atelier, dove è passata tanta gente, da A. a S. Alla segretaria Olga, sul divano. Ad Adelina. Ci sono quattro difficoltosi piani che solo un grande amore per il pittoresco (peraltro equivocato) accetta, o un’impellente necessità. Gente che sposa una figlia può non essere vecchia, ma questa lo è, per la nascita tardiva dell’attuale sposa, o per una forma di forzata maturazione della rispettabilità. (Giochiamo un po’: la gente che sposa, figlia, può non essere vecchia; la gente che sposa, può non essere vecchia la figlia; la gente che sposa, può non essere figlia, vecchia; ecc.) Perciò sono andato da loro, nell’opulenta, grave e silenziosa casa a Lapa, [[5]], dove ho dipinto. Ho cominciato col sistemare marito e moglie nello spazio reale che i loro corpi, per il momento, ancora occupano, e poi nello spazio instabile della tela. Alla seconda seduta ho congedato il padrone di casa e mi sono occupato della signora. Molto fine. Cortese ma distaccata, gelida dietro la patina dell’educazione, o forse proprio per via di questa patina che, simile a quella del mio mestiere, è brillante, levigata e gelida. Il terzo giorno mi hanno presentato alla figlia, il quarto (giorno) al futuro genero. Lei ha accavallato maestosamente una gamba, lui è venuto a controllare l’effetto. Entrambi, chiaramente (dal mio punto di vista, che non li accoppio né li spariglio), danno ben poca importanza al ritratto, che rappresenta solo la debolezza di un’attempata mezza età o di una convenzione rivisitata in una casa a Lapa, un quartiere di Lisbona dove ben poca gente ormai cederà a simili tentazioni. La signora non si muove, rigida, quasi non parla per quanto io cerchi di farla rilassare: sembra sotto shock. La figlia ha avvicinato il profumo al mio limite, soffusa di una nuvola di fumo dello sposo e del sigaro paterno. “Fumavo avana, ma adesso”, ha dichiarato titubante il padrone di casa, e mi ha offerto un sigaro olandese, fabbricato, probabilmente, con il miglior tabacco di Cuba. Nel frattempo, io continuo a dipingere.

È tanto facile. La mano coglie da lontano quanto c’è sul viso, mentre il pensiero si assenta, rivede, usando in modo diverso gli occhi che in questo momento si spostano dal viso alla tela, riscorge le correnti della laguna, placide, pastose del fango sottostante, divise in verdi e azzurri, con nervature più chiare a separare le grandi fasce di colore, e tante imbarcazioni bianche quali minuscole pulci in quel regno più vegetale che acquatico. Passo e ripasso il pennello sulla tela con la lentezza con cui si muovono le correnti della laguna, non è il viso che dipingo, ma la laguna, a cui ripenso. Che cosa ne uscirà fuori?

A casa dipingo il santo. Riproduco (dalla cartolina) l’architettura della prigione e il suolo lastricato del quadro di Vitale da Bologna, con l’intenzione di porre su quel pavimento e all’ombra di quelle grate il Sant’Antonio di casa mia, senza bambino, senza aureola, senza libro. Scopro che il pittore bolognese ha usato prima di me quella misura cui accennavo: il centisecondo. Se così non fosse, come avrebbe potuto ottenere l’effetto di questa prospettiva irreale e questo tempo che successivamente retrocede nello spazio o questo avanzamento dello spazio sopra il tempo? Ma visto che non adotterò nessuno dei personaggi del quadro originale, dovrò trovare la maniera di introdurvi il santo con lo stesso sfasamento spaziotempo, la stessa dimensione fluida, per poi rendere il tutto solido come lo spessore del lastricato e la tensione molecolare del ferro. Sono, questi, tutti vaneggiamenti del pittore solitario, forme deviate di avvicinamento e di scoperta, ginnastica priva di peso, movimento al rallentatore, scomponibile e ripetibile, provvidenza per degli ansiosi che, al limite, possono così duplicare la vita. Far tornare tutto indietro, non per ripetere tutto, ma per scegliere e, talvolta, fermarsi. Prendere per la cavezza il cavallo di San Giorgio dipinto da Vitale da Bologna, condurlo, da Lisbona o da Bologna, attraverso Spagna e Francia, attraverso Francia e Spagna, a Parigi, fino al Quartiere Latino, sul Qual des Grands Augustins, e dire a Picasso: “Ecco il tuo modello”. A quel tempo, a Lisbona, un bambino, senza sapere di Guernica, e della Spagna quasi nulla, se non Aljubarrota, [[6]], teneva fra le mani un mucchio di fogli umidi e trasmetteva senza saperlo l’appello politico di un Fronte Popolare Portoghese che si è chiamato così, che è stato quel che fece o tentò, come tanto più fatto e tentato, fino a un certo giorno.

Morte e distruzione. Qualche tempo dopo, misurabile in anni, sarei venuto a sapere del grido del franchista Millan Astray. E ancora dopo, avrei finalmente appreso, e imparato a memoria, le parole di Unamuno:

“Vi sono circostanze in cui tacere significa mentire. Ho appena udito un grido morboso e privo di senso: “Viva la morte!” Questo paradosso barbaro mi ripugna. Il generale Millan Astray è un deforme. Ma qui non si tratta di villania. Anche Cervantes lo era. Oggi, purtroppo, ci sono troppi deformi in Spagna. Soffro al pensiero che il generale Millan Astray potrebbe stabilire le basi di una psicologia di massa. Un deforme cui manchi la grandezza d’animo di un Cervantes cerca solitamente di trovare conforto nelle mutilazioni che può infliggere agli altri”. E, più avanti nella vita, sarei arrossito di vergogna leggendo per la prima volta la preghiera nazionale spagnola dell’epoca: “Credo in Franco, uomo potente, creatore di una Spagna grande e della disciplina di un esercito ben organizzato; incoronato dai suoi gloriosi allori; liberatore della Spagna che agonizza e cesellatore della Spagna che nasce all’ombra della più rigorosa giustizia sociale. Credo nella proprietà e nella grandezza della Spagna ove si proseguirà nella rotta tradizionale, che tutti noi, spagnoli, seguiremo; nel perdono per i pentiti di cuore; nella risurrezione degli antichi mestieri organizzati in corporazioni; e nella tranquillità durevole. Amen”.

Ripetere oggi tutto questo, perché tutto abbia il testimone che allora gli mancò, io. Io, portoghese, pittore, vivente nel 1973, in quest’estate che sta per finire, in quest’autunno alle porte. Io, vivente, che sto morendo in Africa dove ho mandato a morire, o ho acconsentito che andassero dei portoghesi, tanto più giovani di me, tanto più semplici, tanto più utili, un domani, di me, che sono appena un pittore. Pittore di questo santo, di questa zona di Lapa, di questo martire, di questo delitto e di questa complicità. Già nel 1485, Nicolò dell’Arca aveva capito tante cose: nella sua Lamentazione, solo apparentemente espressa per la morte di un dio, si può togliere il Cristo e sostituirlo con altri corpi: il corpo bianco dilaniato dalla mina, con tutto il bassoventre squarciato (addio, mio figlio impossibile), il corpo nero bruciato dal napalm, con le orecchie tagliate, serbate altrove in qualche boccetta d’alcol (addio Angola, addio Guinea, addio Mozambico, addio Africa). Non vale la pena di togliere le donne: non c’è differenza alcuna nel loro pianto.

A ben pensarci, non ho fatto granché.

Quarto esercizio di autobiografia in forma di capitolo di un libro. Titolo: I due cuori del mondo.

Da Bologna a Firenze ci sono cento chilometri. Lasciando le campagne pianeggianti nella parte orientale della provincia emiliana, l’autostrada sale fino al Passo del Monte Citerna per poi, attraverso tunnel illuminati come alberi di Natale e viadotti sospesi su gambe gigantesche, balzando sopra vallate e gole profondissime, scendere incessantemente, sempre e senza fine, sino a Firenze. E non è per semplice effetto retorico che scrivo: “Sempre e senza fine”. L’ingresso a Firenze, come diceva quel francese che ho incontrato in una tavola calda, è un’esperienza traumatizzante: la segnaletica carente, l’abbondanza e l’apparente incongruenza dei sensi vietati, fanno della scoperta del centro cittadino, di Piazza della Signoria per esempio, una sorta di ricerca dell’ago nel pagliaio. Deve avere proprio una grande fiducia in se stessa, Firenze, per spingersi a scoraggiare così i viaggiatori che vi si avventurano senza la protezione delle agenzie di viaggio.

Ed eccomi arrivato. Alloggio in Via Osteria del Guanto, a due passi da Via del Corno, dove non so se sia nato Vasco Pratolini, ma dove si svolge la maggior parte dell’azione delle sue Cronache di poveri amanti, come pure a due passi dagli Uffizi e da Palazzo Vecchio, e dalla Loggia dell’Orcagna, e altrettanto vicino al Museo Nazionale di Scultura (il Museo del Bargello) che custodisce opere di Michelangelo, di Donatello, dei Della Robbia, di quel sorprendente Luca che “reinventò” la ceramica perché fosse scultura e, insieme, pittura.

Mentre io dormo, questa popolazione silenziosa di statue e dipinti, questa residua umanità, parallela, è sempre li a vegliare a occhi aperti sul mondo a cui, dormendo, io ho rinunciato. Per poterlo poi ritrovare, uscendo per le strade, sentendomi più vecchio e più precario, visto che in fondo durano assai di più le opere di pietra e di colore che non questa fragilità della carne.

Firenze per due giorni, due settimane, due mesi? Firenze per il tempo d’un sospiro? Ma questa città è vasta come un continente, inesauribile come l’universo. C’è, in lei, qualcosa di inaccessibile, che non deve venire solo dai modi asciutti e alteri dei fiorentini, forse stanchi dei turisti, e tanto più, forse, perché sanno che non riavranno mai più l’esclusiva della loro città. Partendo da Firenze, il viaggiatore se ne va frustrato: a meno che non sia un turista come un altro. Per quanto possa aver visto e sentito, egli sa bene come gli sia sfuggito il nodo intimo della città, quel luogo dove forse pulsa un sangue come un altro e la cui conoscenza gliela farebbe sentire un po’ anche sua. Firenze è un cuore del mondo, ma chiuso e duro.

Ancora una volta percorro gli Uffizi, il museo che secondo me ha saputo mantenersi a dimensione umana e che, proprio perciò, è tra quelli che amo di più. Che cosa potrei scrivere di queste centinaia di dipinti, tutti prestigiosi? Elencare nomi e titoli? Copiare scrupolosamente il catalogo? Non finirei mai. Meglio dire, soltanto, che vi si trovano i ritratti stupendi di Federico da Montefeltro e di sua moglie, Battista Sforza, dipinti da Piero della Francesca, e che davanti a essi dimentico il tempo; che in fondo non devo essere ancora maturo per amare Sandro Botticelli, visto che la sua Venere e la sua Primavera mi lasciano quasi ostile; che ho costruito tutto un racconto scientifico mentre guardavo l’Adorazione dei pastori di Hugo Van der Goes (quel Gesù Bambino sdraiato per terra, ovviamente dev’esserci stato messo da gente spaziale, un marziano o un venusiano); che, riverente, riguardo il Mantegna di quest’altra Adorazione, religiosamente aggressiva; che Rubens mi stanca e m’infastidisce; che non mi metto a piangere davanti a Rembrandt solo perché non sono mai riuscito a trovarmi da solo con lui.

Rinuncio a tornare a Palazzo Pitti, un fenomeno di teratologia museologica che mi irrita sempre (lo spreco è sempre irritante), perché le pitture e le sculture, lì, si ritengono meri oggetti decorativi, accumulati in uno scenario sontuoso che non respinge il visitatore solo perché questi si trova costantemente immerso in una folla che non trattiene nulla. Preferisco rimanere su questa riva del fiume, e una di queste sere andrò ad attraversare Ponte Vecchio, ma solo per vedere l’Arno scorrere fra le mura e ricordare che quella mansuetudine si è trasformata, una mezza dozzina d’anni fa, in furore: il fiume ha straripato ed è balzato su come un maremoto; ha invaso le strade, le case, le chiese, ha distrutto, insudiciato, strappato, ha messo Firenze in ginocchio, come se cominciasse allora la fine del mondo.

Avrò miglior nozione del disastro quando andrò a visitare la mostra Firenze restaura: vi troverò il “diagramma” della catastrofe, vedrò le fotografie che mostrano i dipinti scollati, le sculture di legno inzuppate d’acqua e di fango oleoso, l’interno della Chiesa di Santa Croce simile a una caverna dove avessero fatto irruzione tutti i venti e tutti i mari. Addolorato, guarderò quanto rimane del Crocefisso di Cimabue, ma finalmente avrò davanti agli occhi, dopo tanti tentativi fatti e falliti, adesso libera dallo strato di gesso e di sporcizia che l’aveva ricoperta, la Maria Maddalena di Donatello.

Riguarderò gli affreschi del Beato Angelico in San Marco, la Chiesa di Santa Maria Novella e il Cappellone degli Spagnoli, con i bellissimi affreschi di Andrea di Bonaiuto, girerò per l’interno del Duomo, a ravvivare già i ricordi per quando sarò partito, cercherò i Donatello del Museo del Bargello come chi tende la bocca verso un bicchiere d’acqua fresca; scoprirò (non c’ero mai stato prima) il Museo Archeologico e, rivista la Cappella dei Medici, esulterà la mia ammirazione per Michelangelo nella Biblioteca Laurenziana, il luogo dove l’architettura ha raggiunto la massima perfezione, mai più superata.

Sto per partire. È pomeriggio inoltrato. Guardo il paesaggio della Toscana, questa campagna che non si può descrivere a parole, perché non significherebbe nulla scrivere: “colline, di colore azzurro e verde, siepi, cipressi, pace, orizzonti soffusi”. Meglio guardare quella fascia di paesaggio che appare nel tondo di Botticelli, la Madonna del Magnificat: è questa la Toscana.

Ed ecco Siena, la beneamata, la città dove il mio cuore si compiace veramente. Terra di gente amabile, luogo dove tutti hanno bevuto il latte della bontà umana, ti antepongo a Firenze per sempre. Le tre colline su cui è costruita ne fanno una città dove non esistono due strade uguali, tutte contrarie ad assoggettarsi a qualsiasi geometria. E questo meraviglioso colore di Siena, il colore del corpo brunito dal sole, ma che è anche il colore della crosta del pane di granturco, questo colore meraviglioso va dalle pietre alla strada e ai tetti, addolcisce la luce del sole e ci cancella dal viso le ansie e i timori. Non può esservi nulla di più bello di questa città.

Visto che questo mio itinerario è anche (o soprattutto) quello dei musei e delle pietre illustri (non distinguerò mai fra gli uomini e le loro opere), guardo il Duomo, edificato dove un tempo era stato il tempio consacrato a Minerva. Chi sarà stato il primo a inventare questa armonia di pietra rosata e pietra verde scuro che ricopre tutta la cattedrale a fasce orizzontali, costringendo gli occhi a leggerne lentamente l’architettura? Chi avrà osato scegliere così le pietre colorate, o maneggiarle come la tavolozza di un pittore?

Dentro, il pavimento è come un gigantesco libro illustrato. Sono quarantanove quadri fatti di pietre intarsiate o incise, graffite o a mosaico, rigorosamente disegnate, che fanno dimenticare un po’ ai visitatori quel che c’è sopra le loro teste. Si viaggia all’interno di un’arte vigorosa e, insieme, delicata, che potrebbe essere la definizione precisa dello spirito di Siena.

Rivedo nel Museo dell’Opera del Duomo la Maestà di Duccio di Buoninsegna e le Scene della Passione di Cristo, esposte, illuminate e custodite con un amore commovente; non si può entrare in questa sala del museo senza abbassare la voce, in sordina, come se vi fosse, viva e profetica, la Sibilla di Delfo.

Da qui vado alla Pinacoteca. Mi aspetta la pittura senese dei secoli compresi tra il XII e il XVII, il meglio che questa scuola abbia prodotto in cinquecento anni. Numerosi paliotti di Guido da Siena, una sala dedicata a Duccio di Buoninsegna e ai suoi discepoli, e quadri dei fratelli Lorenzetti (Pietro e Ambrogio), di Sassetta, e tanto, tanto altro. Che si trova in quei due quadri di Ambrogio Lorenzetti, secondo me “i più belli del mondo”, due paesaggi miracolosi, fatti in un periodo ancora assai lontano dal coltivare il paesaggio quale unico motivo pittorico, e che sono la raffigurazione di qualcosa che potrebbe trovarsi solo in un sogno: un castello, una città, una barca ancorata simile a una foglia di ulivo, alberi qua e là, con dei colori cenere, azzurri e verdi freddi, e, soprattutto, una luminosità che è quella degli occhi dell’artista, meravigliati dinanzi alla sua opera.

Entro in unbar a prendere un caffè. Il cameriere mi serve con la voce e il sorriso di Siena. Mi sento fuori dal mondo. Mi spingo fino al Campo, una piazza inclinata e curva come una conchiglia, che i costruttori non vollero spianare ed è rimasta così, come se fosse un grembo, e guardo i vecchi palazzi di Siena, case antichissime dove vorrei poter vivere un giorno, con una finestra tutta mia, affacciata sui tetti color argilla, sulle persiane verdi delle finestre, come nel tentativo di decifrare da dove venga questo segreto che Siena mormora e che io continuerò a sentire benché non lo capisca, sino alla fine della vita.

Tutto è biografia, dico io. Tutto è autobiografia, dico a maggior ragione, io che la ricerco (l’autobiografia? La ragione?). In tutto lei s’introduce (davvero?) come una lama sottilissima infilata nella fessura della porta e fa saltare la serratura, esplorando la casa. Solo la complessità dei molteplici linguaggi in cui l’autobiografia si scrive e si manifesta ci permette, comunque, in un riserbo relativo, piuttosto in segreto, di circolare tra i nostri vari simili. Mi sembra tuttavia evidente che questo mio ultimo capitolo non sia la biografia di nulla. Tra Firenze e Siena non c’è stato spazio per la lama rivelatrice. Tutto è rimasto rasente all’ombra che le opere d’arte proiettano, talora nelle semplici asperità della pennellata, o nel rugoso micrometrico della pietra levigata, e, quindi, forse sono stato io a preoccuparmi troppo di captare quelle vibrazioni che mi sfuggono continuamente, ragion per cui, per questa mia preoccupazione, non certo per questa fuga, non mi è rimasto nulla, o quasi nulla, di me stesso. A meno che, e l’ipotesi mi tranquillizza, io mi stia finalmente rivelando con i sistemi tradizionali dell’autobiografia, nascondendovi meno del solito, anche se comunque mi vedo come perdente nella scommessa iniziale, e cioè di parlare di me, pur non dandolo a vedere.

Ho dormito male. E sono solo. Da più di otto giorni non sento il telefono squillare. Ho licenziato la domestica. Per qualche tempo, le ho detto. Adesso ho poco lavoro, e mi dò un po’ da fare io, qui in casa. Adelaide è stata lì a sentirmi. Non le si è mosso un solo muscolo sul viso, ma il piede destro le si è storto impercettibilmente: è diventato ottuso e dolente, malato. Se n’è andata via senza dire una parola, o con un semplice: “Quando vuole lei”. Quando vorrò? Quando vorrà? Come si potrebbe esprimere in pittura? Non lo so, ma la differenza sarebbe certamente (lo riferisco per la seconda volta) quella di due diverse tonalità di colore. La pittura non ha di queste ambiguità, ma ne ha ben altre, che mi hanno spinto a scrivere, e anche qualche impossibilità: ci mancherebbe, perché sia definitivamente provata la giustizia di questo mondo, che le ambiguità della scrittura, e a loro volta le sue impossibilità, mi spingessero infine a dipingere. O una via di mezzo. Ho già inventato il centisecondo, che non so come applicare. Ci vorrebbe che adesso scoprissi lo scridipingere, un nuovo esperanto universale che ci trasformerebbe tutti in scripittori, magari degni praticanti allora di quelle benedette artimmagie. Indago nel sonno: artimmagie, bartimmagie, barthesmagie, cartimmagie, karl marx, dartimmagie e arti?

Ne sono proprio sicuro, non dovrei scriverlo. Ma visto che mi sono deciso a scegliere quel quasi tutto che permette, nel linguaggio corrente, di eliminare il quasi, rammento e giuro qui che non è la mancanza di Adelina a togliermi il sonno, perché, a rigore, lei non mi manca affatto. Il mio problema non è una mancanza, ma una presenza. Sdraiato supino in questa stanza sottotetto, che ha fatto la felicità (mi riferisco alla stanza, parlando in concreto, e non a quelle faccende sessuali che per abitudine si sbrigano nelle camere) di alcune donne di buon gusto (il che non significa che tutte si siano sdraiate li dentro), mi indago, con la pazienza di un insetto che usa le pinze e i palpi per scostare il brecciolino che lo separa dal cibo: un po’ di pane, sterco, qualche larva paralizzata, sangue pulsante sotto la pelle – indago e voglio definire questa tensione che è dentro di me, o chissà dove nella stanza, o tutt’intorno circolante mentre mi muovo, questa tensione che sembra un dorso mobile e arcuato, sinuoso, forse di serpe, il primo paragone che mi viene, o di una fascia atmosferica prossima al tifone e che perciò, lo ripeto, è tesa.

Riparlerei di premonizioni, se volessi. Ma visto che sono io colui che scrive e, al tempo stesso, sente, decido di non volerlo, col duplice potere conferitomi dalla mia duplice qualità di vedente e di visto. Certo, però, qualcosa sta per succedere. Un tremore di terra? Un incendio? Che un’altra donna stia per arrivare? O non sarà magari, e io propendo per ciò, questa mia scrittura, non saranno queste pagine ormai numerose che, sovrapposte, pesano, e da una riga all’altra proiettano tratti, legami e catene – e che tutto ciò stia premendo dall’inizio verso un punto qualsiasi del mio corpo, padre/madre di questo lungo discorso? Lo ripeto: un’altra donna? Non credo. Alla mia età, potranno ancora esserci altre donne, ma in questo momento non le cerco. Non per disgusto dell’amore. Né per amore né per disgusto. Se volessi – ma non lo voglio – rappresentare una piccola commedia sentimentale, dove sarebbero gli spettatori? E dove, qualcuno che applaudisse? Amici, centodieci e forse più, lontano. E qui, nella mia stanza, nessuno. E se è pur vero, secondo quanto ho letto, che gli eroi dei romanzi usano sfogare le loro pene infierendo sul ritratto dell’ingrata, nel mio caso non sarà così, anche se li c’è un suo ritratto. Sono io, del resto, quello grato, come ho già spiegato in queste pagine, di cui dirò, non a proposito della buona occasione, che sono tutt’altro che un romanzo.

Eppure, qualcosa si sta avvicinando. Penso che i tempi grandiosi si annuncino con delle trombe che noi, esseri umani, non sentiamo, perché l’altissima vibrazione del suono non è possibile captarla coi nostri rudimentali organi uditivi. Penso anche che i cani riescano a sentire queste trombe e che noi, esseri umani, dovremmo prestare loro molta attenzione, perché quando queste bestie ululano, non lo fanno rivolte solo alla Luna, è il suono delle trombe che li mette in questa trance. Allora i cani ululano, e lo fanno soprattutto per la disperazione di non poterci dire quali cose si annunciano. Ecco quindi che passano quasi sempre inosservate, tanto più da noi, perché non eravamo dove c’era bisogno che ci trovassimo o dormivamo quando più c’era da stare in guardia. Al massimo ci arriva (parlo di me, senza indagare che cosa giunga per esempio alla mia domestica Adelaide) questa tensione, questo dorso teso di serpente, questa elastica spinta del vento, liberata a raffica.

Ormai la distanza è davvero grande. La vita della gente è assai più di quanto siano questi miei cinquant’anni, o gli anni a venire, sempre meno, per quanti se ne possano contare. Non mi contraddico. Qualunque sia il numero degli anni che il futuro ci riserva, non c’è niente di più grande di quell’infinita preistoria che è la nostra. Non parlo di quella collettiva, ma di un’altra, semplice e individuale. Basta dire che nel giorno vi sono ottantaseimila e quattrocento secondi, e nel mese quasi due milioni e seicentomila, i quali non ci vengono scagliati addosso all’improvviso, ma a uno a uno, perché non si perda nulla e di tutto si profitti (Lavoisier, vissuto cinquantun anni e non di più perché lo ghigliottinarono).

Mi addormenterò presto, molto presto. Dalla porta socchiusa della camera mi accorgo come la finestra che si affaccia sulla strada, nell’atelier, non sia più nera: cominciano le ore del grigiore e dell’impercettibile digradare che la sottrarranno all’ombra per avviarla verso il chiarore del giorno. Ma è troppo presto, ancora. Una parte di me già dorme, mentre l’altra scrive. Ecco perché ho davanti a me, dispiegata come una carta del mondo, tutta la mia preistoria, così vicina che basterebbe copiare i nomi, gli accidenti grafici, gli idro, gli oro. E evidente, quindi, come sia stato l’addormentato sposato, o lo sposato addormentato, tant’è, che oggi sta solo dormendo, mentre sopra il lenzuolo sgualcito (non dimenticare che ho licenziato la domestica) le dita contano gli anni, tanti, in cui sulla carta del mondo si è dilungato quel viaggio. E quello precedente, quando la vita dei genitori era migliorata e non si era più parlato di camere in affitto. Sono morte le vecchie alcolizzate, e le defecazioni si comincia a farle nel raccoglimento della stanza da bagno, senza niente di bello, senza quell’evocata bellezza processionaria di un tempo, in cui si trattava in fondo di riportare alla terra ciò che l’essere vivente alla terra sottraeva, fino a quando non le si fosse concesso da solo. Osanna. Diversi sono i cammini e tanto variabili i rapporti di produzione quanto i rapporti di escrezione. Nel sogno passa una donna gigantesca, alta, profonda e larga, trasportando una bacinella sotto un asciugamano ricamato, mentre gli angeli si librano sopra il suo capo. Alleluia.

I genitori, a volte, sono matti. Non sanno niente, nessuno potrebbe essere più ignorante di loro, e fanno gesti che nessuno capisce e pronunciano parole che nessun dizionario riporta. E visto che non trasportano più, o meglio, che la madre non trasporta più per il corridoio del mondo l’offerta fecale, decidono entrambi, in un momento di crisi mentale, docile, invisibile, magari ilare, senza bisogno di medicine né camicia di forza, che il figlio frequenti le Belle Arti perché (due eccellenti ragioni) è portato per il disegno e i vicini diventeranno verdi per l’invidia. “Verdi per l’invidia” fu l’espressione usata dalla madre. E il padre, benché apparentemente disprezzando tali cose donnesche, assentì, scuotendo paternamente la testa. Com’è pesante il sonno. Tanto pesante da sentirci autorizzati a non aggiungervi un punto esclamativo: al massimo, solo nell’intonazione. Mentre stiamo dormendo, ho scritto, veglia nelle sale e nelle piazze il mondo silenzioso delle statue e dei quadri. È bene che sia così. Che ne sarebbe, altrimenti, di noi? E quel popolo che regge il mondo, sostituito nel sonno dalla possibilità di recuperare la preistoria, quei misteriosi fogli di carta per esempio, non la carta del mondo, ma quei fogli che vedo in sogno, già scritti, e che sognando leggo, sforzandomi di svegliarmi leggendo, perché so che di tutto quello non ha mai scritto niente nessuno, e neppure io. in quale altro paese del mondo si scrive in portoghese? Quali foreste hanno fornito quei fogli di carta, e quali stoffe, quali tessuti ricamati? Una parte di me dorme, l’altra scrive, ma solo quella addormentata potrebbe leggere quanto è scritto sui fogli di carta, solo nel sogno esiste questo vento dolcissimo che li fa scorrere, a uno a uno, per il tempo necessario a leggerli. Fra poco arriverà il mattino.

Risalire il pendio è anche ridiscenderlo, o scivolar giù quando il piede era già sull’ultima pietra e lo sguardo coglieva di sfuggita il paesaggio nascosto. È stato l’addormentato sposato, e lo ripetiamo perché, avendolo detto una volta sola, non si dica che lo si è subito scordato, e non perché abbia importanza. Si tratta di risalire il pendio, contare una volta ancora con le dita incoscienti sul lenzuolo sgualcito gli anni del viaggio, posare il piede, arrivando in cima, sull’ultima pietra e cominciare a scendere dall’altro lato. I paesaggi, saranno forse vite da dipingere? Chi ha dipinto solo volti, e così male, e così a vuoto, potrà mai imparare qualcosa da Lorenzetti (Ambrogio)? Nel sogno sì, ma solo nel sogno, come soltanto li ci è consentito leggere sui fogli prodigiosi magari il sesto e veridico vangelo, magari gli scritti perduti di Platone, e tutto ciò che manca dell’Iliade, magari tutto quello che avrebbero scritto coloro che anzitempo sono morti. Questo paesaggio, però, si trova dentro e fuori del sogno, è insieme sogno e sognatore, sogno e cosa sognata, pittura a due facce che respinge lo spessore del pannello.

Sto mormorando in sogno e registro il mio mormorio. Non lo decifro, lo registro. Cerco e ritrovo segnali fonetici che trasferisco sul foglio. Si trascrive così una lingua che nessuno sa leggere, e tantomeno capire. La preistoria è lunga, lunga, ci sono uomini e donne che entrano ed escono da caverne, ed è necessario fare la storia che dovrà parlarne (enumerarli, raccontarli). Le dita incoscienti ormai contano nel sogno. I numeri sono lettere. E la storia.

È venuto a trovarmi Carmo. Ma prima di scrivere della visita e della conversazione, che di me dirà ben poco, molto più di lui, mi sembra utile riandare alle ultime pagine, troppo artificiose per i miei gusti e a cui mi sono lasciato trascinare da non so quale tentazione di sciocco virtuosismo, contravvenendo alla severa regola che mi ero imposto di raccontare l’accaduto, e nulla di più. Nelle pagine precedenti, può darsi che vi siano altre infrazioni a questo precetto, ma sono minime, e conseguenza dell’incapacità dell’autore più che di un’elaborazione intenzionale. Che queste ultime fossero meditate, non lo giurerei, ma è evidente che, da un certo punto in poi, mi sono lasciato sedurre da un certo ludismo verbale, suonando il mio violino da una sola corda e compensando con la gesticolazione la mancanza di altri suoni e l’eliminazione di una loro possibilità. Riconosco, tuttavia, malgrado la critica che mi rivolgo, come non sia male quel “Una parte di me sta dormendo, l’altra scrive”: è solo un piccolo e tutt’altro che rischioso salto mortale stilistico, ma mi compiaccio di averlo fatto bene. L’artificio ha i suoi pregi: è proprio un artificio quello che mi ha permesso di simulare il sogno, di sognarlo, di vivere la situazione e di assistere a tutto ciò, rammentando contemporaneamente cose passate, con l’aria del finto addormentato che parla per farsi sentire e valuta l’effetto di ciò che sta dicendo. Oggi direi che è stato un mezzo per evitare due spiegazioni che altrimenti sarebbero dovute essere lunghe: di come i miei genitori abbandonarono le camere in affitto, raggiunsero una certa prosperità e mi fecero entrare nel corso di Belle Arti, e di come, per quale motivo e a che scopo, avvenne il mio matrimonio, nonché di come si concluse. Sarebbero, ovviamente, storie personali. Ma necessarie? Né le Belle Arti mi hanno reso pittore, né il matrimonio e la paternità (questa mancava) mi hanno reso diverso. Non sono quelli che si vedono da fuori i fatti più importanti, ma quelli interiori, l’uccello morto, lo schiaffo, e tanti altri, tutti anch’essi esterni, ma interiorizzati. Se è stato un artificio, posso giustificarlo e, persistendovi, legittimarlo, se non grazie alla verità, grazie alla veridicità. Devo dire, tuttavia, perché sia fatta un po’ di chiarezza, che le ultime pagine sono state scritte mentre ero ben sveglio, che quanto vi si descrive in sogno non è un sogno soltanto e non di una sola notte, ma sono brandelli di sogni ripetuti, alcuni invariabilmente ripetuti e adesso, per il dovuto effetto e convenienza, organizzati in una coerente incoerenza. Di pittura ne so quanto basta, e adesso abbastanza anche di calligrafia, per capire e tentare di sperimentare come poche cose richiedano tanta organizzazione quanto la semplice espressione dell’incoerenza.. Parlo di espressione, e non del semplice manifestarsi.

È venuto a trovarmi Carmo. Si è presentato dopo cena e mi ha fatto sussultare avvisandomi che veniva, tant’ero disabituato ormai allo squillo del telefono. Dal tono della voce ho capito che c’era sotto qualcosa. Ne ho avuto la conferma dopo. È difficile essere amici di qualcuno. Voglio dire che è difficile soprattutto sapere fino a che punto si sia amici di qualcuno. Nella maniera consueta e disinvolta che sembra essere la nostra in fatto di amicizie, io mi ritenevo amico di Carmo. Insomma, ogni tanto ci si trova, si parla, si ricade o meno in qualche confidenza, in intimità, anche se poca, e poi ci si ritrova amici, ci si sorprende di non esserlo già da prima, o da sempre, mentre l’unica cosa per cui non c’è da sorprendersi è il fatto che amici si rimarrà sino alla fine dei nostri giorni. Era così, in maniera normale, che io ero amico di Carmo: vedete quanto poco. Che adesso lo sia di più, non lo sto affermando, ma certo c’è una differenza qualitativa (suona bene, la frase) in questo essere uguale, anche se non durerà molto, anche se lo è stato per non esserlo più.

Carmo si è presentato a casa mia distrutto. Si è seduto distrutto. Ha parlato distrutto. Era inevitabile: Sandra lo ha scaricato. In un primo momento, con l’idea che questo lo avrebbe consolato, ho aperto bocca per dirgli che, anche per me, le cose si erano risolte. Ma sono stato zitto, ben comprendendo che Carmo non avrebbe sopportato il contrasto fra la mia serenità e quel disastro del suo comportamento. Oppure, peggio per me, avrei dovuto fingere per accordarmi al suo diapason: sarebbe stata una splendida serata fra uomini maturi, di cui uno rammollito (pazienza, Carmo, è la verità), lì a piagnucolare col sottofondo musicale di Lalande (De Profundis), a maledire tutte le figlie di Eva e a giurare, mai più. Gli ho fatto capire appena che i miei rapporti con Adelina erano un po’ in ribasso, il che, perlomeno, è servito a Carmo per pregustare, e con ciò consolarsi, l’avvicinarsi della mia rottura. Non vogliamone male alla gente per queste debolezze: nessuno si sente tanto in ottima salute come quando si trova accanto a un malato, tanto forte come quando si trova davanti a un uomo distrutto, tanto intelligente come quando parla con un minorato mentale. (Come quando. Quando come). Da quel momento, Carmo si è rasserenato.

Ma all’inizio stava molto male. Appena gli avevo aperto la porta, mi si era buttato fra le braccia, tragico, quasi sopraffatto dalle lacrime. L’avevo spinto verso il divano, munito di un bicchiere, e gli avevo detto: “Su, non fare così”. Abbronzato dal sole, Carmo sembrava mascherato. Non è mai stato tipo da vacanze vacanziere, da quell’“Allungati, gamba mia” che è la vita di spiaggia. Ho pensato che Sandra dovesse avercelo spinto lei sulla spiaggia ad arrostire, poi nei locali, a letto, e Carmo, stracco, spompato, a chiedere misericordia al cuore e al sesso. L’ho pensato e ci ho azzeccato. “Sono davvero a pezzi”. Questo era Carmo. “Io e Sandra abbiamo rotto”. Amico mio, a che ti serve questo orgoglio, questo “tu” prima di “lei”, quell’”abbiamo rotto”, quando la verità è che ti ha rotto lei, finito, forse per un po’ di tempo, forse per qualcosina di più, forse per sempre: questo l’ho pensato mentre Carmo mi raccontava, con parole sue, com’era riuscito a conquistare Sandra, il suo interesse (interesse? “Oppa oppa passione oppassione”). Come si sentiva bene allora, Carmo, rivivendo antiche glorie, imprese erotiche che non specificava ma suggeriva, implorandomi con gli occhi di credergli, di non metterle in dubbio, di non sorridere con ironia o, peggio, con sarcasmo. Chiunque abbia un po’ di esperienza di vita sa che la mezza età (e a maggior ragione la vecchiaia, è chiaro) compensa abbondantemente con l’arte la scarsità di vigore. Perché mai Carmo doveva fare eccezione? Basta vedere l’entusiasmo che le giovincelle (tanto all’ombra, quanto al sole) manifestano, perfino contro ogni decenza, per gli uomini maturi, che potrebbero essere loro zii, che potrebbero essere loro padri. “Non mi stupisce”, avevo detto seriamente. “Prendi il caso di Chaplin. Oona O’Neill, più giovane di un bel po’ d’anni, ed è stata una storia d’amore. Solo di figli, ne hanno fatti nove”. Carmo era sfiduciato, o lo sembrava, ma gli ha fatto bene. E ha fatto la sua solenne dichiarazione: “Non si poteva essere più felici di quanto lo eravamo noi”. Ha bevuto la metà del whisky come se nel bicchiere ci fosse solo dell’acqua fresca ed è rimasto li sovrappensiero, col gomito posato sul ginocchio e il pugno sulla tempia, le labbra umide di liquido e in certo modo cascanti, come gli è naturale. “Ma, insomma, com’è che avete litigato?” Carmo ha alzato la testa, disfatto: “Non è stato un litigio, ma una rottura. Non capisci? È tutto finito. Tutto. Tutto. Tutto”. Era inevitabile: a questo punto Carmo è scoppiato a piangere. Discretamente l’ho lasciato solo, sono andato in cucina, mi sono lavato le mani per dargli tempo e poi sono rientrato. Il mio vecchio amico vecchio si era rasserenato, con l’indice asciugava dalla palpebra l’ultima secrezione (dolorosa, lo ammetto) del sacco lacrimale. Aveva il bicchiere vuoto. Gliel’ho riempito di whisky, mi sono seduto per terra con le spalle appoggiate al divano. Da li, si vedeva bene il mio casto Sant’Antonio, con l’aria sconfortata di chi non ha niente da fare, ma che invece dovrebbe, privato di aureola, di libro e di bambino. “Racconta”. “Le cose stavano andando come neppure te lo immagini. La spiaggia mi faceva bene, ballare non mi pesava affatto, mi sentivo in piena forma. Come non mi sentivo più da un pezzo”. Carmo non si sentiva più, all’improvviso si era sentito, benedetto rinnovamento di giovinezza quando non si aspetterebbe più. Come ti capisco, amico. “Capisco. E poi?” “Poi? Che cosa vuoi che ti dica? Chiaro, ho cominciato a sentirmi stanco, ma non importava. La cosa peggiore è che, negli ultimi giorni, lei ha cominciato a incavolarsi, a guardarmi con un’aria dura. Una sera, per provocarmi, ma questo lo penso adesso, ha deciso di non andare a ballare. Siamo rimasti in albergo. È stato davvero spiacevole. Lei zitta, io senza sapere che cosa dire. A un certo punto si è alzata, di scatto, e quasi senza darmi il tempo di replicare, mi ha detto che andava a comprare le sigarette ed è uscita. Le sono addirittura corso dietro nel corridoio, ero già in pantofole, beh, non ho voluto mettermi lì a chiamarla, era scocciante, poteva nascere uno scandalo. È tornata alle tre del mattino, tutta eccitata. Io ero sveglio, è chiaro, e del resto non sarei riuscito a dormire. Mi ha detto di essere stata a passeggiare sulla spiaggia, da sola. Le ho creduto. Che cosa volevi che facessi? Il giorno dopo, appena alzati, ha cominciato a fare le valigie e mi ha detto che tornava a Lisbona. Che io potevo pure rimanere, se volevo. Non sono rimasto, ovviamente, cosa ci restavo a fare lì? Per tutto il viaggio, in macchina, ho tentato di parlare, l’ho pregata di spiegarmi, ma niente. Quando mi ha lasciato davanti a casa, volevo invitarla per parlarne un po’, ma non ha accettato”. Carmo si è interrotto per bere e riprendere fiato e poi se n’è rimasto lì, in silenzio. “E dopo?” l’ho incalzato io. “Beh, la guardavo, ero già sul marciapiede, in attesa che si decidesse, quando all’improvviso ha sporto la testa dal finestrino e ha detto che era meglio finirla, che per lei era tutto finito, e che non insistessi. Mi sono sentito tagliare le gambe. Poi se n’è andata, e io li, istupidito, senza sapere a quale terra appartenessi. Non t’immagini neppure come sono entrato a casa. Le ho telefonato, subito e più d’una volta, ma nessuno ha risposto. O era uscita, o non voleva parlarmi. Questo è successo tre giorni fa. Ieri sono riuscito a pescarla al telefono, ha cominciato a scherzare, a dirmi di non pensarci più, erano stati giorni belli, si, ma queste cose vanno così, che rimanevamo amici, e via dicendo. Sai com’è. Il solito discorso”. La storia era chiara, e fin dall’inizio: un semplice capriccio di Sandra, un sogno di Carmo che si era avverato. Roba di poco tempo: il sogno realizzato sarebbe durato il tempo di un capriccio. Di che si lamentava, Carmo? “E adesso? Che cosa ci vuoi fare?” “Non lo so. Non ce la faccio. Mi sembra di impazzire”. “Ma va’ là, non fare l’idiota. Lo sai com’è Sandra”. Carmo mi ha interrotto, furibondo: “Non ammetto che tu dica niente contro di lei. Magari le hai fatto un po’ di corte e non ci hai cavato niente”. “Ti ho già detto di non fare l’idiota. Non le ho mai fatto la corte, e non mi è mai interessata. Stavo solo cercando di aiutarti”. Carmo si è vergognato. “Scusa. Si perde la testa, e poi” Ha fatto vorticare il ghiaccio nel bicchiere, ha bevuto due sorsi rapidi e, sviando lo sguardo, ha detto: “Potresti aiutarmi. Telefonarle, come un’idea tua, che mi hai trovato, così, un po’ abbattuto, che ti avrei fatto capire qualcosa. Insomma, sai com’è”. “Ma, Carmo, non servirà a niente. Io lo so com’è Sandra, e lo sai anche tu. Se ha deciso, ha deciso, non c’è niente da fare”. “Te lo chiedo per favore”.

Carmo lo ha detto proprio così, con una semplicità terribile, gli occhi umidi fissi nei miei, con l’aria di chi sta annegando e ne è cosciente. In quell’istante, allora, mi sono sentito veramente amico suo e mi sono augurato che continuasse così, solo perché ne valeva la pena. Mi sono alzato, mi sono diretto verso il telefono, che si trova in camera, ho cercato il numero sull’agenda e ho telefonato. Ho sentito che Carmo mi aveva seguito e se ne stava lì, appoggiato, sulla soglia della porta, con tutte e due le mani stringendo il bicchiere, tanto nervoso, tanto povero Carmo. Mi si è stretto il cuore e, nel tempo di un pensiero, mi sono chiesto perché avessi provato tanto dispiacere per Carmo, e nessuno per quanto avrei dovuto provare io. “Sei ‘tu, Sandra?” Carmo non osava avvicinarsi. “Ciao. Come va? Non mi telefoni mai, ma ti ho riconosciuto subito dalla voce”. “Come va?” “Bene. Ottimamente. E tu? Adelina è ancora lassù?” “Sì. E le tue ferie?” “Sono già finite, come vedi”. “Ieri ho visto Carmo”. “Ah”. “Mi ha detto qualcosa di voi due. Era molto abbattuto”. “Questi uomini, complicano tutto. È successo, è successo, e allora? Siamo andati a letto. Ma adesso è finita. Che scocciatura”. “Non ti voglio annoiare. Ho telefonato solo perché ci tengo a Carmo”. “Non c’è soltanto lui in ballo. Se pensi di non tenerci a me”. “Certo che ci tengo. Ma quello cui dispiace è lui, non tu”. “Beh, gli passerà. Passa sempre”. “Di solito, si”. “Te l’ha chiesto lui di parlarmi?” “Non proprio”. “Capisco. Sì, proprio”. “Beh, ci sentiamo”. “Mi saluti già? Adesso che mi andrebbe di parlare un po’ “. “Facciamo un’altra volta. Ora ho da fare”. “Sta’ tranquillo, che non ti rapisco. Ma un giorno mi lascerò tentare. Sei molto caro”. “Arrivederci, Sandra”. “Vai a dipingere, va’”.

Carmo si era avvicinato senza che lo avessi sentito. Aveva l’espressione cupa. “Mi è parso di udire: “Che scocciatura” “. All’improvviso mi sono sentito stufo di tutto. Un uomo con un deserto, tanto ben costruito, tanto ben spopolato, tanto bene deserto, e adesso questa storia. Ho fatto un cenno di assenso e me ne sono andato nello studio. Carmo mi è venuto dietro, come un toro (a quanto pareva). Mi sono voltato verso di lui: “Lo vuoi capire o no. Eppure te l’avevo detto. Non c’è niente da fare”. Carmo ha trangugiato d’un fiato tutto il whisky, lasciando scivolare un po’ di liquido dagli angoli della bocca e, mentre si ripuliva col dorso della mano, ha mormorato: “Che puttana”. Mi sono allontanato un po’ e gli ho detto: “Adesso sì, ti stai comportando proprio in maniera indecente. Meglio se piangessi, come poco fa. Sandra era già puttana quando ci sei andato a letto, oppure lo è diventata dopo esserci stata con te?”

Un attacco brutale, ma ha dato i suoi frutti. Carmo si è seduto lentamente, ha acceso una sigaretta (solitamente fuma il sigaro; le sigarette sono per i momenti di crisi acuta, personale o editoriale) e non ha più parlato di Sandra. Ho gironzolato un po’, riordinando o fingendo di riordinare, e domandandomi se avrei dovuto mettere queste cose per iscritto o ritenerle non accadute. Carmo si è alzato, dicendo che andava di là. È tornato ricomposto, rasserenato. Ho capito che si era lavato la faccia e pettinato quei pochi capelli che gli rimangono. Il peggio era passato.

“Vuoi un altro whisky? Serviti”. Le mani di Carmo tremavano un po’, ma, nell’insieme, si stava riprendendo bene. Mascherava quel suo tremore agitando incessantemente il ghiaccio. E all’improvviso, formale: “Circa quello di cui si parlava l’altro giorno, al ristorante. Quella tua descrizione del viaggio in Italia. Ti avevo parlato di pubblicarla”. “L’ho preso come uno scherzo. Non pensarci”. “Davvero. Non è un momento buono per libri di questo genere”. “Non hai bisogno di spiegare niente. Era un’idea di Adelina”. “A proposito, come sta? Scusa, non te l’ho chiesto”. “Credo che stia bene. Ormai sarà tornata dal paese. I nostri rapporti, invece, vanno male”. E Carmo: “Davvero? Ma è grave?” “Forse”. Carmo, forte della sua esperienza, un po’ vanesio, un po’ compunto: “Che cosa vuoi, le donne, sai com’è”. “Si, credo di si”. Di affari di cuore non s’è parlato più. E neppure del viaggio in Italia. Abbiamo discusso vagamente di politica, sparlato un po’ di Marcelo, [[7]], Carmo ha raccontato l’ultimo aneddoto su Tomàs e poi se n’è andato via, alquanto rasserenato, debitamente catalogata Sandra e destinato io alla prossima rottura.

Non mi vedrò nei panni di autore di un libro. Adesso Sandra non servirà più come involontario mezzo di pressione, o, più che involontario, inconsapevole. È un mio punto ben saldo che gli individui sono ciò che fanno: ecco perché mi sono valutato così poco. Ma, in certe circostanze, gli individui sono anche ciò che dicono o hanno detto. Non perché lo fossero già prima, ma perché, parlando, si compromettono, più di quanto vorrebbero, davanti a se stessi e davanti agli altri. Dire significa anche fare, o perlomeno il suo progetto pubblico. Senza Sandra come testimone e giudice, e senza neppure Adelina, come per il momento solo io so, il libro non si farà. Il che, ovviamente, non è un buon motivo perché io non finisca il mio lavoro. Scriverò il quinto e ultimo capitolo.

Quinto e ultimo esercizio di autobiografia in forma di racconto di viaggio. Titolo: Luci e ombre.

Che si possa andare a Roma solo per vedere il Papa, ecco un comportamento che ho cominciato a rispettare: ad Arezzo, io ci sono andato solo per vedere Piero della Francesca. E oggi mi rimprovero aspramente per aver ceduto alle impertinenze dell’orologio che mi ha sconsigliato la deviazione sino a Borgo San Sepolcro, terra natale del pittore, dove c’erano tante altre sue opere a chiedermi uno sguardo. Cerco e trovo rassegnazione negli affreschi della Leggenda della Croce che nella Chiesa di San Francesco, in Arezzo, proclamano uno dei momenti più felici di tutta la storia della pittura. Chiunque di Piero della Francesca conosca solo il Sant’Agostino del nostro Museo di Arte Antica di Lisbona, difficilmente sarà in grado di concepire la monumentalità delle figure della Croce: sebbene in gran parte danneggiati, ciò che rimane degli affreschi sovrasta le superfici cieche dove il colore e il disegno sono scomparsi e si mantengono nel ricordo con una musicalità evocatrice in sé di echi e di modulazioni infinite.

Ma Arezzo è anche una città, calma e luminosa, adagiata sul pendio di una collina, con il Duomo in cima, dove esistono due pale di ceramica, l’una di Andrea e l’altra di Giovanni della Robbia. E dove ho conosciuto un pittore di cui mi era passato inosservato quanto finora avevo visto. Si tratta di Margaritone di Magnano, un aretino del Duecento di cui vi sono, fra gli altri quadri, un sorprendente e bizantino San Francesco. Arezzo è rimasto uno tra i miei più saldi amori italiani.

Che dire di Perugia, ov’entro sempre pieno di speranze, ma da cui mi allontano disilluso, non perché la città mi deluda obiettivamente, ma perché la scintilla di quell’entusiasmo desiderato non è ancora riuscita a scoccare tra me e lei. Eppure c’è quella Fontana Maggiore, nel centro dell’antica Piazza dei Priori, con le sue delicate sculture duecentesche, intatte, e tutti gli edifici che la circondano: la Cattedrale, il Palazzo Comunale con il suo atrio di pilastri possenti e di volte, le logge di Braccio Fortebraccio, che sono la prima opera del Rinascimento eseguita a Perugia. Arriverà certo il giorno (qualcuno me lo deve) in cui questa città sarà anche un’altra delle mie case. Le sale del museo, almeno, sono per me riposo e nutrimento. Vi ritrovo il grande Piero, una magnifica pala che raffigura la Madonna con il Bambino e i Santi, in cui compare nella parte superiore un’Annunciazione che un artificioso contorno, posteriormente eseguito, non riesce a pregiudicare. Nella predella, registro una scena quasi notturna: San Francesco che riceve le stimmate, mentre un altro frate alza la testa, con espressione che sembra segnata da sorpresa e scetticismo.

Mi spingo fino alla Rocca Paolina, a tremare di freddo e a commuovermi per il custode che sta lì e vuole chiacchierare a ogni costo. La Rocca è una via sotterranea, coperta di volte e costeggiata da case, negozi che non lo sono più, forni che non cuociono più pane, tenebrosa malgrado l’illuminazione, un luogo da cui ci si allontana tirando un sospiro di sollievo. Fuori, alla luce del giorno; Corso Vannucci brulica di ragazzi e ragazze dell’università per stranieri. Qui si parlano tutte le lingue del mondo. Non sarà, forse, proprio questa marea internazionale e rumorosa che fino a oggi mi ha impedito di ritrovare Perugia?

Scendendo verso sud, incontro Todi. Pranzo lì, davanti al più stupefacente paesaggio dell’Umbria che fa scomparire quello che si gode dalla sommità di Assisi – il che non è dir poco. Proprio lì ho avuto modo di vedere un manifesto elettorale sormontato dalle parole: “Coraggio, fascisti”. Ho avvertito come se un’ombra fugace mi avesse gelato il viso. Ho riguardato intorno e la piazzetta di Todi si è trasformata nell’Italia intera: ho temuto per lei, e per me. Ho ripensato ai risultati delle ultime elezioni, al numero di voti del Movimento Sociale Italiano, e questo mio pellegrinaggio per vie e belvederi, per navate di templi e per saloni di musei, mi è diventato all’improvviso inutile, vano, e chiedo scusa dell’affronto siffatto a me stesso, e all’Italia. Ma Todi è un luogo di consolazione.

Metto a questo punto Roma, la gigantesca, la città dalle porte e finestre concepite per uomini di tre metri, la città che non consente che la si percorra a piedi, la città che affatica i muscoli, le ossa e (ci si perdoni l’eresia) lo spirito. Qui lascio questa mia confessione umiliata: io non capisco Roma. Ma non mi stancherò mai di visitare il museo di Villa Giulia dove sono esposti, in una rigorosa lezione d’arte e di storia, i resti archeologici dell’Etruria meridionale; torno docilmente al Museo delle Terme, sebbene la scultura romana mi lasci quasi sempre colmo di malinconia; e riservo tutte le mie ore disponibili ai Musei del Vaticano, una giostra in cui sono sconfitto in anticipo, giacché due vite intere non basterebbero a saziarmi la fame.

A che cosa serve spingersi fino alla Cappella Sistina? Cercare Michelangelo e trovare centinaia di persone col naso all’insù, che storcono il collo e gli occhi per scorgere nella penombra, lassù, la creazione dell’uomo e del mondo, il peccato originale, il diluvio, l’ubriachezza di Noè: è forse la più amara delusione che possa colpire l’amante dell’arte benintenzionato a cui non sia concesso il privilegio di accedere alla Cappella nelle ore morte, che solo possono essere quelle in cui le opere d’arte del Vaticano sono chiuse al pubblico. Serbato, così, il ricordo schiacciante dell’insieme titanico (parole banali, certo, ma non ce n’è altre), non resta che prendere qualche libro fornito di buone illustrazioni e rivedere in santa pace il soffitto e la parete di fondo del Giudizio universale. Per quanto dolorosa sia la limitazione.

Non conosco, non so che cosa possa offrire il Cairo quanto a mummie, ma oso dubitare che ve ne sia una interessante quanto questa: ha la testa e il viso scoperti, scuri, risecchiti, corrugati, ma ciò che più tormenta sono le mani, anch’esse nere, eppure sorprendentemente ben conservate, con le unghie bianche e intatte, vivissime.

Non hanno fine i Musei del Vaticano. Si cammina per decine di enormi sale e gallerie, rotonde, stanze, e sempre con il rimorso di stare tralasciando, forse per sempre, il quadro, l’affresco, la scultura, il libro illuminato che avrebbero potuto aiutarci, serenamente, a comprendere meglio questo mondo e la vita che noi vi conduciamo.

Ecco, per esempio, un Socrate in copia romana, con la sua testa arrotondata, il collo torto, la fronte bombata, il naso schiacciato, gli occhi che neppure il vuoto del marmo è riuscito a spegnere: ecco il più brutto bell’uomo della storia, colui che costringeva gli altri a rinascere da se stessi, colui che fu accusato di “onorare altri dèi e aver tentato di corrompere la gioventù”, e che perciò morì. E sono queste le due eterne accuse contro l’uomo. Una rapida visita in San Pietro: ecco la grandiosità, il lusso schiacciante di una chiesa trionfalista, ma ecco anche la vittoria dell’opera dell’uomo, il coronamento della sua intelligenza e dell’audacia delle sue mani. Lì, a destra, c’era la Pietà di Michelangelo, che un presunto folle ha mutilato. Ma i turisti non mostrano gran dispiacere, nulla più del fugace fastidio di un vuoto nel loro itinerario turistico.

Di passaggio, di Napoli mi è rimasta l’impressione di un gigantesco ingorgo di automobili, di una gincana di matti tranquilli (dov’è l’esuberanza verbale dei napoletani?) E mi è rimasto anche il ricordo della baia illuminata, vista dal balcone dell’albergo, come un’immobile processione di lanterne, lungo la costa.

Ma Napoli è anche la città dove la sigla Msi mi compariva dappertutto, sui muri, sullo schienale delle panchine nei giardini, come del resto è la città dove certi negozianti nostalgici del Duce mettono in vendita quei portaceneri con il ritratto di Benito Mussolini, cesareo nella sua divisa, tra frasi che inneggiano alla rivincita fascista. Ma, insieme, è la città dove, per ben due volte, mi hanno avvertito che non avrei dovuto lasciare alcun oggetto nell’automobile, “nel mio interesse”.

Ma Napoli ha anche il suo Museo Nazionale. Mi ci rifugio per vedere quanto a Pompei non ho trovato, o solo a frammenti: i mosaici e le pitture che conoscevo solo da riproduzioni volenterose, ma a cui mancava quella preziosa dimensione che la deliberata irregolarità conferisce, o l’asperità della parete dipinta, che le mani non devono toccare, ma che accarezzano gli occhi. E un gran tesoro di scultura: alcuni originali greci, seppure pochi, tante statue romane o ellenistiche, figure che basterebbero da sole a popolare un’altra civiltà, una Pompei resuscitata, una Napoli pacifica. Uscendo dalla città, mi sono perso: era inevitabile.

E adesso mi riposo a Positano, su questa costa di Salerno che ho battezzato “beata” prima di sapere che la pubblicità turistica ufficiale la definiva “la divina costiera”. Abbiamo ragione entrambi: questa pace è divina e beata. Ma, eccola lì, è lei, Melina Mercouri, col suo cappello di paglia e il vestito lungo, pallida e magra, con Jules Dassin. Faticosamente mi sottraggo all’indolenza del sole e immagino un dialogo fra lei e me: “Salve, Melina, ancora fuori dalla Grecia. così vicina, ma senza poter entrare nel tuo paese. Come vanno le cose dalle tue parti?” E, subito, la risposta: “E dalle tue parti, come vanno le cose?”

Ritorno al mio alloggio, guardo le acque immobili di questo mare interno che tante, e tanto antiche, storie conosce, e mi ripeto la domanda: “E dalle tue parti, come vanno le cose?”

Se Carmo, nella sua tragedia d’amore, non mi avesse stroncato le speranze di pubblicazione (ammesso che ci fossero, che non fossero piuttosto un mio adeguamento alle decisioni altrui), cosa ne farei di queste pagine? Gliele consegnerei per farne un libriccino; un opuscolo, un quaderno? In realtà, questi cosiddetti esercizi di autobiografia, unicamente a mio uso e consumo, non valgono niente senza le riletture che ne ho tentato in seguito. E come ricordi di viaggio, come itinerario estetico, o solo turistico, sono ben poco più interessanti del gesto ritroso di un pittore domenicale, della frase esplicativa che, tanto è personale e intima, incontra subito la repentina e dura ostilità di un pubblico generalizzante. Benedetto sia, quindi, l’amico Carmo, benedetta sia Sandra che, scacciando Carmo dalle sue lenzuola (o, più esattamente, dalle lenzuola per il cui uso Carmo pagava l’albergo), ha scacciato me dai cataloghi della casa editrice, ancor prima che vi entrassi. Si dice che Dio scrive diritto su righe storte, e io aggiungerei che sono le righe che predilige, in primo luogo per mostrare il suo virtuosismo, la divina abilità prestidigitante, e, in secondo luogo, perché non ne possiede altre. Tutte le righe umane sono storte, tutto è un labirinto. Ma la linea retta, più dell’aspirazione, è una possibilità. Persino il labirinto contiene la linea retta, sia pure interrotta, ma permanente e iì in attesa. Il dio geometrico di cui sto parlando dev’essersi incarnato in Sandra, deve avere forzato la decisione, stufa com’era di Carmo la coscia (di Sandra), ed ecco che le cose, obbedienti, hanno occupato i loro luoghi noti. Benedetta sia Sandra, benedetta Sandra sia, benedetta sia, benedetta Sandra.

Ma queste pagine esistono, e il mio lavoro non è ancora finito. Gli esercizi si, ma non ciò che li precedeva. Certe cose cominciano solo adesso a chiarirsi, direi che ormai mi sembrano persino ovvie, mentre un tempo erano caos e confusione, erano un altro tipo di labirinto, senza dubbio riducibile alla linea retta, ma che complica tale riducibilità, avviluppandosi o stringendosi su se stesso o comprimendo gli spazi ove si circola. Prendiamo il cosiddetto metro da falegname. Sono dieci sezioni di dieci centimetri l’una (o cinque di venti?), collegate punta a punta, e che si mostrano ripiegate, e pertanto progetto giusto e misura sbagliata. È necessario svolgerlo, distenderlo in tutta la sua lunghezza perché la sua lunghezza sia. Credo che anche agli uomini sia necessario fare la stessa cosa, o che se la facciano da soli. Nasciamo già piegati, sezioni appena sovrapposte, e siamo compressi, costretti. Abbiamo tre metri dentro di noi e comportamenti tortuosi.

Non so se l’avessi già in mente quando ho ricordato la testa di Socrate vista a Napoli. Era Socrate che costringeva gli altri uomini a nascere dall’interno di se stessi, ma non basta saperlo perché il parto avvenga. E, del resto, i suoi metodi di domanda-rispostadomanda (quali Platone, senza stenografia né registratore, li ha riportati) probabilmente non basterebbero ai labirinti che siamo noi, alla posizione difettosa in cui stiamo nell’utero di noi stessi. Come non basterebbe, o non basta, la ricerca per ambienti e opere d’arte, no, non questa mia ricerca, ma l’altra cui accennavo, la ricerca degli altri, quella che mi fa piegare le ginocchia. È tutto soggettivo, credo di averlo più o meno già scritto, e quindi non c’è da fidarsi. Se, sommando la soggettività all’effetto stilistico, parlo del rimorso con cui tralascio il libro illuminato, la scultura, l’affresco, il quadro che probabilmente mi aiuterebbero, serenamente (lo ripeto: serenamente), a capire meglio questo mondo e la vita che in esso io conduco: desidero forse dall’arte una serenità che Socrate, sistematicamente, sottrae agli uomini? O la pace che Socrate offrirebbe loro dopo aver distrutto l’altra, quella della conformità e dell’abitudine? (Potrebbe essere questa, ma si corre un rischio a dire certe cose: spesso non pronunciamo altro che parole, ed è questo il grande rischio quando parliamo d’arte. Come lo è quando parliamo di qualunque altra cosa). Socrate, l’arte, comprendere questo mondo e la vita che noi vi conduciamo, collegare la pietra alla pietra, il colore al colore, la parola recuperata al recupero della parola, aggiungervi quanto manchi per continuare a organizzare il significato delle cose, non necessariamente per completarlo, ma per adattarlo, collegare la biella all’eccentrico, la mano al polso, e tutto al cervello. Momento in cui, finalmente, com’era previsto fin dall’inizio, mi alzo dalla sedia, cerco sullo scaffale un libro (Contributo alla critica dell’economia politica di Karl Marx) e, da studente coscienzioso, copio una pagina, convinto che sia necessario aggiungerla a Socrate o all’arte perché il significato abbia una sua continuità: “Il modo di produzione della vita materiale condiziona lo sviluppo della vita sociale, politica e intellettuale in genere. Non è la coscienza degli uomini a determinare la loro esistenza sociale; ma viceversa è la loro esistenza sociale a determinare la loro coscienza. A un certo stadio di evoluzione, le forze produttive della società entrano in contrasto con i rapporti di produzione esistenti o, e questa è la loro manifestazione giuridica, con i rapporti di proprietà entro i quali si sono mossi fino ad allora. Da forme di sviluppo delle forze produttive, tali rapporti si trasformano nel loro ostacolo. Interviene allora un’epoca di rivoluzione sociale. La trasformazione della base economica altera, più o meno rapidamente, tutta l’enorme sovrastruttura. Nel considerare tali alterazioni è necessario sempre distinguere fra l’alterazione materiale – che si può comprovare in maniera scientificamente rigorosa – delle condizioni economiche di produzione e le forme giuridiche, politiche, religiose o artistiche, l’insieme delle forme ideologiche, insomma, attraverso le quali gli uomini prendono coscienza di tale conflitto, portandolo alle sue ultime conseguenze. così come non si giudica un individuo dall’idea che egli dà di se stesso, non si potrà giudicare una tale epoca di trasformazione in base alla propria coscienza di sé: bisogna, al contrario, spiegare questa coscienza in base alle contraddizioni della vita materiale, al conflitto esistente tra le forze produttive sociali e i rapporti di produzione, Una certa organizzazione sociale non scompare mai prima che si sviluppino tutte le forze produttive che essa è in grado di rappresentare; rapporti di produzione nuovi e superiori non le si sostituiscono mai prima che le condizioni materiali di esistenza di tali rapporti si producano nell’ambito stesso della vecchia società. Ragion per cui l’umanità solleva solo problemi che sia in grado di risolvere e così, a una osservazione attenta, si scoprirà anche che il problema sorge solo quando le condizioni materiali per risolverlo erano già esistenti o, perlomeno, sul punto di realizzarsi. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e quello borghese moderno possono essere considerati quali epoche progressive della formazione economica della società. I rapporti borghesi di produzione sono l’ultima forma contraddittoria, non nel senso di una contraddizione individuale, bensì di una contraddizione che nasce dalle condizioni di vita sociale degli individui. Nel frattempo, le forze produttive che si sviluppano nell’ambito della società borghese creano contemporaneamente le condizioni materiali per risolvere tale contraddizione. Con tale organizzazione sociale si conclude, così, la preistoria della società umana”.

Una preistoria lunghissima. Ho parlato anch’io di preistoria, in modo confuso, titubante, che ora sconfinava nella consapevolezza, ora nell’incoscienza, ma voleva esprimere soprattutto quel peculiare stadio o flusso umano di vita che, in apparenza, è il prodotto costante di una coscienza e che, profondamente, è una contraddizione risolta o di cui si tenta la risoluzione tagliando i ponti fra il conscio e l’inconscio, ammesso che sia possibile. Per meglio dire, o forse per peggio: una coscienza che reca in sé la propria dimensione inconscia come un parassita, come un’immensa tenia che potrebbe dare segni di vita o di esistenza solo attraverso le tracce evidenti nelle feci, non nelle feci materiali, ma in quelle tracce quasi sempre malefiche che ci lasciamo dietro, anelli che poi si moltiplicano, che soffocano, strangolano, si riducono man mano che incalzano. Adesso, citato Marx, vorrei avvicinarmi un po’ di più a questo mio concetto di preistoria. Esiste la preistoria della società umana, esiste la preistoria dell’individuo in quanto parte della società umana e, quindi, della sua preistoria, e ancora la preistoria dell’individuo, e cioè quel periodo della vita personale in cui tale individuo si accorge di se stesso o si ritrova parassitato dalla propria dimensione incosciente.

È vero, sono cose troppo complicate per me, ma c’è sempre qualcosa di troppo complicato, eppure dobbiamo affrontarlo quando non c’è altro rimedio. (Einstein era quello che sappiamo, o crediamo di sapere, e mal gliene sarebbe incolto se avesse dovuto applicare mezze suole o lavorare un merletto al tombolo). Non sarò in grado di andare oltre, per il momento, ma il segno di questa incapacità, l’unghiata che la contraddistingue, è già il primo passo, anche se altri potranno non essercene: ciò che distingue il passo unico da un primo passo è la pazienza che si è avuta, o meno, di attendere il secondo. Con Socrate, l’arte e Marx, chiunque può andare lontano: infilarsi gli stivali di un genitore, anche questa è una maniera di essere uomini, finché il proprio piede non cresce fino alla dimensione adulta.

Del resto, l’arma migliore contro la morte non è la nostra semplice vita, per quanto unica e per quanto preziosa legittimamente sia per noi. L’arma migliore non è questa mia vita cui la morte fa paura, è tutto ciò che è stato vita prima ed è durato, di essere in essere, fino a oggi. Ho tenuto in mano il teschio di mio padre, ma non ho avuto paura né ripugnanza né dispiacere: solo una strana impressione di forza, come la sente il nuotatore trasportato sulla cresta di un’onda che, muovendosi, lo fa muovere. Sporco di terra, scarnificato, tanto diverso da quel che era stato, tanto simile agli altri teschi, come una pietra da costruzione. Quando Amleto parlò al teschio di Yorick, mi parve allora, leggendo, che altro non si potesse dire fra un morto e un vivo. Adesso sto provando che lo si può, ma non per mio merito personale: sono passati nel frattempo trecentosettant’anni, è nato Marx, si è continuato a scrivere e dipingere, e Socrate non l’hanno cancellato dalla storia. Tutte cose alle quali non ho partecipato personalmente, né per azione né per emissione (e alle quali, in un certo senso, non partecipo, perché questo non significa scrivere, né questo significa dipingere). Ma ritengo di compiere il mio dovere quando ne approfitto e tento di capire. Non si può chiedere di più a un uomo comune.

Capisco, per esempio (ancora un esempio mortuario e fissità d’occhi), questa mummia del Vaticano. Preservata in carne al di là della putrefazione, è un mio prossimo. Ci separa soltanto quel centisecondo in cui mi ostino a credere. Se la guida ufficiale del museo venisse a dirmi che tra questo corpo e il mio corpo ci sono due o tremila anni, non avrei dubbi, dal momento che spetta alle guide il saperne di tali argomenti. Ma non riesco a raffigurarmi che cosa siano tremila anni, visto che il corpo è lì, risolta nel silenzio la questione dell’ignoranza della lingua e stabilito un diverso dialogo. Le mani, con le sue lunghe ossa spinate ricoperte di carne, ormai soltanto fibra, e di una pelle nera, priva di sudore, che sollecita il tatto d’altre mani, poco ci manca che si muovano di un poco, fin quasi fuori dall’arca funebre, ma non ancora fuori dalla cassa di vetro che racchiude il corpo. Le unghie bianche, vivissime, fra poco graffieranno umilmente, umanamente, la forfora dei vivi. Ecco la lunga storia (non la preistoria) della continuità materiale degli uomini. Per milioni di anni, milioni di milioni di uomini sono nati dalla terra e vi sono ritornati. L’humus terrestre è polvere umana assai più che crosta originale, e le case in cui viviamo, fatte di ciò che dalla terra è uscito, sono costruzioni umane, nel senso ristretto del termine umano, e cioè fatte di uomini. Ecco perché ho scritto che il teschio di mio padre era come una pietra da costruzione.

Il mondo è pieno di probabilità. Nel dolce pendio di una montagna, o nella sua costa arrotondata, immaginiamo che sia sepolto un corpo. Si è persa memoria di quel che lì si trova, può darsi da secoli, e forse è così.

Quattrocento volte l’inverno vi ha deposto la sua pioggia e la sua. neve, quattrocento volte l’autunno vi ha rinfrescato l’erba, quattrocento volte l’estate l’ha seccata, quattrocento volte la primavera ha coperto tutto di fiori. È una montagna, questa, dove non si è piantato se non un corpo morto, forse assassinato e perciò nascosto lì. Ma adesso, quattrocento e uno anni dopo la sepoltura, un uomo vivo sale sulla montagna (come hanno fatto prima tanti altri, ma è lui che ci interessa), senza alcun motivo apparente, solo per respirare l’aria della sua metamorfosi di vento, solo per guardare le distanze, le altre montagne, per accertarsi, insomma, se esista ancora la fatalità che gli orizzonti siano azzurri. Sale sulla montagna, calpesta l’erba, i cespugli e i sassi, sente tutto ciò sotto le suole, in questa sensazione è vivo come in tutte le altre che gli trasmettono i sensi, e per puro godimento si sdraia per terra, il viso al cielo, a guardare le nuvole che passano, a udire il vento fra gli steli delle piante vicine. Ha raggiunto quel senso di compiutezza che è la debolezza umana di immaginare che all’improvviso conosciamo tutto e non ci servono spiegazioni. Ma lui non sa che sotto di sé, seguendo esattamente il contorno del suo corpo, corpo su corpo, un metro di terra al massimo a separarli, il morto di quattrocento anni fa sta guardando attraverso gli occhi del vivo, teschio su teschio, un cielo in apparenza uguale e nuvole fatte della stessa acqua. Inconsapevole di tutto, il vivo si alza e il morto comincia ad aspettare altri quattrocento anni.

Prendo commiato dai morti, non certo per dimenticarli. Dimenticarli, credo, sarebbe il primo segno della mia morte. Inoltre, dopo questo viaggio di tante e tante pagine che ho scritto, ormai sono convinto che dobbiamo sollevare dalla terra i nostri morti, scostare dai loro visi, adesso solo ossa e vuote cavità, il terreno e riprendere da lì a imparare la fratellanza. Mai quanto ha scritto Raul Brandao [[8]]: “Senti il grido? Lo senti più alto, sempre più alto e sempre più profondo? Bisogna uccidere di nuovo i morti”. Proprio (proprio, appunto; proprio, personale) il contrario. Secondo me, che oso sfidare l’autorità.

Prendo commiato dai morti, quindi. È un bel modo di tornare fra i vivi. E infatti eccoli, quelli a me più vicini: Carmo, Sandra, Ricardo e Concha, Ana e Francisco, Chico, Antonio (dove sarà), Adelina (addio). Solo loro. Eccoli li che si agitano, vicini e lontani l’uno dall’altro, e io con loro, senza alcun serio motivo per essere amici, senza alcun serio motivo per non esserlo più. Vivi, ciascuno con la propria vita, e quando lo si pensa ci si accorge di quanto poco, in fondo, ci conosciamo, un po’ perché loro si chiudono in se stessi, un po’ perché siamo noi chiusi in noi stessi, un po’ per paura, un po’ per orgoglio. Ecco un’altra peculiare forma di parassitismo. Entro la società, rotoliamo tutti come piccoli globi dall’invisibile ma quasi insuperabile superficie, o quando non insuperabile, repellente, entro i quali descriviamo le nostre complicate orbite, io e questi esseri viventi, loro e me, come del resto tutti gli altri. Ma c’è la vita comune a tutti, quella che, per così dire, congloba tutti i globi. Ed è quest’ultima che accoglie incessantemente l’eredità dei morti, mentre incessantemente riversa nuovi esseri viventi nel mondo, tutti riformatori. e riformati, agenti di mutazioni impercettibili e a esse sottoposti.

Ecco perché è stato possibile, seppure solo nell’immaginazione, il mio dialogo di Positano con Melina Mercouri, possibile che io le domandassi come andavano le cose nel suo paese sotto il fascismo, che lei mi domandasse come andavano le cose nel mio paese soggiogato dal fascismo. Abbiamo taciuto entrambi le risposte. (Non ho amici fascisti, oppure qualcuno mi inganna. Siamo tutti, insieme ai difetti e alle qualità che abbiamo, antifascisti. Proprio così. Abbiamo già posto le nostre firme, gravemente, in calce a certi fogli, come chi si aspetta che ne derivi il massimo bene per il mondo e per il Portogallo. Abbiamo già dato tutti un pò di denaro per qualche buona causa, e tramite misteriose vie, pur non sapendo granché bene chi di noi abbia trasmesso il messaggio, o non volendolo notare. Ci siamo già scambiati libri e letture, opinioni e profezie. Abbiamo già desiderato la morte di Salazar. Adesso detestiamo la vita di Tomàs e quella di Marcelo. Ne sogniamo la scomparsa, senza sapere e senza domandarci come sarà dopo, e chi ci sarà. Ma siamo quasi tutti superbamente fantasiosi quando ci lanciamo in discorsi politici. Dieci anni fa Ricardo, il medico, assolutamente serio, influenzato dallo stile e dall’efficacia delle operazioni dei comandi, giurava che una mezza dozzina di uomini, una decina al massimo, bene addestrati, potevano assaltare Sao Bento, [[9]], una raffica qui, una bomba lì, una pugnalata là, e rapire in extremis Salazar [c’era ancora lui], finirla col fascismo, salvare il paese, insomma. Antonio, che sorrideva sarcastico, gli aveva risposto che non ce ne volevano poi così tanti, un paio bastavano. Ricardo, calato nella parte, era stato al gioco e aveva difeso la sua tesi: no, due era una sciocchezza, dieci, o perlomeno sei, in ultima istanza.

E Antonio ribatteva: due bastavano. Sarebbe addirittura stato in grado di indicare la coppia di salvatori. Lui, Antonio, insieme a Ricardo. E lo provocava: “Ci stai? In fondo, cerca di capire, il problema è solo questo: se lo volessimo davvero, capisci, basterebbe, non ci vorrebbe mica molto. Ma bisogna muoversi, non rimanersene qui, al riparo, a discutere se ce ne vogliano sei o dieci”. Ricardo ebbe la debolezza di arrabbiarsi. E Concha, anche lei presente, si era schierata dalla sua parte, da brava moglie, e questo aveva fatto infuriare Antonio. Ma Antonio non aveva piú aperto bocca. Salazar era rimasto al potere, aveva perduto in seguito la sua poltrona, poi era marcito e infine morto. E adesso ci ritroviamo Marcelo, con due L, come Tomàs è Thomaz, il popolo gregge e la patria sacra. Tutto è qualcos’altro perché sia meglio ciò che non vuol apparire. Ecco, Melina, come vanno le cose qua. Presumo che là non sia granché diverso).

Non sono sorpreso. Da qualche giorno (annoto, a proposito, un’interruzione di qualche settimana), da quando il quadro ha cominciato ad acquistare senso e forma, ho cominciato ad avvertire che i signori di Lapa non erano tranquilli. Avevo congedato la signora e lavorato sul ritratto di lui, ma adesso li ho richiesti entrambi per concludere il lavoro. Questo è successo ieri. Sono arrivato puntuale – più che una mia abitudine, è una mia mania – e sono stato accompagnato dalla cameriera (una vecchia decrepita) fino al salone che dà sul giardino e dove, per avere una luce migliore, avevo sistemato il cavalletto. Lì sono stato accolto da un’altra cameriera (com’era loro abitudine) che subito si è allontanata per andare ad avvertire i signori. Dai modi delle due cameriere (specialmente della prima, secca), mi sono accorto che c’era qualche novità in arrivo. Mi sono avvicinato al cavalletto, ho scoperto la tela ed esaminato il lavoro. Mi piaceva. Ho avuto il presentimento che la causa di quella tensione nell’aria fosse proprio lì. Lo sfondo era bianco, non proprio bianco, chiaro, ma operato con quella mistura di colori che suggerisce un bianco indiscutibile e l’effetto che il bianco produce sulla retina, che di volta in volta dobbiamo adattare (non la retina, direi, o forse si, in fondo) all’idea che ci facciamo del bianco. La somiglianza ai modelli non si poteva mettere in dubbio, ma questoquadro non era davvero un degno successore di quelle scontate e insulse tele su cui campavo. Tanto la donna quanto l’uomo erano (come dire?) doppiamente dipinti, e cioè con quei primi colori necessari a riprodurne i lineamenti e i piani del viso, della testa, del collo, e poi, sopra tutto, ma in un modo che non permetteva di scoprire facilmente dove fosse di troppo, un altro strato di pittura vi si sovrapponeva e, per così dire, non faceva altro che accentuare quanto già esisteva. Nel caso della donna, il risultato era più visibile perché per lei avevo dovuto frapporre quella pittura intermedia costituita dal trucco. Il quadro dava un’impressione sconfortante, come una risata improvvisa in una casa deserta.

Stavo preparando i pennelli quando la porta si è aperta. C’era solo lui, ed era nervoso. Mi ha salutato, sibilando fra i denti, quasi volesse eliminare quella cordialità beneducata che avrebbe reso il tutto più difficile. Ho risposto educatamente e l’ho guardato apposta con espressione interrogativa, che si poteva prestare a varie interpretazioni: “Che succede?” “La signora non viene?” “Sono scese le azioni?” Ho fatto un cenno con la mano, indicando la sedia, ma lui ha scosso la testa, con una violenza per ognuna delle ipotesi spropositata, e ha ribattuto. O, perlomeno, ha tentato: “Vengo a dirle. Scusi, ma vengo a dirle che”. E lì si è interrotto, con la voce doppiamente strozzata. “Oggi non può posare?” ho soggiunto per dargli una mano. “No, non è questo. Vengo a dirle che rinunciamo al quadro”. “Come rinunciate? Non capisco. Perché rinunciate al ritratto quando è praticamente pronto?” “Non importa. Rinunciamo. Ci dica quanto le dobbiamo, per chiudere questa faccenda”. “Lei sa già qual è il mio prezzo. Lo sa fin da quando me l’ha ordinato”. “Si, certo, ma il quadro non è finito, e pensavo”. “Pensava male. Crede che la centesima pennellata valga più della trentesima? Che un quadro sia come un tappeto, un tanto al metro, cioè un tot a pennellata?” “Non intendo discutere. Se questa è la sua posizione, eccole un assegno”. Ha preso il libretto e la penna, ha scritto rapidamente qualcosa, indugiando però sulla riga della firma, e poi mi ha teso l’assegno. Io non mi sono mosso. “Rinuncia al quadro perché non le piace?” “Non esattamente. Mia moglie e mia figlia la pensano così. Insomma, questo quadro non è affatto simile a quelli che conosciamo di lei. Due nostri amici hanno dei ritratti e sono totalmente diversi da questo. Ecco, l’assegno”. “Mio caro signore, mi faccia capire. Lei dice che rinuncia al quadro, che non le piace, o che non piace a sua moglie e a sua figlia, e vuole darmi un assegno?” “Non è mia abitudine rimanere in debito per i lavori ordinati, siano essi quadri o che altro”. “Buon per lei e per i suoi fornitori. Non c’è niente di meglio di una vita limpida”. Bruscamente si è tirato giù la giacca e mi ha guardato nel tentativo di capire se scherzassi. Ho assunto la mia espressione più seria, la più formale, la più carica di dignità offesa, la più adatta a un pittore di Lapa. Mentre stavo per aprire bocca e rispondere, è spuntato il futuro genero. Ha fatto un’entrata convinta, solo un po’ teatrale, mostrando che era rimasto sempre lì dietro la porta, a mo’ di rinforzo: lo schema doveva essere combinato. “Allora?” ha domandato, tralasciando di salutare. “Dice che non vuole l’assegno”. “Mi scusi, ma io non ho detto che non voglio l’assegno. Voglio finire il quadro, e poi voglio l’assegno”. Il genero: “Ma non le è stato già detto che si rinunciava al quadro? Che non ci piace?” Il suocero: “Per evitare discussioni, ho fatto anche l’assegno per l’importo del quadro finito”. Io: “È vero. Ma se lei non ha l’abitudine di rimanere in debito per ciò che ordina, io ho l’abitudine di non accettare nulla che non corrisponda al lavoro finito”. Il genero: “È interessante, questo, da parte sua. Ma a noi non importa. Vede, quindi, come sia tutto più facile”. A questo punto è entrata la figlia, o la fidanzata, secondo il punto di vista. Si è messa da una parte a guardarci, e fino al termine della discussione non ha detto una parola. Osservava soprattutto me, con un’aria leggermente ironica, molto più intelligente dei due uomini, e perciò taciturna. Io ho levato il quadro dal cavalletto e l’ho posato per terra, ai miei piedi, appoggiandolo contro le gambe del cavalletto e con la superficie dipinta rivolta verso di me. Hanno distolto gli occhi. La giovane si è accorta del moto di ripugnanza e ha sorriso.

Ho assunto un tono carico di pazienza e ho dichiarato: “Non vi piace il quadro, non volete il quadro. Molto bene. Lei può tenersi il suo assegno e io mi porto via il mio quadro”. I due uomini si sono avvicinati: “Lei non se lo porta affatto via. Il ritratto è mio e di mia moglie, è dei miei suoceri, da questa casa non esce, da qui non esce”. “Non capisco. Se non lo pagate, come pretendete di tenervi il quadro?” “Ma noi lo paghiamo, ma le ho già detto che lo pagavo”. “Infatti, l’ha detto. Ma anch’io le ho già detto che non riscuoto alcuna somma per ciò che non ho finito”. “Ma sono i nostri ritratti”, ha detto il vecchio, angustiato. “Certo, ma il quadro è mio”. A quel punto, il genero ha fatto due passi avanti sotto lo sguardo deliziato della giovane, ha infilato le mani nelle tasche dei calzoni, come se non facesse parte del rispettabile quartiere di Lapa, o non stesse per sposarsi proprio lì: “Senta un po’, mi sta prendendo in giro? Chiudiamo questa faccenda, prima che mi stufi”. Ho guardato la ragazza: “È mai possibile che sia minacciato in casa vostra?” Allora è intervenuto il padre: “Beh, non proprio. Ma lei deve capire, si sta dimostrando ostinato”. “Non mi sto dimostrando ostinato. Sono logico. O finisco il quadro e prendo i soldi, o non lo finisco e me lo porto via, dal momento che non l’ho venduto. Non c’è niente di più semplice”. A quel punto si è fatto un silenzio mortale. Il padre rigirava il suo assegno tra le dita. Il genero si era scostato indietro e guardava la giovane, come a chiedere consiglio. E la giovane sorrideva. Con cura, per non rovinarlo, ho preso il quadro, ho salutato educatamente, informandoli che avrei mandato a ritirare il cavalletto e me ne sono andato. I due uomini mi sono corsi dietro: “Non può”. “Eccome. Certo che posso. Per favore, lasciatemi passare”. Dal salone che dava sul giardino si è udita una risata. La scena, infatti, era stata ridicola. E continuava a essere ridicola lassù, in cima alla scala ricoperta di tappeti, dove varie cose stavano accadendo al tempo stesso: il genero tentava di afferrarmi per un braccio, incerto se potesse farlo o meno, il suocero puntava il dito furibondo e silenzioso contro una cameriera che si era affacciata a spiare e, un attimo dopo, era già scomparsa, e la signora, che finalmente vedevo, ritta sulla soglia di una larga porta, con un’aria da dignità infranta. “Per questo si chiama un poliziotto”, ha ricordato il genero. Ma il suocero ha domato quella tentazione: significava mettere scandalo su vergogna. E mi ha rivolto la minaccia: “Parlerò con il mio avvocato. Fuori di qui”. Insomma, ero libero, con la minaccia di una denuncia.

Ho disceso la scala, senza fretta e, arrivato in fondo, mi sono voltato: i due uomini, come due generali in parata, mi fulminavano con gli occhi. Me ne sono andato via tranquillamente, difendendo la tela da possibili graffi, e con altrettante cautele ho aperto il bagagliaio della macchina e vi ho depositato il quadro, prudentemente, come se coricassi un bimbo ciondolante di sonno. Prima di chiudere il bagagliaio, ho dato uno sguardo al ritratto, alle due maschere che mi guardavano dal fondo, e le ho viste alla mia mercè, abbattute, oserei dire umiliate. Con un colpo secco, ho sbattuto il cofano. Entrando in macchina, a un’occhiata di sfuggita ho scorto l’oscillare di una tenda. Chi era? La servitù curiosa e divertita? I padroni furibondi? Le signore indignate, oppure una indignata e l’altra ancora deliziata? Ho provato simpatia per quella giovane. Era come gli altri, o lo era in quel momento, ma con una differenza in quell’uguaglianza, una crepa nella porcellana, ancora nascosta agli occhi, ma il suono non era più integro: nelle famiglie accadono cose del genere, si suicidano. C’erano buone ragioni per confidare nel proseguimento di quella storia.

Quanto a me, sapevo bene che cos’era successo. Mi trasportavo nel bagagliaio una bomba, a scoppio ritardato, ma fatale. Il meccanismo era già innescato. Qualunque cosa facessi, ormai, come ritrattista della gente che solitamente mi pagava, ero bello che sistemato. Anche se fossi tornato indietro, se avessi distrutto quel ritratto davanti alle sue vittime e se ne avessi dipinto un altro seguendo le loro regole e la mia tradizione, la mia carriera era comunque finita. Anche se mi fossi scusato, anche se l’avessi giurato. “Chi fa un cesto, ne fa cento”, “Nessuno dica di quest’acqua: “Non berrò”“, “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. Io avevo fatto un cesto, potevo farne cento, avevo bevuto quell’acqua e lasciato i miei modelli frustrati, con lo zampino in mano. Entro ventiquattr’ore (o quarantotto, o quindici giorni, per non attribuirmi troppa importanza), quella Lisbona che si serviva delle mie doti avrebbe saputo che non doveva più chiamarmi. Era un punto d’onore: una telefonata, un incontro per il golf o per il bridge, o nella pausa di una riunione del consiglio, e con mezza dozzina di parole, che non sarebbero state il resoconto neppure alla lontana di quanto era successo, la faccenda sarebbe stata chiusa. Ho scritto tutto al condizionale, ma devo farlo al futuro, adesso che mi trovo a casa e non posso più fare a meno di scrivere. Nel futuro, nonché nel presente: come pittore di questa gentaccia che ho dipinto e che mi ha mantenuto, sono liquidato, e la liquidazione effettiva avverrà nei prossimi giorni. Che cosa ne faranno i rispettivi proprietari dei miei quadri? Li conserveranno per diletto, per puntiglio o per amore del denaro speso? Le mie tele, finiranno nascoste in soffitta, tagliuzzate alla base, mandate in esilio nella casa di campagna, separate dalla cornice che sarà conservata mentre la tela sarà strappata furiosamente? Una di queste cose capiterà. Lo spirito di corpo finirà per imporre quest’ultimo atto della mia liquidazione: nessuno oserà opporsi alla volontà generale. Qualcuno resisterà un poco, perché si è abituato all’immagine appesa nella sala, o nello studio, o nel salone (che ne farà la SPQR? E S. che cosa farà?), per spirito di contraddizione, ma in realtà la mia unica speranza di sopravvivere risiederà nel grado di amore che provano i vivi rimasti per i ritratti dei morti. Se il defunto era stimato, per ragioni di cuore o altre ragioni meno sentimentali, forse l’immagine sfuggirà all’autodafé; se non lo era, la tanto desiderata occasione infine si è presentata, e con un sol gesto i padroni di casa si libereranno del fastidioso ricordo e dell’odiato quadro. Non sono mai mancate le strade per arrivare là dove l’occulta volontà tende: basta trovare i pretesti.

Con il quadro nel bagagliaio della macchina, ho vagato per la città, senza meta, pensando alcune delle cose che avrei scritto dopo, lasciandomene sfuggire altre, che forse erano così importanti come queste (così, così poco. Giustificata annotazione di chi sta imparando: chissà perché si dice così poco e non si dice così molto?) La città, questa, o una città qualunque, è una cosa strana. Si forma per tre motivi, si popola di mille persone (o di migliaia, o di milioni) e continua a esistere anche quando i motivi non sussistono più (altri, nel frattempo emersi, formerebbero una città diversa). La città si popola, quindi, di così molte migliaia o così pochi milioni di persone e compie la prodezza di mantenere unita, globalmente parlando, la sua popolazione e, con sistemi assai diversi, di non permettere che si unifichi. È come se la città si difendesse da chi vi abita. Le volontà degli abitanti, unite, senza che questi se ne accorgano, costituiscono una volontà diversa, che comincia a governarli e li sorveglia puntualmente. La città sa, lo sa quella volontà, lo sa chi tale volontà incarna, che, se ricostituita l’unità degli abitanti, la somma finale, seppure uguale nel numero, sarebbe di diversa qualità: la prima e inevitabile trasformazione conseguente sarebbe proprio quella della città. Ecco perché lei si difende. Pare sicuro (ma converrebbe discuterne) che il corpo sia regolato da un organo centrale, e cioè dal cervello (la discussione includerebbe, quali punti da analizzare, i vantaggi e gli svantaggi dell’esistenza di cervelli autonomi, per quanto non indipendenti, che regolassero i vari organi e le membra del corpo, la mano o il sesso, per esempio). Ma per la città non si è altrettanto sicuri, o forse sì, ma in senso contrario, e cioè dei vantaggi dell’esistenza di cervelli completi e funzionanti, pieni e corretti, nei suoi abitanti. Che ne sarebbe di una città di un milione di abitanti, se a quel milione di corpi corrispondesse un milione di cervelli?

Ecco le case, le persone, le strade animate, l’ombra e il sole, gli alberi, quei corpi metallici mobili che sono le automobili, i tram, gli autobus, ecco i negozi con le merci appese o disposte in uno spazio che non osa dilatarsi o in mostra al di là della protezione dei vetri, ecco la pietra, l’asfalto, l’intonaco sotto i colori, le piastrelle, ecco le voci, i rumori del traffico, ecco la polvere, la sporcizia e il vento che la sospinge, ecco il ponteggio per edificare una nuova casa e il ponteggio per abbatterne una vecchia, ecco i monumenti, con uomini quasi tutti e donne poche, e araldiche, insieme ad altri animali araldici, o simbolici, o utili, leoni, cavalli, qualche bove da lavoro, ecco la città vista da vicino, un’immagine tra infinite altre, e adesso vista da lontano, dall’altra sponda del fiume, da questo ponte che rappresenta anch’esso la città, eccola crosta viva sopra la terra morta, o viva soltanto nelle acque e nelle verzure che sbocciano e prosperano negli interstizi concessi o conquistati, eccola sinuosità, in lontananza dolce, delle case, dei tetti, dei colori magari violenti, ma smorzati dalla distanza e da questa luce pomeridiana che precede immediatamente quella che solitamente definiamo dell’imbrunire, senza dire niente né dell’una né dell’altra, perché la luce e la sua qualità non sono traducibili a parole, come non è traducibile questa città, fatta di tutto quel che è stato scritto e di quant’altro manca, né vicina né lontana, probabilmente inaccessibile, come il cervello che comanda e come gli uomini e le donne che in essa si trovano non esistendo. Vedo Lisbona dalla piazza di questo aborto cattolico e imbecille che è il monumento al Cristo Re, vedo la città e so che è un organismo attivo, che agisce spinta contemporaneamente da intelligenze, istinti e tropismi, ma la vedo soprattutto come un progetto che si delinea da solo, tentando di coordinare le linee che da tutti i lati s’incurvano o lanciano rette, ma anche come l’interno di un muscolo o un neurone gigante, come una retina abbagliata, una pupilla che si dilata e si contrae sotto la luce ancora chiara di questo giorno. Nel bagagliaio della macchina, due teste sono immerse nell’oscurità totale. Tengono gli occhi aperti, non li potranno chiudere mai, sono condannate a una veglia eterna (eterno, un quadro?) e le loro pupille non si muoveranno se irromperà la luce, bruscamente, e mi fisseranno interrogative, adesso che credono di avermi giudicato. Mi sia testimone questa città: sono innocente di quanto mi accusano, probabilmente non di quello per cui mi elogiano.

Proprio qui, o in altri punti elevati con vista sulle città, altri uomini e altre donne hanno già provato quella romantica ebbrezza o vertigine o stordimento di trovarsi fisicamente al di sopra degli altri, per poi fare un atto di contrizione. Nei vecchi romanzi russi, l’eroe si inginocchiava nella piazza pubblica e confessava, agli uomini e ai cani, i propri errori, i propri delitti e mancanze. Se i romanzi lo hanno raccontato, qualcuno deve averlo fatto in precedenza, a meno che non abbia cominciato a farlo dopo, per effetto della lezione. Ma nei romanzi delle nostre parti, o nelle azioni di esseri viventi come me, usa la gente isolarsi su un’altura, trarne una sorta di maestosità o qualche semplice stupidaggine e tramutare l’originaria contrizione in una giustificazione ultima. Credo di aver fatto proprio questo. Mi replico, però, che io non sono più ai primi passi di questo cammino, che la distanza percorsa mi dà qualche diritto, soprattutto quello di tenermi in una certa considerazione e rispettarmi. Chiniamo la testa per guardare la pianta dei piedi, liscia o callosa che sia, e per valutare la resistenza del suolo che calpestiamo, ma poi la testa si rialza: gli occhi vedono già avanti, valutano il suolo futuro. Questo significa procedere.

Mentre scrivo, guardo l’orologio che ho posato sul tavolo, come ho già detto è mia abitudine. È sera,. ho cenato, e adesso sto scrivendo. Vedo la lancetta dei secondi saltellare, girando e girando, e credo che questo sia, in dimensione minuscola, un ritratto della vita umana. Più che un ritratto: una nozione consolante del tempo. Che cosa sia il tempo, non si sa. Probabilmente è un fluido continuo non visibile (una banale immagine di cui mi servo per percepire quello che sto esprimendo), ma l’invenzione degli orologi, quelli che avanzano a piccoli balzi, aveva introdotto in questo fluido una sorta di minuscoli pianerottoli, rapidissime pause che, nella loro successione e nel succedersi dei salti nel vuoto, l’uno dopo l’altro, ci davano l’impressione tranquillizzante che il tempo fosse una somma, un’addizione di tempi successivi che, data l’infinità dei numeri, ci promettevano l’eternità. Ma gli orologi moderni, elettrici o elettronici, hanno finito per riesumare l’angoscia della clessidra: come con la sabbia, il tempo vi scorre senza pause, senza tregua, senza alcun pianerottolo su cui poter riposare un brevissimo istante. Queste cose, di per sé banali e, certo, più volte già dette prima, hanno per me una grande importanza, a questo punto. Acqua corrente, la mia vita ha cozzato contro una chiusa eretta sul mio cammino: per il momento, in questa pausa forzata, si gonfia, refluisce, è percorsa da movimenti che si contraddicono o contrappongono. Mi trovo nella pausa infinitesimale dell’orologio. Ma il tempo, accumulandosi, mi spinge. Guardo il ritratto dei signori di Lapa. Mi tengono gli occhi fissi addosso, non mi abbandonano mentre mi muovo nello studio. Così, sentendo la loro presenza, mi avvicino alla tela su cui ho già dipinto il lastricato assurdo ricopiato da Vitale da Bologna e la prigione che si delinea in prospettiva fin quasi al punto di fuga. Sto dipingendo il santo. Fuori dalle grate.

Adelina è venuta a casa mia. Mi ha telefonato prima, riservata, un po’ nervosa, mi è parso. Si è sentita in dovere di parlarmi della lettera, ma io ho tagliato corto: era tutto chiaro, non avevamo altro da dire sull’argomento, non valeva la pena riprendere a discutere, e avevo già deciso di evitarlo non rispondendole. Ho avuto l’impressione (è stato l’effetto della mia vanità mascolina) che si sia sentita disorientata, pentita, desiderosa di parlarne. In tal caso, deve aver provato un po’ di speranza (di che cosa?) quando ho acconsentito che venisse a riprendersi quei pochi oggetti d’uso personale, qualche vestito, qualche tubetto e qualche boccetta per il trucco, la fotografia, quelle piccole tracce femminili (ma anche maschili, se le rotture avvengono nell’altro campo, se è la donna a rimanere in casa e l’uomo ad andarsene) che rimangono per un certo tempo e che, probabilmente, vi saranno ancora quando si crederà che tutto sia stato portato via: un giorno, si scopre il graffio di un’unghiata che non è la nostra, oppure si cambia posto a un oggetto, tutte le cose rientrano nelle loro orbite, magari non le prime, ormai smarrite, ma quelle di poco precedenti, leggermente modificate, è ovvio, perché in questo spazio sono entrate in collisione quelle forze che, per un certo tempo, si sono equilibrate insieme, viaggiando a rimorchio, ma poi l’equilibrio si è infranto, si è infranto il viaggio e talvolta, per così dire, anche la vita. Ma non in questo caso. Adelina è venuta, ha radunato i suoi oggetti mentre io, apposta, riordinavo i libri nello studio. Non si è trattenuta, ma quando è uscita dalla camera con una valigetta in mano, mi ha guardato senza parlare, trasferendo su di me tutta la responsabilità degli ultimi momenti. Anch’io l’ho guardata, però, consapevole della situazione, e, convinto che fosse meglio per entrambi, non ho lasciato che il silenzio si prolungasse. Non volevo mandarla via, ma non volevo neppure che restasse. Le ho domandato: “Hai tutto?”, e mi sono accinto a continuare nel riordino dei libri. La sentivo camminare: si era avvicinata al ritratto dei signori di Lapa. Ho capito che era perplessa. Se avesse fatto qualche commento, probabilmente sarei stato spiacevole. All’improvviso è stato come se stesse avvicinandosi a una frontiera a lei proibita. Dall’altro lato, avrei aperto il fuoco con armi pesanti, con un mortaio (mortaio, che semina morte), con un cannone senza rinculo (Soldati: rinculare, indietreggiare, mai). Mi è parso che abbia capito, non so come, ma i suoi gesti hanno capito. Ha attraversato lo studio, è uscita nel piccolo corridoio. Ho sentito aprirsi e richiudersi la porta d’ingresso, rumori sovrapposti a una voce in qualche punto del percorso, una voce che ha articolato dei suoni che, se capiti, esprimevano un congedo, forse addio, forse arrivederci, forse ciao, e poi il suono secco e breve dei tacchi delle scarpe sui gradini delle scale, che sprofondavano e scemavano lungo i quattro piani di discesa, che si allungava in prospettiva, sempre più lunga, un suono sempre più ridotto, breve, attutito, cessato.

A conti fatti, ho soldi per campare da quattro a sei settimane. Nessuna speranza di nuove commissioni. Ho già passato alcune crisi temporanee, ma questa è venuta a vivere con me. Non c’è che una strada: la pubblicità. Nel nostro paese, gli artisti plastici (esecrabile termine), valgano quel che sia, se per destino loro o per sventura collettiva si vedono interrotta la carriera e stornato il lavoro, se non hanno, come non ce l’ho io, la risorsa dell’insegnamento (non ho concluso il corso di Belle Arti, metà di quanto so l’ho imparato in seguito, in serie, e magari male), sfilano dalla tasca l’agenda con indirizzi e numeri di telefono e sfogliano le pagine in cerca degli amici pubblicisti, mentre montano su qualche storia in cui, naturalmente, avranno la parte migliore, o non varrebbe la pena inventarla. Dubbiosi che qualcuno vi creda, ma costretti per amor proprio. La mia àncora di salvezza sarà Chico, o almeno lo spero. Mi ha già aiutato altre volte, Intanto, ho lavorato. Ho finito il ritratto del santo. L’ho appeso nello studio e vi ho messo accanto la cartolina che mi ha fatto da modello. Ho appeso anche il ritratto dei signori di Lapa (finora non c’è traccia di avvocati) e sotto, su un pezzo di carta, in corsivo e bella calligrafia, ho scritto la data della mia cacciata dal palazzo. Sto poco in casa durante il giorno. Esco con il blocco da disegno e riempio le pagine di bozzetti e, insieme, di appunti. Ripercorro passi d’altri tempi, quando era un dovere scolastico andare, per esempio, fino alla Ribeira a disegnare le piccole lance, gli uomini che scaricavano cassette di pesce, le donne (pescivendole, peschivendole, o pescavendole?) che trasportavano le canestre, le voci e il linguaggio, a cogliere la luce riflessa sull’acqua oleosa, e tra mille scintillii sceglierne uno, trovare la media aritmetica e laboriosamente trasferirlo in bianco e nero sul foglio. Nulla è più come un tempo, ma il fiume scorre fra le stesse muraglie, indegne del nome di sponde, le quali sono di terra naturale e di diverso limo; ma vi sono anche uomini e donne che passano, o si siedono, più uomini che donne, e guardano, insistenti, le grandi imbarcazioni sul fiume, le petroliere che sembrano tutt’altro che navi, il porticato della Lisnave, il fumo giallastro, spesso e tumultuoso come le nuvole rigonfie che si spostano nel cielo, e poi le vele, così poche ormai, delle fregate e il volo irrequieto dei gabbiani, instancabile e costante durante il giorno, tale e quale l’onda che monta e si frange contro la rampa del frangiflutti, distesa nell’acqua come una tovaglia o uno sfregatoio messo lì, quasi che il fiume si ostinasse a lavare con movimento circolare i sassi che, insudiciato dagli uomini, sta insudiciando. Noto che le persone mi guardano con curiosità e da questo mi pare di capire che sta diventando rara la presenza di un disegnatore da queste parti. I visi, i gesti, le mani degli uomini interessano poco. Un computer qualunque, ben programmato, può produrre cento dipinti al giorno, tutti diversi. Un Vasarely qualunque, straniero o indigeno, può ricoprire, fra varianti e moltiplicazioni, all’infinito, le pareti degli intellettuali piccoloborghesi di oggigiorno e il loro orizzonte immediato. Io ero un ritrattista di grandiborghesi (arrangiamento di grandeburghesi) e oggi non sono più nulla. Non sono più, non sono ancora, non so che cosa sarò. Tuttavia, di questo tipo di vita che ho adottato, di dipingere facce, occhi, bocche, capelli o pelate, nasi, menti, orecchie, spalle talora nude, vestiti da cerimonia varia, qualche uniforme, spingendomi di tanto in tanto fino alle mani, con o senza anelli: di questo tipo di vita mi è rimasta, o forse non sono arrivato ancora al punto di perderla, l’ostinata attrazione per il viso umano, per la pelle e la sua fragilità, per la ruga leggera o scavata, per il sudore brillante sulla tempia o, sulla stessa tempia, l’azzurro fiume sotterraneo di una vena. Non solo per la bellezza, tanto rara, ma anche per la bruttezza, fra noi più comune perché noi, esseri umani, non siamo belli, generalmente non lo siamo, ma accettiamo la bruttezza con una dignità particolare che forse viene da dentro, dallo spirito. Pian piano ceselliamo la nostra faccia dall’interno, ma la brevità della vita non consente mai di finire l’opera: i brutti, perciò, rimangono brutti, e talvolta lo sono ancora di più, quando desistono dal minuzioso lavorio di questa scultura interna, talaltra diversamente, quando sbagliano l’esperimento. Voglio credere che se la specie umana vivesse il doppio o il triplo di questi miseri settant’anni che la biografia regge (e settant’anni sono il mio grande desiderio, non certo la media reale), gli uomini e le donne arriverebbero alla fine della vita in condizioni di pura bellezza, diversificata nel moltiplicarsi dei lineamenti, dei colori, delle razze, ma unica e insuperabile. Oggi, gli esseri umani cominciano (quando cominciano) dalla bellezza e accumulano bruttezza tutti gli anni, tutte le stagioni, tutti i giorni e tutte le notti, tutti i secondi, per quel poco, ma sicuro, che può dare un secondo; una vita lunga (immagino) uguaglierebbe, nel loro ultimo giorno, Elena di Troia e Socrate. Non che Elena sarebbe più bella di Socrate: si limiterebbe ad aspettarlo e insieme, belli, abbandonerebbero la vita.

Quando torno a casa, guardo con attenzione i bozzetti, riprendo, partendo da lì, altre prove, raduno le figure, organizzo lo spazio, senza preoccuparmi più degli sfondi rivieraschi che gli occhi hanno visto. Per me, il foglio di carta continua a rappresentare il posto dell’uomo. Mi hanno voltato le spalle gli uomini e le donne che mi pagavano, sono scivolati via dai fogli di carta e mi hanno lasciato tutte le pagine in bianco. Adesso disegno altre figure, che non vengono spontaneamente, che non mi pagano, che sono abituate (o lo erano) a fare da modello agli studenti di Belle Arti o da bersagli fotografici per i turisti.. Hanno acquistato, con l’abitudine, una falsa indifferenza fatta di compiacenza, un residuo d’ingenuità, pazienza e forse un po’ di disprezzo. E io, profondamente, credo che siano intoccabili. Seduto su una cassetta, o sopra un rotolo di corda (cima, signor pittore, cima), o sotto la curvatura di una lancia, li guardo e li disegno, ma intuisco come non siano indifesi. Ciascuno di loro se ne sta con se stesso e in se stesso, e contemporaneamente con tutti gli altri e negli altri. Sono un tutto e parte di un altro tutto. Circola fra di loro un invisibile flusso (non insensibile) che li lega e che, allungandosi, persiste (immagino) anche quando si separano per ore o per giorni. Più che i visi, vorrei cogliere, per loro tramite, questo flusso invisibile. Credo che una certa maniera di disegnare, una certa maniera di dipingere, se le conoscessi, mi permetterebbero di fissare nei visi quel flusso e, fissatolo, di ritornare ai visi e trasformare ciascuno di essi in una sua dimostrazione. Dipingere borghesi non mi ha preparato a questo lavoro, a questa discesa al sole, ma non mi ha trafugato (o sarà solo perché è questa la mia inviolabilità.?) quel sesto senso con cui captare, pur senza poterlo decifrare, il linguaggio sotterraneo, l’onda sismica, il fremito subepidermico di visi e corpi da me separati. Da me separati. E com’erano gli altri visi e gli altri corpi che ho dipinto? Rispondo: anch’essi da me separati.. S. separato da me (è iniziato proprio così questo mio processo di scrittura o scritturazione), separati da me i signori di Lapa (è con loro che si concluderà questo processo di scrittura o scritturazione). Che cosa ne faccio, io, dello spazio che, a sua volta, separa gli uni dagli altri? Che cosa fa un pittore? Quando sollevo una penna o un pennello e li avvicino al foglio o alla tela, avverto una certa somiglianza nel modo in cui mi guardano, da una parte e dall’ altra. Ritrovo e riscontro uguali la compiacenza, la pazienza e il disprezzo. E se c’è qualche differenza, credo che sia l’astuzia invece che l’ingenuità, o forse neppure l’astuzia, ma un disprezzo maggiore.

Gli uni e gli altri da me separati. E io da me stesso. Attenzione, ci vuole attenzione in questo momento. Ho scritto che lo scoprirmi separato dalla conoscenza di S. mi ha spinto a incominciare a scrivere, adesso dichiaro che sto per interrompermi o per mettere il punto finale a quanto sto scrivendo altrettanto, se non ancor più, separato da quegli altri S. che sono i signori di Lapa, pur essendo due separazioni diverse: la seconda è la logica conseguenza della conoscenza, non della sua mancanza. Fra l’una e l’altra, proprio per avvicinarmi a me stesso ho continuato a scrivere, quando la prima motivazione aveva ormai perduto la sua importanza. Quali somme tirare, quale totale trarre, quale prova reale poter fare? Sono ancora separato da tutto il resto, come prima. Di questa separazione dagli altri uomini che ho riscoperto, per il momento mi limito a prendere nuova coscienza. Ma della mia separazione da me stesso? Da questo progetto di autobiografia tramite vie volutamente diverse, in parti uguali collegando artificio e verità, cosa ne è uscito fuori? Quale edificio? Quale ponte? Quale resistenza di quale materiale? Potrei rispondere che mi sono avvicinato. Potrei rispondere che ho adattato il corpo e la sua ombra, che ho dato un giro di vite.

Allontano gli occhi dal foglio e vedo la mia mano muoversi sotto la luce. Vedo la pelle ormai flaccida in certi punti e certi movimenti, vedo la rete delle vene, i peli, le grinze sulle articolazioni delle dita, avverto sotto gli occhi la durezza ricurva delle unghie come uno scudo, e so di non averle mai sentite così mie, queste piccole cose. Muovo la mano e so che a muoverla è la mia volontà, che quella volontà e questa mano sono io. Con gli avambracci poggiati sul tavolo, ne sento la pressione sul legno e la forza che il legno oppone. Questo benessere (essere bene, ben essere) non è fisico, o lo diventa, non è un punto di partenza, è il punto a cui sono arrivato. Rileggo queste pagine dall’inizio e cerco il passo, la situazione, la parola o l’interlinea che rappresentino il preciso istante in cui si svolta l’angolo: istante dopo istante io sono uguale, istante dopo istante mi sento diverso. Mi manca un pianerottolo di tempo decisivo, il punto di rottura tra il cammino già percorso e quello che ancora manca. Mi manca (per ricordare una vecchissima lezione di chimica elementare) lo stadio intermedio liquido nel passaggio dal gassoso al solido, proprio quale momento di sosta per capire meglio il movimento.

La differenza fra i ritratti di S. e dei signori di Lapa è la mia differenza: quella sì, è davvero sensibile. Nessuno scommetterebbe che siano della stessa mano o avrebbe grandi dubbi nell’affermarlo. La differenza dell’autore, in cosa consiste? Se questo tratto non è uguale a quello, cosa mai li distingue? Il movimento del polso, la presa delle dita sul carboncino o sul pennello? Ma non c’è alcuna differenza nel modo in cui mi faccio la barba, ed è la mano che la fa. Ma non c’è alcuna differenza nel modo in cui tengo la forchetta, ed è la mano che la tiene. Anche adesso, mi sono interrotto per sfregarmi gli occhi col dorso della mano (un gesto infantile che mi è rimasto), e il movimento è lo stesso, come lo è il suo motivo. Eppure la stessa mano ha disegnato e dipinto in modo diverso cose uguali: non c’è differenza tra S. e i signori di Lapa, ma sono stati dipinti in maniera diversa. In fondo, i signori di Lapa sono il secondo ritratto di S. e la mia comprensione. Disegno e dipingo. Sul foglio e sulla tela, la mia mano descrive la stessa invisibile rete di movimenti, ma non appena tocca la materia, e trasforma in materia il movimento, il segno riproduce un’immagine-tempo diversa, come se i nervi che partono dall’occhio si collegassero adesso con una regione nuova del cervello, immediatamente attigua, certo, tuttavia archivio di un’altra esperienza e quindi fonte di una nuova informazione.

Concludere mi pesa. Mi accorgo di quanto sia stato più facile dire chi ero di quanto non sia, oggi, dichiarare chi sono. Questo testo potrebbe proseguire sino alla fine dei miei giorni, con la stessa utilità o vanità che ha avuto finora. Dubito, però, che il resoconto di una quotidianità senza alcun progetto (mi riferisco al resoconto, non alla quotidianità che, invece, potrebbe avercelo) potrebbe interessarmi abbastanza, tanto da proseguirlo al di là di questa indagine (se mai l’ho definita analisi, devo aver esagerato). Intanto, solo soletto come sono adesso, senz’arte o con un’arte da imparare, aumenta dentro di me quella tensione che ho già tentato di esprimere a parole e che mi impedisce di fermarmi. Ed è sempre lei che mi riempie di disegni il quaderno dei bozzetti, che mi trattiene dinanzi al ritratto dei signori di Lapa e al quadro copiato da Vitale da Bologna, così come mi spinge verso il cavalletto su cui ho messo una tela che non sono in grado di incominciare. Perché non so cosa dipingervi. Dipingo da più di vent’anni, ma mentirei se giurassi che ho vent’anni di esperienza di pittura: la mia esperienza è quella di un ritratto ripetuto per vent’anni, di un ritratto fatto con un certo numero di colori fondamentali e con un certo numero di gesti basilari. Che il modello fosse uomo o donna, giovane o vecchio, grasso o magro, biondo o bruno, intelligente o stupido, mi richiedeva un semplice adattamento in un certo senso mimetico: il pittore imitava il modello, il ritratto dei signori di Lapa è di un’altra fattura tecnica, o forse in fondo non lo è: non si modificano le abitudini, quali che siano, né le maniere di dipingere, che poi sono abitudini, da un’ora all’altra e per semplice volontà del pittore. E, di miracoli, in pittura non ce ne sono. Ciò che ho definito di un’altra fattura tecnica, dev’essere solo il risultato dell’inattesa impossibilità di reagire, dinanzi ai nuovi modelli, con il mimetismo divenutomi ormai naturale. Adesso mi accorgo come il mio primo atto di ribellione (mi perdono l’esagerazione del termine per il piacere che mi dà) sia stato l’aver deciso di dipingere il secondo ritratto di S. L’ho fatto di nascosto, di nascosto a tutti, ma, soprattutto, lontano dagli sguardi del modello. Una ribellione, la mia, carica di viltà. O di timidezza. Dinanzi ai signori di Lapa (i signori della Casa Moresca, la baronessina di ValFior, i Teles di Albergaria, le dame d’altri tempi, il barone di Lavos, i Maia, il signore del Palazzo di Ninaes), il camaleonte non ha cambiato colore. Se era scuro, lo è rimasto, e con occhi oscurati ha registrato e trasferito i colori che gli si opponevano o ai quali (con più esattezza) egli si opponeva. (Non credo, a soffermarmi meglio su quanto ho appena scritto, che possa essere più esatta della precedente questa seconda forma espressiva. Dubito che Goya si sia opposto a Carlo IV quando lo ha dipinto con la famiglia reale [se qualche opposizione da parte di quest’ultimo vi è stata, penso che si potrebbe scomporla nei tre o quattro elementi cui ho accennato prima: compiacenza, pazienza e disprezzo, quest’ultimo variabile]: dinanzi a quel gruppo di degenerati, Goya guardò i loro visi freddamente e, non avendovi trovato nulla che in pittura valesse la pena di migliorare, peggiorò tutto. Questo potrebbe significare opporsi a qualcosa, ma solo oggi lo sappiamo di fatto, perché nel frattempo è progredita la storia delle istituzioni monarchiche in genere, e di questa in particolare, e inoltre perché noi conosciamo qualcosa che nel 1800 [data del ritratto di Carlo IV e famiglia] Goya non sapeva ancora: che nel 1810 avrebbe realizzato le acqueforti dei Disastri della guerra, che nel 1814 avrebbe dipinto il 2 maggio e le Fucilazioni del 3 maggio, che al termine della sua vita sarebbero poi venute le “pitture nere” e i “disparates”). Mi sono opposto (se fosse possibile, il portoghese opusme, e cioè “mi sono opposto”, potrebbe essere opus me, “l’eopera mia”) ai signori di Lapa? Non credo. Più esatto (in fondo) sarebbe dire: ero in opposizione. L’opporsi può essere solo un moto dell’umore, una cosa passeggera, e riflette, io credo, il più delle volte, un rapporto di dipendenza, di subalternità. È lì che si comincia, dalla scoperta del rapporto tra inferiore e superiore. Il passo successivo è quello di uscire da questa condizione in rivolta, ed è allora, ammesso che lo si possa fare, che l’opporsi dovrebbe tramutarsi nello stare all’opposizione, perché il primo impulso persista e divenga permanente, una tensione continua, un piede saldo sul terreno che ci appartiene, l’altro teso in avanti. Mille colpi, uno dopo l’altro, aprono un buco nel muro, su quello stesso muro che cederà completamente sotto una pressione continua esercitata su un fronte abbastanza ampio: ecco la differenza tra il piccone e il bulldozer.

Così mi sento oggi, fra queste mie quattro mura o quando attraverso la città: in opposizione. A che cosa? Prima di tutto, ai ritratti che ho dipinto e a me stesso, che li ho dipinti, ma non a quel che ero mentre li dipingevo: non posso oppormi a quello che ero un tempo e adesso non sono più. Ho tentato di ripensare a me stesso com’ero (e credo proprio di averlo fatto) come chi pensa all’ombra lasciata dietro di sé e adesso gli appare sudicia, dai contorni sfrangiati, riconoscibile appena da un’aria ormai troppo familiare, ma nostra quanto il sudore o lo sperma. E poi, in opposizione a quel che mi circonda. Credo persino che la maggior parte della mia tensione, adesso, derivi proprio da qui. Mi sento come il soldato eccitato che si spazientisce per il ritardo nell’attacco del nemico e avanza, o come il bambino pieno di energia accumulata che ha esaurito un gioco e subito ne desidera un altro. Ho liquidato (ripulito, distrutto, annullato) un passato e un comportamento e mi accorgo di non aver fatto altro se non preparare un terreno: ho tolto le pietre, strappato l’erbaccia, spianato ciò che toglieva la visuale, e così (come ho già scritto con altre parole e per altre ragioni) ho creato un deserto. Adesso mi ritrovo in piedi, lì nel mezzo, sapendo che questo è il luogo della mia casa da costruire (se di casa si tratta), ma non sapendo altro.

Quando Goya si ritirò nella sua casa di campagna (la Tenuta del Sordo, come l’hanno chiamata), quale deserto aveva creato o si era creato dentro di sé, lui che era sordo e quindi deserto, ma non certo soltanto per quell’infermità? Non intendo copiare adesso la biografia di Goya né la storia della Spagna di allora. Sto parlando di me, non di Goya, e dovrei parlare del Portogallo (se non fosse tanto penoso), non della Spagna. Gli uomini, però, che sono diversi, sono anche tanto uguali, e i paesi rappresentano queste differenze e queste uguaglianze combinate (che si combinano) all’infinito, talvolta coincidenti al di là delle frontiere e dei periodi, talaltra ricercandosi reciprocamente o respingendosi. Quando, nel 1814, Goya dipinse i due quadri sugli avvenimenti del maggio 1808 e Ferdinando VII restaurava l’Inquisizione, che cosa aveva o avrebbe avuto tutto questo a che vedere con me e con il Portogallo? Per quanto siamo un paese occupato dieci volte (americani, tedeschi, inglesi, francesi, belgi, più cinque tipi di capitale portoghese: monopolista, latifondista, colonialista, borsista, camorrista), non abbiamo alcun maggio da ricordare e rivivere con la pittura o la scrittura; e se c’è questo pittore, Goya non c’è. Ma se guardo agli anni portoghesi che racchiudono la mia vita, e pronuncio nomi quali Salazar Cerejeira Santos Costa Carmona Agostinho Lourenço Teotónio Pereira Pais de Sousa Rafael Duque António Ferro Carneiro Pacheco Marcelo Gaetano Tomàs Moreira Baptista Rebelo de Sousa Adriano Moreira Silva Pais Rui Patricio Veiga Simao Antònio Ribeiro, mi viene la tentazione, cui cedo, di trasportare qui, punto per punto, il decreto di Ferdinando VII, con cui persino un po’ del Portogallo trova chiarimento, anche se non sembra: “Il glorioso titolo di cattolici, grazie al quale i re di Spagna si distinguono dagli altri regnanti della cristianità perché non tollerano nel loro regno alcuno che professi altra religione se non la religione cattolica, apostolica e romana, ha spinto vigorosamente il mio cuore a servirmi di tutti i mezzi che Dio ha posto nelle mie mani per meritarlo. I gravi disordini e la guerra che ha devastato tutte le province del regno per sei anni; la presenza nel regno, per lungo tempo, di truppe straniere appartenenti a varie sette, quasi tutte contaminate da odio e avversione per la religione cattolica; il disordine che sempre ne deriva, nella scia di tali mali, insieme alla mancanza di provvedimenti, in questi periodi, per andare incontro ai bisogni della religione, hanno dato ai peccatori licenza completa di vivere come loro aggradava e l’occasione per introdurre nel regno e insinuare nel popolo idee perniciose con i medesimi metodi usati per propagarle negli altri paesi. Allo scopo, da un lato, di trovare un rimedio per sì grave male e preservare nei miei domini la santa religione di Gesù Cristo, che noi amiamo e al quale il mio popolo ha dedicato la propria vita, vivendo così felice, e, dall’altro, guardando ai compiti che le leggi basilari del regno impongono al principe regnante, e che io ho giurato di proteggere e osservare, e poiché questo è il miglior mezzo per preservare i miei sudditi da dissensi interni e loro assicurare pace e tranquillità, ritengo che sarà di grande beneficio nelle attuali circostanze restaurare, affinché agisca nell’ambito della sua giurisdizione, il tribunale del Santo Uffizio. Saggi e virtuosi prelati e assai importanti corporazioni e personalità, sia ecclesiastiche sia secolari, mi hanno rammentato come sia nostro dovere rendere grazie a tale tribunale se la Spagna non è stata contaminata dagli errori che tali poteri suscitarono nel Cinquecento in altri paesi, mentre la nostra terra fioriva in tutte le sfere delle lettere, con grandi uomini, in santità e virtù; che uno dei principali mezzi usati dall’oppressore dell’Europa per diffondere la corruzione e la discordia, a lui sì vantaggiose, fu la distruzione di tale tribunale con il pretesto che non fosse più compatibile con l’illuminismo dell’epoca; e che, in seguito, le cosiddette Corti Generali Straordinarie si servirono del medesimo pretesto, unitamente a quello della costituzione, per abolirlo in modo turbolento e a discapito della nazione. Per tali ragioni, lealmente mi hanno consigliato di restaurare quel tribunale; e io, accogliendo la loro richiesta e la volontà del popolo che, spinta dall’amore per la religione dei padri, ha già restaurato, di propria iniziativa, alcuni tribunali inferiori nelle loro funzioni; io ho deciso che, d’ora innanzi, il Consiglio dell’Inquisizione e gli altri tribunali del Santo Uffizio siano restaurati e proseguano la loro azione nell’esercizio della loro giurisdizione”. Forse, i padroni dei nomi che ho citato si sono ispirati o si ispirano ancora a parole ipocrite e sdolcinate come queste, forse ad altre un po’ più lontane del nostro re Giovanni III (il Pietoso) quando, nel 1531, implorava il Papa affinché in Portogallo venisse istituita l’Inquisizione. Forse a personaggi più moderni, a Mussolini e Hitler, ormai defunti. Ma senza dubbio Franco (il Generalissimo) le ha imparate da Ferdinando VII, Salazar dai suoi maestri di Coimbra, discepoli e figli legittimi o bastardi di Giovanni III e della sua stirpe di roditori per quattro secoli. Quanto a Marcelo, studente a vita, si guarda intorno nel mondo e non trova nessuno da seguire: si avvicina il momento della sua putrefazione.

E io che cosa faccio? Io, portoghese, un tempo pittore di gente raffinata e oggi disoccupato, io, ritrattista dei protetti e dei protettori di Salazar e Marcelo e delle loro forme di oppressione fra censura e PDF, [[10]], io, che sono protetto da coloro che tutto ciò proteggono proteggendo se stessi, e quindi anch’io protetto e protettore in pratica, seppure non nei pensieri, io, che cosa faccio? Intorno a me si è fatto il deserto, ma come riempirlo? Trascrivere, fra le altre, due pagine di Marx e credervi fermamente, possedere abbastanza scienza e acutezza per confrontarle con la storia e trovarle giuste, che cos’è tutto questo, se non è solo questo travaglio intellettuale? Signor Marx, in questo piccolo mondo e in questa società rappresentati dal mio lavoro, si sono modificati i rapporti di produzione. Per chi dovrà lavorare, adesso, il pittore? E per quale motivo? E a che scopo? Qualcuno ricerca il pittore, qualcuno ne ha bisogno, qualcuno viene forse a chiamarlo, in questo deserto? A tentare i pittori, esiste l’astrazione (e non solo adesso): essi copiano l’illusione che il caleidoscopio mostra, di tanto in tanto la smuovono dolcemente, e vanno avanti, sapendo in anticipo che non un volto umano si affaccerà nel gioco di specchi e di frammenti colorati. Significherà pure riempire il deserto, ma non vuol certo dire popolarlo. Anche se (e fin lì riesce ad arrivarci persino la mia comprensione di scrittore portoghese di questa razza di borghesi) non basta la fotografia dei vivi per popolare i deserti e le tele, già prima deserte: deserti restano. Ma diamo tempo al tempo. Il tempo ha solo bisogno di tempo. La rivolta del popolo di Madrid, nel 1808, trovò Goya pronto solo nel 1814. La verità è che la storia procede più in fretta degli uomini che la dipingono o la scrivono. Probabilmente non lo si può evitare. Io mi domando: se ho un ruolo da rappresentare un domani, quali eventi di oggi saranno lì ad aspettarmi? (A meno che questa speranza in una giustizia distributiva non sia, in fondo, una manifestazione protettiva dello spirito di rinuncia. Gli si opponga, allora, lo spirito di volontà. Mi piacerebbe sapere che cosa ne avrebbe pensato Goya. E Marx).

Antonio è stato arrestato. Tre giorni fa. L’ho saputo stamattina, da Chico, nell’agenzia dove lavoro da quasi un mese. Chico ha fatto irruzione nel mio ufficio, investendomi di parole, o forse no, tant’erano poche. Sono io che me ne sono sentito investito, non riuscendo a credervi: “Antonio è stato arrestato”. Siamo rimasti lì a guardarci, io e Chico, io ancora incredulo, lui sicuro di quel che diceva, ma pensando entrambi la stessa cosa: “Antonio arrestato? Ma perché hanno arrestato Antonio? Che cos’ha fatto? O meglio: che cosa faceva perché fosse passibile di arresto? Antonio, a quanto ne sapevamo noi. Ma che cosa ne sapevamo noi, di Antonio?” So che l’abbiamo pensato perché poi, parlando, ci siamo detti proprio queste cose: Antonio non faceva politica, non ce n’eravamo mai accorti, non ci risultava. Certo, non lo vedevo da vari mesi, ma Chico, che si era trovato con lui ancora la settimana scorsa, adesso mi diceva, lo giurava, che non aveva notato alcun cambiamento nei suoi modi e nel comportamento: avevano parlato di tante cose, vaghe, come si usava nel nostro gruppo, lui con quella sua aria assente, e si era addirittura deciso per un pranzo, da combinare per uno di questi giorni. “Capisci? Non è successo niente che mi facesse pensare qualcosa. Credi che Antonio potrebbe essere implicato in qualche cosa?” Gli ho risposto: “Non ne so granché più di te. Quando parlavamo di politica, Antonio non se n’è mai mostrato più interessato di uno di noi. Ma penso che fosse riservato, troppo riservato. Forse non si fidava”. “Questa poi. C’è sempre stata la massima fiducia nel nostro gruppo”. “Ma non quella di cui probabilmente avrebbe avuto bisogno lui per confidarsi. E poi, qual è questo gruppo? Per Antonio, certo, un gruppo come tanti altri, e a quanto pare non il più interessante”. Chico mi ha ascoltato e, con l’espressione di chi spiega a se stesso quanto ha sentito, mi ha risposto: “Credo tu abbia ragione”. “Come l’hai saputo?” “Per il pranzo che avevamo combinato. Gli ho telefonato a casa l’altro ieri e ieri, varie volte e a svariate ore, ma non ha mai risposto nessuno. Ho pensato che fosse andato a Santarém, a passare qualche giorno con la famiglia, ma lui è puntiglioso in queste faccende, lo sai, non sembra neppure un architetto, e non sarebbe partito così, all’improvviso, senza avvisare per disdire il pranzo. Stamattina ho deciso di andare a casa sua. Ho suonato il campanello un mucchio di volte, ma niente. Ho bussato alla porta del suo vicino di pianerottolo e mi ha aperto una tizia (fra parentesi, un bel pezzo di figliola), e appena le ho fatto qualche domanda, quasi mi sbatteva la porta in faccia. Ho capito che aveva paura. Doveva essere lì a guardare dallo spioncino della porta. Con un po’ di sorrisi e moine sono riuscito a sapere la storia. Tre giorni fa, verso le sette, la PNF è andata a buttare giù dal letto Antonio. Gli hanno perquisito la casa e lo hanno portato via. Dev’essere a Caxias. [[11]]. Poi ha fatto una pausa, mi ha guardato e ha sussurrato: “ Antonio”. Di Antonio, che forse non avevamo valutato come si doveva, adesso parlavamo con amicizia, di certo con rispetto, e credo anche con un sentimento di invidia o di gelosia indefinibile. (Una sete piccoloborghese di martirio). Mi sono alzato e, avvicinandomi alla finestra, ho guardato fuori, ma senza vedere né registrare che cosa vedevo. Poi mi sono rivolto a Chico: “Come starà, adesso?” “Credo che ce la farà. Antonio è un duro”. “E noi, che cosa dobbiamo fare? Bisogna avvertire la famiglia”. “Sì, ma chi conosce l’indirizzo o il telefono dei genitori? Io non lo so”. “Neanch’io. Forse lo sa qualcuno degli altri. Dobbiamo tentare”. E Chico, premuroso: “Lascia stare, me ne occupo io. Adesso telefono a tutti”.

Non lo conosceva nessuno. Da questo particolare, e da un’infinità di altri che questo ha fatto emergere dall’indifferenza, mi rendo conto di quanto Antonio sia stato riservato nei nostri confronti. Penso di non avere il diritto di biasimarlo. Se faceva politica attiva, militante, dobbiamo essergli sembrati, in tutte le circostanze, un gruppo di esagitati psicologici e sociali. In realtà, tutti noi (o quasi, perché qui io sono davvero un’eccezione), ci siamo assecondati, sin da quando abbiamo costituito il gruppo, in un gioco fatto di grandi esternazioni di sentimento o sentimentalismo, e, insieme, di un’inflessione ragionata di cinismo che a tali esternazioni supponeva di togliere importanza. Come se, in ogni momento, ciascuno stesse spiegando agli altri: “credi a quello che ti sto dicendo in modo che non sembri che io non voglia che tu ci creda”. Ma anche: “se non credi a quello che ti dico con l’aria di non volere che tu ci creda, io saprò che non mi stimi, perché se mi stimassi, sapresti anche come questa sia la maniera con cui le persone intelligenti si confidano, oggi, l’un l’altra”. E ancora: “altre maniere, diverse da questa, sarebbero segno di cattiva educazione, di spirito retrogrado, di mancanza di sensibilità”. Antonio ha sorvolato su tutta questa complessità e ha taciuto. Mi guardo indietro, lo rivedo, lo faccio emergere dall’assenza, cerco di ricostruire parole e frasi sue, nel corso degli anni, e sempre trovo qualcuno che ascoltava di più di quanto parlasse. Ma ricordo come fosse stato proprio lui a consigliarmi di leggere il Contributo alla critica dell’economia politica, e come, poi, mi avesse chiesto se lo avevo letto, tacendo bruscamente quando avevo risposto di non averlo fatto ancora, ma che, si, avevo già comprato il libro, tuttavia non ne avevo avuto il tempo. E ricordo che, in seguito, non ero più riuscito a dirgli che lo avevo letto, quando finalmente lessi il libro, anche se non tutto. Questo lo devo confessare, perché è la verità. Lo rammento nella scena del quadro scoperto nel mio ripostiglio, quel quadro ricoperto di un colore nero che occupava il ritratto di S. (come mi sembra lontano), e lo esamino alla luce della situazione attuale. Alla luce, anche, della luce che queste pagine (mi) hanno fatto. Tutto mi sembra chiaro, adesso. Antonio doveva essere disperato, irritato con tutti noi che ce ne stavamo lì a commemorare la fine e il risultato materiale del ritratto: irritato in particolare con me (per quanto non sappia dirne il perché, posso tuttavia capire il suo atteggiamento). Nel provocarmi, forse aveva dimostrato una certa inferiorità: le cose, poi, erano andate in modo tale che quell’ipotetica inferiorità si era fatta chiara a tutti, e tanto più chiara quanto più evidente era la situazione in cui mi aveva lasciato. Ma se di inferiorità si era trattato (lo suppongo, non lo affermo), forse in quel momento lui non aveva altra via d’uscita: l’aggressività accumulata è esplosa nel punto più debole della muraglia. Di tutto il gruppo, allora, il più vulnerabile ero io, e forse il bersaglio più utile. Tutti e due, ciascuno per un proprio motivo e con i propri motivi, ci eravamo rimasti male. Questa è la mia riflessione di oggi, e, se pur non serva ad altro, mi spiega almeno, ed è già un bene, il motivo per cui non ho mai provato contro di lui irritazione o animosità. Non posso dire che ne senta la mancanza: scopro di averla sempre provata, inconsapevolmente. Adesso la avverto di più, ecco tutto.

Mi ha appena telefonato Chico per dirmi che nessuno del gruppo conosce l’indirizzo dei genitori di Antonio. Entrambi siamo d’accordo che bisogna fare qualcosa, ma non sappiamo che cosa. Suggerisco di andare insieme a Caxias il giorno dopo per tentare di avere qualche notizia, e Chico è d’accordo, ma non il giorno dopo, è troppo occupato, impossibile disdire appuntamenti e visite a clienti. “Sai come vanno queste cose, non ci può andare di mezzo l’agenzia”. Potevo andarci io, magari con Ricardo, che è medico, o con Sandra, che è disinvolta e pertinace. “Più di me”, penso io. Sì, ci andrò, ma non starò lì a cercare Sandra per una storia del genere, che ho il dovere di riuscire a risolvere da solo. “A meno che non ci si vada dopodomani”, ha soggiunto Chico, senza entusiasmo. No, non possiamo perdere tempo. Dev’essere domani.

Ci andrò. Di Caxias conosco le mura che si vedono dalla strada. Delle prigioni, niente. O qualcosa, se gli occhi bastano: ho nel ricordo le Carceri di Piranesi, le immagini dei campi di concentramento hitleriani, le varie Sing Sing del cinema. Immagini. Come a dire, niente, per quel che serve. In questo momento, Antonio sta apprendendo il resto: la cella, l’interrogatorio, le guardie, il vitto, il letto. E, forse, già la tortura. Non solo l’aggressione fisica, diretta, ma forse, di già, la privazione del sonno. Oppure il supplizio della statua. Nessuno mi darà informazioni. Non sono un parente, non posso addurre alcun motivo per convincerli. Mentre io parlerò (dove? Con chi?), loro prenderanno il numero della mia targa e l’aggiungeranno alla pratica, una nota, un appunto: ogni informazione può essere utile, nessuna è di troppo, quello che oggi è superfluo, un domani può essere fondamentale. Per la polizia, Antonio non era importante, e poi lo è diventato. Che cosa avrà fatto, Antonio? Che cosa avrà saputo la polizia? Dove sarà stato, quando sarà stato che Antonio si è compromesso, compiendo il gesto che lo ha portato qualche tempo dopo (quando?) all’arresto? Come ha vissuto sapendo di poter essere arrestato, perché si era messo di sua spontanea volontà nella situazione di poter essere arrestato? Quando Antonio parlava con noi, o veniva al cinema, o faceva una passeggiata, o magari qui, a casa mia, dove sono adesso, sollevava per aria un quadro tutto nero, quali pensieri aveva, quali inquietudini provava, a quali incontri pensava o sapeva di dover avere, e dove, e come? E con chi? Tutti abbiamo qualcosa che agli altri lasciamo conoscere o vogliamo che sappiano, tutti nascondiamo loro qualcosa, e questa è una regola della nostra condotta, Tacitamente accettata, non certo polemica, perché comune e generale, ma Antonio nascondeva molto di più di noi. Nascondeva quella che per lui era la cosa più importante, la sua vita realmente segreta, la sua sicurezza e la sicurezza di colui o di coloro che dipendevano da lui. E quando noi parlavamo mentre lui ci ascoltava, silenzioso, fumando, studiandoci con attenzione, che specie di attenzione era, la sua? Insieme alla risposta udibile che ci dava, quale altra risposta non formulata si costruiva nello spirito e taceva?

Ma adesso basta con le domande. Sto riprendendo, nel campo dell’avversario di S., i quesiti che mi ero posto quando ho concepito il progetto di sapere, attraverso il secondo ritratto e queste pagine, chi fosse S. Ho girato in tondo e sono arrivato al punto in cui ero dopo aver viaggiato. Non devo ricominciare a interrogarmi, interrogando un Antonio che, come S. ma per altre ragioni, non vorrebbe rispondermi. O riesco a scoprirlo da solo, o non lo scoprirò mai. E oggi, nel mio circolo, percorso in tutte le direzioni, so perlomeno dove si trova il muro e dove il limite. Nessuno lo oltrepassa, se non lo conosce. È la differenza tra il circolo e la spirale.

Come mi aspettavo. Dal portone dell’ala nord mi hanno mandato all’ala sud. Ho compilato la scheda e aspettato circa un’ora. A piacer loro, mi hanno chiamato. Non ho superato il corridoio. Un poliziotto giovane, quasi imberbe, mi ha ricevuto con gentilezza fredda, impersonale, e ha confermato che, non essendo un famigliare, non potevo vedere il prigioniero. Ho domandato se Antonio stesse bene, non mi ha risposto. Ho domandato se la famiglia fosse stata avvertita, ha risposto che la cosa non mi riguardava. E ha aggiunto: “Il fatto che lei venga qui asserendo di essere amico del prigioniero, non prova neppure che lo conosca. Capisce bene come io non possa darle alcuna informazione. Desidera altro?” Mi ha accompagnato alla porta. Me ne sono andato, senza guardarlo e senza dire una parola. Ho seguito il percorso irregolare, fino allo spiazzo di fronte al portone dell’ala nord dove avevo lasciato l’automobile. Ho aperto la portiera, mi sono seduto, ho afferrato il volante con tutta la mia forza, sentendomi umiliato fino alle ossa. Attraverso il parabrezza vedevo la guardia repubblicana nella garitta e, sopra, lungo il muretto, altre due guardie armate di fucile. Era quella, Caxias Un edificio imponente e alto sulla destra, finestre con le grate, celle che non sapevo come fossero, ore e ore di interrogatori, manganellate, giorni e notti di fila senza dormire, il supplizio della statua fino a che i piedi fanno saltare i lacci delle scarpe: cose di cui avevo sentito parlare e che Antonio, adesso, avrebbe conosciuto per esperienza. Ho fatto manovra con la macchina e sono sceso lentamente fino all’autostrada. Ero deciso. Il giorno dopo mi sarei recato a Santarém e non mi sarei dato per vinto né me ne sarei andato via finché non avessi trovato i genitori di Antonio. Era il minimo che potessi fare.

Non è stato necessario andare. Il pomeriggio stesso, sul tardi, potevano essere le sette, il telefono ha squillato. Ho pensato che fosse Chico, per quanto lo avessi già informato della mia visita a Caxias. Ho alzato il ricevitore e detto il mio numero. Ho sentito una voce di donna: “Sono la sorella di Antonio. Vorrei parlarle personalmente. È possibile?” In mezzo secondo, mi sono chiesto se Antonio ci avesse mai parlato di una sorella. Forse si, tanto tempo fa, di sfuggita, come di sfuggita aveva accennato ai genitori. Le ho risposto: “Certamente. Sono a sua disposizione. Dove preferisce che ci incontriamo? Posso uscire anche subito. O forse chiama da Santarém?” Da parte sua non c’è stata alcuna esitazione: “Sono a Lisbona. Trova sconveniente parlare a casa sua?” “Nient’affatto. Quando vuole venire? Adesso?” “Si, adesso”. “La aspetto”. Stavo per posare la cornetta quando all’improvviso ci ho pensato: “Pronto? Pronto? Si annoti il nome della strada”. E lei, semplicemente, ha risposto: “Non ce n’è bisogno. Ho il suo indirizzo”.

Ho posato il ricevitore, un po’ meravigliato per la visita imprevista. Ero contento perché avrei avuto notizie di Antonio, ma ho scoperto che, oltre alla contentezza, c’era un po’ di nervosismo, come si poteva evincere dall’agitazione, dalla premura con cui mi accingevo a riordinare in tutta fretta la casa, a togliere ivestiti sparpagliati sulle sedie, a sprimacciare i cuscini del divano per gonfiarli. Volevo che la casa fosse in ordine. Ho messo asciugamani puliti in bagno, nascosto con una plastica il mucchio di stoviglie sporche che si trovavano in cucina. E dopo aver fatto tutto in un baleno, mi sono dovuto sedere con un libro, guardandolo, credo leggendolo. Era un’opera su Braque, l’unica cosa di cui sono certo in questo momento.

Adesso sono le due di notte (del mattino, o dell’alba, per chi si alza presto) e sono appena rientrato. Ho accompagnato la sorella di Antonio a casa del fratello, dove passerà la notte. Abbiamo trascorso insieme più di sei ore e credo di doverla chiamare M.: diciamo che è una premonizione, o un desiderio indefinito, o un augurio, o la semplice superstizione dei gesti propiziatori. Scrivo lentamente, scrivo dopo sei ore di dialogo, ma non mi è possibile, e probabilmente non ci riuscirei, esprimere, come se vissuti in quell’istante, sentimenti ed emozioni che si presenteranno qui ordinati, classificati non direi, ma passati di mano in mano e disposti secondo il peso, la densità e (giacché non ho smesso di dipingere) il colore. È quello che ho continuato a fare per duecento pagine e che, forse, per duecento pagine ho fatto. Altrimenti non ne sono capace, e se mi sono lanciato a scrivere è stato proprio per darmi il tempo di pensare, per pensare con un po’ di tempo. Nascere, vivere, morire, sono verità universali e sequenza naturale. Se vogliamo trasformarle in verità personale e sequenza culturale, dobbiamo scrivere molto di più di quei tre verbi, in quell’ordine disposti, e ammettere che tra i due estremi di un nulla e un nulla, il vivere possa racchiudere in sé certe nascite e certe morti, non solo quelle di coloro che in qualche modo ci possano toccare o riguardare, ma tante altre, anch’esse nostre: simili alla pelle del serpente, anche noi cambiamo pelle quando non vi rientriamo più, oppure ci vengono a mancare le forze e ci atrofizziamo, ma questo capita solo agli esseri umani. Una pelle vecchia, risecchita, sgretolabile, ricopre queste pagine con quelle pellicole bianche e nere che sono le parole e gli spazi fra una parola e l’altra. In questo momento, direi che sono scuoiato come San Bartolomeo, immagine, non dolore. Possiedo ancora qualche residuo di pelle vecchia, ma sulle fibre muscolari e sui tendini già si distende una sottile rete, la prima metamorfosi del mio baco da seta personale che, nel bozzolo, suppongo, troverà una vita nuova e non la morte. Non mi sembra apprezzabile lo stato di crisalide: la sua inaccessibilità in quanto tale contraddice la continuità che rappresenta, per me, il flusso vivo. (Eppure la crisalide vive).

Una porta costituisce un’apertura e, al tempo stesso, ciò che la chiude. Nei romanzi e nella vita, uomini e personaggi consumano una parte del loro tempo entrando e uscendo dalle case e da altri luoghi. È un’azione banale, penseremmo, un movimento di solito non degno di alcuna nota o di particolare registrazione. Che io ricordi, solo il più letterario dei pittori (Magritte) ha osservato la porta e il passaggio attraverso di essa con occhi sorpresi e forse inquieti. Le porte di Magritte, aperte o socchiuse, non garantiscono mai che al di là vi si ritrovi ciò che vi abbiamo lasciato. Ci siamo stati prima ed era una camera da letto; l’attraverseremo di nuovo e sarà uno spazio aperto e luminoso, con nuvole che passano lentamente in un azzurro pallido, serenissimo. Lo strano è che la letteratura (ho visto tanti quadri, è vero, ma ho anche letto tanti libri) non ha dato una grande importanza alle porte, a quell’insieme di grandi tavole o lastre mobili, a quei coperchi che, in verticale, si burlano della gravità. Ma è strano, soprattutto, che si consideri insignificante quello che io definisco lo spazio instabile incorniciato dalla porta. Eppure, è proprio lì che i corpi passano e che si fissano gli sguardi.

È lì che ho visto la sorella di Antonio. Mi credevo vigile, ma non l’ho sentita salire per le scale. Lo squillo breve e improvviso del campanello mi ha fatto sussultare, abbandonare il libro, desiderare puerilmente, mentre attraversavo l’atelier, che la copertina fosse rimasta all’insù, e poi aprire e spalancare la porta. Un movimento composto, eseguito senza pause. E adesso la brevissima interruzione, il tempo di spezzare l’invisibile pellicola che ricopre il vano della porta, il tempo dell’istantanea esitazione dei piedi sulla soglia, il tempo perché si cerchino e s’incontrino gli occhi che arrivano e gli occhi che stavano aspettando. Un uomo e una donna. Lo ripeto: questo lo sto scrivendo dopo qualche ora, quanto è successo lo sto raccontando dal punto di vista dell’accaduto. Io non descrivo, ma ricordo e ricostruisco. Sovrappongo l’ultima sensazione tattile alla prima, e questa, così ricostruita, viene riproposta su un altro piano: ho salutato M. poco fa con una stretta di mano, o forse no, forse l’ho accolta con una stretta di mano. Fra questi due gesti c’è stata, direi, una sorta di uniformizzazione. Il tempo trascorso fra questi due gesti viene considerato, quindi, come un solo istante e non come una successione giustapposta di ore, piene o magari non tanto, fluide o dense, lente o, al contrario, scattanti. Ecco perché questo racconto sembra racchiudere qualcosa in meno e qualcosa in più. E non si saprà mai che cosa realmente abbia racchiuso il tempo qui compresso.

M. è rimasta lì, sulla soglia, immobile a guardarmi. Per prima cosa ho visto gli occhi: chiari, gialli, dorati, o fulvi, grandi e spalancati, fissi su di me come finestre affacciate non so se più verso l’interno o verso l’esterno. I capelli, corti, del colore degli occhi e, poi, sotto la luce elettrica, un po’ più scuri. Il viso triangolare, dal mento sottile. La bocca fremente lungo tutto il contorno grazie a una linea inattesa di minuscoli puntini che, mentre lei parla, cambiano incessantemente di tonalità. Il naso affilato, disegnato rigorosamente. Di un palmo più bassa di me. Il corpo sinuoso. La vita sottile, da adolescente, sopra fianchi già da donna. Quarant’anni, uno più uno meno. Forse è troppo per chi afferma di avere visto tutto nel tempo impiegato a varcare una soglia, a entrare, a fermarsi un attimo in piedi e poi a sedersi, mentre poche parole distraggono l’osservazione; in quell’istante per tanti motivi incapace di precisione. Ricordo, però, che sono seguite sei ore di sguardi, di parole, di pause: è stato nel ristorante, per esempio, che mi sono accorto di quell’insolita palpitazione delle labbra, e del resto, a casa mia, la penombra pomeridiana non mi avrebbe permesso di scorgerla immediatamente.

Ha ripetuto le parole che aveva pronunciato prima al telefono: “Sono la sorella di Antonio”. E ha soggiunto: “Mi chiamo M.”. Ho spalancato la porta per farla entrare. Mi sono presentato. “Mio fratello mi ha parlato di lei”. “Davvero?” , e questo mi ha stupito più di quanto dessi a vedere mentre l’accompagnavo fino al mio vecchio e consunto divano. “Vuole bere qualcosa?” Mi ha risposto di no, che beveva di rado. “Suppongo abbia voglia di chiedermi come mai sia venuta a casa sua, e non lo fa per non sembrare indelicato”. Ho disegnato nell’aria un gesto intraducibile a parole, ma che voleva dire proprio quello, o almeno la prima parte. “Tanto tempo fa, Antonio mi ha detto che se gli fosse successo qualcosa, se fosse stato arrestato, come è capitato adesso, dovevo cercarla. Ecco perché sono qui”. Come posso esprimere ciò che ho provato? Dirò così: che le linee del mio diagramma relazionale (esiste la parola?) hanno oscillato e si sono spezzate, hanno tentato di ristabilire i collegamenti nei punti di rottura, alcune ce l’hanno fatta, altre sono rimaste lì a vibrare, staccate, cercando nuovi appigli. “Ma io non credo che mi sia possibile aiutarla granché. Anche oggi”. E lì mi sono interrotto, mentre pensavo alla faccia imberbe e fredda dell’agente. “Anche oggi sono andato a Caxias e non ci ho cavato niente”. “È andato a Caxias? Ci sono stata anch’io. Non mi hanno lasciato vedere Antonio. Solo mercoledì della prossima settimana. Forse, a quanto mi hanno detto”. “Solo mercoledì? A me hanno risposto che non avevano alcuna informazione da darmi. Né alcun obbligo”. “Sappiamo tutti che obblighi, loro, non ne hanno. Fanno quello che vogliono. Ci hanno avvertito a Santarém soltanto ieri. E Antonio l’hanno arrestato quattro giorni fa”. M. non si era appoggiata sui cuscini del divano, ma non mostrava alcun segno di tensione o di nervosismo. “Antonio e io siamo amici, ma non ci siamo visti spesso negli ultimi tempi. Quello che lei mi ha detto poco fa mi ha stupito, devo confessarlo”. “Che dovevo cercarla, se fosse successo qualcosa?” “Sì”. “Avrà avuto i suoi motivi. Ma c’è un’ipotesi che a questo punto devo accantonare. Lei mi ha detto che non ha visto Antonio”. “È vero”. “Allora non c”era alcun legame politico fra voi”. “Nessuno”. M. mi ha fissato lungamente, come chi valuta un’equazione prima di tentarne la risoluzione, o un modello prima di dare la prima pennellata. “In tal caso, mio fratello mi avrà detto di cercare lei per quello che è”. Ho sorriso. “A quanto pare, sì, per quello che sono. Scusi se è poco”. Ha sorriso anche lei. (M. non sorride come tanti altri, che schiudono lentamente le labbra, sforzandosi. Il sorriso di M. si apre all’improvviso, e poi ci vuole tempo perché si spenga: lei sorride come un bambino per cui le cose meravigliose che lo fanno sorridere continuano a essere meravigliose anche dopo il sorriso e lui, perciò, continua a sorridere. Anche se io, in questo passaggio spettatore, non devo includermi nella categoria). “La ringrazio tanto. Ha fatto più del suo dovere. È andato a Caxias, ha tentato. Credo che mio fratello avesse ragione”. “Se posso esserle utile, in qualsiasi modo, conti su di me. Non voglio deludere Antonio”. Questa volta è stato bellissimo, abbiamo sorriso insieme. Poi mi è venuta in mente la prigione, ho immaginato che cosa stava succedendo e mi sono sentito male. “Che impressione le fa che abbiano arrestato suo fratello Antonio?” le ho domandato. Ha congiunto le mani sulle ginocchia. “Nessuna impressione in particolare, il dispiacere, certo, la preoccupazione, certo. Ma mi sforzo di pensare solo che Antonio sta vivendo alcuni dei suoi giorni in un altro posto, che questi giorni, pochi o tanti, fanno anch’essi parte della sua vita e che quello è uno dei luoghi possibili nella vita di ciascuno di noi”. Lo ha detto con tono assai deciso, ma non forzato, come se il peso delle parole escludesse di per sé gli artifici della pronuncia. “Lei ha parlato di ciascuno di noi. Io sono un cittadino comune, senza alcun peso politico, non sarò certo incluso nella sua generalizzazione”. “Lo siamo tutti. Lei è amico di Antonio, è andato a Caxias, a quest’ora la polizia starà già pensando di scoprire altro sul visitatore. E se non ha ancora cominciato, poco ci manca. Io sono la sorella di Antonio, sono andata a Caxias, mi trovo qui a casa sua, forse mi hanno pedinata”. M. accennava adesso un mezzo sorriso: “Come vede, tra la libertà e il sospetto, tra il sospetto e l’arresto, le distanze sono brevi, ma non dobbiamo preoccuparcene troppo. La polizia non può mica arrestare tutti quelli di cui sospetta. D’altronde, il regime fascista ha trovato una maniera buona e semplice per risolvere questo problema. Caxias è solo una prigione nella prigione più grande che è il paese. È la realtà, come vede. In genere, i sospetti si muovono tranquillamente nella prigione più grande; quando diventano pericolosi, passano nelle prigioni più piccole: Caxias, Peniche e tanti altri luoghi meno conosciuti. Ecco tutto”. La cosa che mi impressionava era la semplicità. Mi sono alzato, ho acceso le luci e sono andato a preparare un whisky per lei e un altro per me, mettendovi del ghiaccio che avevo preparato nel cestello, distratto, senza pensare che M. aveva detto che beveva solo raramente. Nel porgerle il bicchiere, mi sono reso conto dell’assurdità (non sapevo neppure se le piacesse il whisky), ma lei lo ha preso con naturalezza e lo ha portato immediatamente alle labbra. Ho bevuto anch’io. “È mai stata arrestata?” “Si”. “Molto tempo fa?” “Alcuni anni fa. Due volte. La prima, per tre mesi; la seconda, per otto”. “Com’è stato?” “Non certo bello. Ma c’è chi ha motivo di lamentarsi molto di più”.

Poi c’è stato un lungo silenzio. Il mio diagramma relazionale aveva recuperato la sua stabilità, ma certe linee si erano disposte in maniera diversa. In mezzo, si muoveva una spirale, girando su se stessa, oscillando da un lato e dall’altro, quasi alla cieca, come un rotifero in una goccia d’acqua. Lo vedevo in pittura, e non appena l’ho visto ho avuto un sussulto: era un quadro astratto che si definiva dentro di me, Ho pensato: “Un rotifero non è astratto, anche se preferisco considerarlo tale quando lo ingoio con un sorso d’acqua”. Mi sdoppiavo fra quest’inezia e l’espressione attenta che rivolgevo a M. È un metodo che uso spesso, ma in questo caso mi sembrava un po’ sleale. Avevo l’impressione che il silenzio si prolungasse troppo e ho pensato di interromperlo, ma lei mi ha preceduto: “Antonio mi ha detto che è pittore”. (Ah, questa lingua, così spesso incapace di precisione, se non stiamo costantemente all’erta. Antonio è architetto, il pittore sono io). Ho risposto: “Non esageriamo. Per essere pittore, non basta dipingere. Per essere scrittore, non è sufficiente scrivere. Antonio lo sa bene che tipo di pittore sono. Che specie di pittore sono stato. Dipingo ritratti per gente che li può pagare bene. Questa non è pittura”. “Perché ha un soggetto definito, o perché è ben pagata?” L’ho guardata con fermezza. Era il mio turno: “,Perché è cattiva pittura”. M.. si è guardata intorno: tranne alcuni vecchi studi, qualche natura morta, qualche riproduzione di buona qualità che vale la pena di guardare, sulle pareti ci sono solo i signori di Lapa e il quadro che ho imitato da Vitale da Bologna. “Non posso giudicare, e non sono un’esperta. Ma quel quadro [i signori di Lapa], non è suo?” “Si, lo è”. “Mi sembra un buon quadro”. “Pare anche a me. Ma non è finito. i clienti non l’hanno voluto”. All’improvviso, mi è venuta in mente la scena della mia cacciata dal palazzo di Lapa, con la tela penzolante, preoccupato di non sciuparla, e sono scoppiato a ridere. Si è messa a ridere anche M., per simpatia. “Che cosa l’ha fatta ridere? Posso saperlo?” Certo che poteva, non aspettavo altro. Le ho fatto un racconto dettagliato dell’episodio, partendo non tanto dalla situazione reale, ma dalla descrizione fatta in queste pagine. “In realtà, li ha perduti l’avarizia. La soluzione poteva essere di lasciarmi finire il ritratto, pagarlo (ma era proprio quello che volevano evitare) e poi distruggerlo. così ci ho guadagnato io: non ho perduto un quadro che mi piace”. Ci siamo divertiti entrambi pensando al lato ridicolo dell’episodio. Un nuovo silenzio, ma diverso: per la prima volta mi è sembrato (quanto a me, ne ho la certezza) che ci fossimo incontrati uomo e donna, ciascuno consapevole del proprio sesso e di quello dell’altro. Lei si è sollevata e ha posato il bicchiere semivuoto, raddrizzandosi quindi sul divano (parlando si era appoggiata), ed è rimasta lì a guardare il cubetto di ghiaccio sciogliersi sul fondo. “Ne vuole un altro?” ho domandato. Ha scosso la testa. Ha alzato gli occhi verso di me, molto lentamente: “Se ho ben capito, questo quadro è diverso da quelli che dipingeva”. “Molto”. “Perché?” “È complicato spiegarlo. Questi ultimi mesi sono stati mesi di grande riflessione. Ho pensato tanto, ho preso appunti, e quando si è presentato questo lavoro, ne è venuto fuori quel che vede. Sono stato umiliato ben bene, credo”. “E adesso, che cosa farà? Tornerà alla sua vecchia pittura?” Ho risposto d’impeto, con una brutalità inopportuna, ma che non ho potuto evitare: “No”. La nuvola bianca sullo sfondo azzurro era entrata e uscita. Eravamo di nuovo sereni. M. ha detto: “Credo che faccia bene. Ma dovrà pur campare”. “Ho trovato lavoro in un’agenzia pubblicitaria. Al solito. Dove sta Chico, non so se Antonio gliene ha mai parlato”. “Mai. Non lo conosco”. (Ma le aveva parlato di me: sconcertante Antonio). In questo momento, non so più che cosa dipingere. Lascerò che il tempo passi, e poi vedrò. Almeno, lo spero”. “E quel quadro li, che cos’è?” “È un gioco, suggeritomi da un quadro di un pittore italiano del Trecento. Quello della cartolina”. Di nuovo ci siamo trovati in silenzio. Allora M. si è alzata. Si è alzata come una bestiola, un gatto, uno scoiattolo, o un castoro, quasi sgusciasse fuori da se stessa: è la strana impressione che mi ha dato. In ritardo di un secondo, sono rimasto lì seduto a guardarla, entrando in agitazione. Se ne sarebbe andata via? “Bene. Ormai l’ho conosciuta. Devo andarmene”. A quel punto mi sono alzato, scoprendo che di lei non sapevo nulla, che volevo saperne di più e che non potevo lasciarla andare. “Ma ritorna subito a Santarém? Senza sapere nient’altro di Antonio?” “A Santarém, ci vado domattina. Stanotte mi fermo a casa di mio fratello. Una chiave di casa sua la teniamo sempre noi”. “Allora che bisogno c’è di andarsene via subito? Ormai mi ha conosciuto, dice. Non mi sembra logico che ci si separi subito dopo essersi conosciuti, e tantomeno che ci si separi perché ci si è conosciuti. Non mi capita spesso di avere ragione, ma questa volta deve convenire con me che non c’è nulla da obiettare. Vuole cenare con me?” Mi è uscito così, imprevisto. E neppure io lo sapevo, quando avevo iniziato a parlare. La spontaneità, in me, è una rarità. M. ha avuto un attimo di esitazione, o è stato solo il movimento per prendere fiato, e mi ha risposto: “Sì”.

Ne abbiamo convenuto entrambi che era giusto l’ora di cena. Due minuti dopo eravamo già per le scale. Lei scendeva davanti, con la testa leggermente inclinata per non perdere di vista gli scalini che non conosceva, mentre io le vedevo la nuca snella, molto sottile, delicata da stringerti il cuore. Mi sono commosso proprio come un bambino, non come un uomo. Lei scendeva senza fretta, con una sorprendente densità flessuosa. I tacchi delle scarpe (una mia vecchia ossessione) risuonavano in maniera regolare, giusta, non eccessiva. Proporzionata, ecco come la definisco adesso. In fondo alle scale, in un angolo dove la luce era ridotta, ho allungato due dita, il pollice e l’indice, verso la sua nuca. Sapevo che l’avrei toccata, e non l’ho toccata, ma le mie dita si sono accertate della distanza: tanto poca, tanta.

Per farla breve, abbiamo cenato e l’ho accompagnata fino alla porta della casa del fratello. Ma era stata una cena lenta e loquace, dopo di che avevamo girato lungamente per la città, chiacchierando quasi ininterrottamente. Non le ho parlato di queste pagine, ma di qualcosa di cui vi si parla. Quanto a lei, sono venuto a sapere che si è sposata presto e poi separata, dopo neppure quattro anni. Non ha figli. Vive a Santarém con i genitori dall’età di undici anni, quando, per ragioni dovute alla professione del padre, la famiglia aveva dovuto lasciare Lisbona. Antonio è più vecchio di due anni. Non si è laureata, lavora presso un avvocato. Viene di rado a Lisbona. “Il mio lavoro è tutto lì”, ha detto con tono vago, ma insieme particolare. Tranne poche parole sulla situazione del fratello, non abbiamo più parlato di politica. Aveva pagato la sua parte della cena con una. naturalezza che non avevo osato neppure tentare di controbattere. Quando ha capito che mi accingevo a pagare il conto, mi ha fissato per un paio di secondi (un paio di secondi di un suo sguardo sono poco, e troppo tempo insieme) e mi ha chiesto, senza alterare la voce: “Perché?” Mentre cercavo una risposta (che non ho trovato), lei ha aperto la borsa e ha messo i soldi sulla tovaglia. Ci siamo salutati davanti alla porta della casa di Antonio. Le ho domandato: “Quando la rivedrò?” E lei ha risposto: “ Mercoledì. Appena posso, le telefono”. Dimentichi della formalità della stretta di mano, ci siamo dati entrambe le mani. Non a lungo, appena il tempo di sfiorarci. “Buonanotte”, ho detto. “Buon lavoro”, ha risposto lei, sorridendo.

Non è da Lisbona che M. ha telefonato, ma da Santarém. E non il mercoledì, ma il martedì sera. Ho risposto, impreparato, pensando a qualche direttiva di Chico per il giorno dopo, oppure a una ricaduta di Carmo, o a una sfuriata di Sandra. O magari a una proposta di lavoro di qualcuno che non vivesse in questo mondo. Quando ho sentito la voce, ho provato una brusca contrazione (o un’espansione? O una semplice scarica nervosa?) al plesso solare, il cuore è balzato a centodieci pulsazioni al minuto, o giù di lì. Veniva mercoledì, come si era d’accordo, ma non da sola. I genitori l’avrebbero accompagnata, casomai Antonio potesse già ricevere visite. Mi chiedevano tutti un favore (ho capito, da questo, che M. aveva parlato di me ai suoi genitori: l’amico di fiducia di Antonio), se non mi dispiaceva, se non mi distoglieva dal lavoro, e cioè di accompagnarli a Caxias. Sarebbe stato un bene per i genitori, preoccupati per il figlio. “Non sono più giovani. Sopportano meno bene certe cose”. A tutto ho risposto di sì, sorridendo, anche se ovviamente non ce n’era motivo. Abbiamo stabilito il luogo e l’ora dell’incontro. Arrivavano in treno. “E per il pranzo?” ho domandato. Non era importante: avrebbero pranzato prima a Santarém. Abbiamo parlato ancora un po’, e la conversazione si è avviata alla fine. “La ringrazio molto”, ha detto lei, con la sua voce chiara e franca. Sono rimasto lì con il ricevitore in mano, di nuovo sorridendo, con un’espressione indefinita, forse felice.

Non ho scritto negli ultimi giorni perché non voglio trasformare queste pagine in un diario. Se lo fossero, avrei annotato che tutte le ore trascorse da sveglio le ho passate ripensando all’incontro con M., leggendo che cosa di questo incontro ho scritto. È evidente una certa esagerazione, ma, guardando indietro, non vedo altra attività dello spirito che mi abbia occupato di più. Ho pensato di elaborare ciò che dell’incontro è solo una sorta di riassunto, ma sarebbe la prima volta che lo farei da quando ho cominciato a scrivere. Ho preferito non alterare neppure una riga. E finalmente, oggi, dico che M. mi interessa. Ma che cosa vuol dire un uomo quando lo dice di una donna? In genere, che è interessato ad andarci a letto. Che cosa dico io? Dico di sì. E vero, voglio andare a letto con M. Necessariamente perché io sono un uomo e lei una donna? No. Donna lo è anche Sandra, e non è certo male, ma non mi ha mai fatto ribollire così, sin nelle fibre più intime del mio corpo. M. mi interessa perché ho trascorso ben sei ore a parlare con lei e non mi sono stancato né ho desiderato il silenzio. M. mi interessa perché ha un modo di parlare in linea retta, un modo di parlare che non aggira gli angoli, che attraversa i muri e la resistenza della pelle o le prudenti riserve mentali. M. mi interessa perché è una bella donna e perché è intelligente, o viceversa. Insomma: M. mi interessa. Vent’anni fa, avrei scritto subito amore là dove adesso metto interesse. Con l’età, impariamo a badare alle parole. Le usiamo male, le indossiamo al diritto e al rovescio, senza guardare, e un giorno le ritroviamo logore come un vestito vecchio e ce ne vergogniamo, come ricordo di aver provato vergogna per un paio di pantaloni che usai e dovetti usare, con l’orlo sfilacciato, che tutte le settimane pareggiavo con le forbici, prudente, attento a non tagliare poco di più o poco di meno. Credo che, in queste pagine, un po’ di attenzione ho dimostrato di averla per le parole, quali che siano state. Prima, a stento avevo bisogno di scrivere amore, e, quando l’ho fatto, non si trattava certo di me, o solo di una parte. Adesso che sono io (tutto) in causa, come potrei non prestarvi attenzione? Arriverei al punto di mascherare la parola, se ne valesse la pena. Come negli anagrammi che si facevano da bambini, ne farei altre parole: roma, ramo, ornar, mora, quasi a circondarla di fuscelli perché la parola vera possa crescere e infine sbocciare. Tutto considerato, però, voglio dire chiaramente amore e spero che si avveri.

All’ora stabilita, ero davanti alla stazione di Santa Apolónia. Ho aspettato per quasi venti minuti (di ritardo) e finalmente ho visto spuntare M. con i genitori. Dubito che le persone siano capaci di usare, come si dice giustamente, i sensi: quanto alla vista posso dirlo io, che, ansioso di vedere i genitori di M., mi sono accorto di loro solo quando ormai erano tutti e tre davanti a me, o io davanti a loro, nel caso mi fossi mosso io. M. mi ha presentato come il signor Tal dei Tali, amico di Antonio, ho stretto due mani rugose, ho visto infine i due visi stanchi (seri, non tristi) e ho lasciato che i miei occhi cedessero alloro naturale desiderio. M. era proprio lì vicino, gli occhi trasparenti sotto la luce inclemente del pomeriggio, la bocca palpitante. Il mio plesso solare ha registrato di nuovo quel colpo. Naturalmente, abbiamo parlato. Di tutto, di Antonio, dell’arresto, del regime, della situazione nel paese (da notare: la madre e il padre parlavano con sicurezza e a ragion veduta), abbiamo parlato mentre guidavo per la Baixa, in Avenida da Liberdade. M. era seduta accanto a me, tranquillamente appoggiata al sedile, e si girava appena, di tanto in tanto, per parlare con i genitori. Una coppia davanti, una coppia dietro. Ho tirato un respiro profondo, sentendo immediatamente aumentare il vigore nelle braccia e nelle spalle, e una tensione al basso ventre. Non mi sono rimproverato, non ho accettato l’ipocrisia di biasimarmi perché dietro di me c’erano due vecchi preoccupati per la sorte del figlio. Loro erano sereni, come serena era la figlia. A un semaforo rosso, mi sono girato all’indietro per prestare maggiore attenzione a quanto diceva la madre, e mi sono ritrovato davanti agli occhi due signori di Santarém, accanto ai quali i miei signori di Lapa erano delle caricature (mi riferisco ai veri signori di Lapa, in carne e ossa, perché i signori del ritratto sono già una caricatura della caricatura che in realtà essi sono). Eravamo entrati in autostrada e ho accelerato: non volevamo arrivare in ritardo, non volevamo dare a quei signori alcun pretesto per rifiutarci l’ingresso. Abbiamo svoltato per la strada del carcere, sotto gli eucalipti. Dal finestrino aperto entrava l’odore caldo degli alberi, quell’odore di cannella e peperoncino che ti apre i polmoni e ti dà le vertigini. All’inizio della salita, ho udito, dietro, il padre di M. dire: “È tutto uguale”. Gli ho chiesto: “Anche lei è stato qui in prigione?” “No, ma siamo venuti a trovare nostra figlia”. Mi sono girato verso M. Era un po’ arrossita. Quel rossore da bimba non glielo conoscevo ancora. In quel momento, l’ho amata.

Siamo arrivati al terrapieno davanti all’ingresso. Ho posteggiato la macchina, aperto le portiere. La madre ha detto: “Non la incomoda aspettarci? Faccia lei”. “Aspetterò quanto ci sarà bisogno. Mi spiace solo non poter fare di più”. Si sono allontanati in direzione del portone, fianco a fianco, la madre in mezzo. La guardia repubblicana della garitta li ha interpellati e ha risposto M. Non potevo sentire che cosa dicevano. Sono rimasto lì ad aspettare. Solo per un attimo, M. si è voltata verso di me e ha sorriso. Ho sollevato la mano, non come chi si congeda, ma come chi sta arrivando. Poco dopo, il portone si è aperto e loro sono scomparsi. Mentre aspettavo (quaranta minuti d’orologio), sono arrivate altre persone. Si ripeteva la scena della discussione attraverso la feritoia della garitta alta, l’attesa, e poi l’ingresso in un portone che sembrava aprirsi di malavoglia, una fessura appena, in cui s’introducevano le persone, quasi schiacciate. Ho girato intorno alla macchina, sono andato a sedermi sul bordo di mattoni di un’aiuola piena di robbie secche. Trascorso qualche minuto, mi sono alzato e mi sono avviato verso la garitta: la guardia repubblicana stava parlando al telefono, ascoltava, rispondeva. Mi ha guardato dalla penombra, poi si è accostata alla feritoia: “Desidera qualcosa?” “No, sto aspettando delle persone che sono entrate”. “Lei non può stare qui, vicino al portone. Si allontani”. Ho girato le spalle, senza rispondere. Figlio di puttana.

Quando M. e i genitori sono usciti, ero in macchina e ascoltavo la radio. Le sono andato incontro. La madre aveva gli occhi rossi e umidi, ma erano lacrime di quell’istante, dopo l’uscita, forse dopo aver varcato il portone. Il mento del padre sembrava di sasso. M. era pallida. “Allora?” ho domandato. Una domanda inutile, ma che altro potevo dire? Siamo montati in macchina. “Andiamo”, ha detto M. a bassa voce. Sono partito adagio, ho costeggiato il muro e imboccato la discesa su quella strada tutta buche (intenzionalmente in cattivo stato, credo, per rendere difficili eventuali fughe in automobile, ritardarle, avere tempo di far fuoco) che ormai mi stava diventando familiare. “L’hanno picchiato”, ha detto M. “Ci ha fatto capire che l’hanno picchiato, ma che non ha parlato”. “Figlio mio”, ha mormorato la madre. “Raccontate. Come l’avete trovato? Ha mandato qualche messaggio per gli amici?” Con la coda dell’occhio, ho colto il fugace sorriso di M. “Messaggi per gli amici., no. Ma mi ha detto di non dimenticare di chiamare il pittore per ripulire il gabbio. Gli ho risposto che l’avevo già chiamato, di star tranquillo Chi non avrà gradito molto la conversazione, è l’agente. Avrà pensato che stessimo parlando in codice”. Siamo scoppiati tutti a ridere “Antonio”, ho mormorato io. Non ti dimenticare di chiamare il pittore per ripulire il gabbio: che cosa avrà pensato di me quando le ha fatto questa raccomandazione? Il pittore, io, quello del quadro ricoperto di colore nero, quello che tanto tempo prima era stato scelto per questa eventualità, casomai si fosse avverata?

M. mi ha spiegato che il giorno dopo, verso sera, qualcuno sarebbe venuto a casa mia, un impiegato delle ferrovie, con un pacco di biancheria e oggetti d’uso personale, insieme a qualche libro che Antonio era autorizzato a ricevere. Mi pregava di portarlo a Caxias il giorno dopo e consegnarlo al portone. Stavolta non mi ha domandato se mi disturbasse quel trasporto. È stata una raccomandazione più che una richiesta. Meglio così. Nella Baixa, ho fatto una domanda: “Volete riposarvi un po’ a casa mia?” M. ha guardato l’orologio e ha risposto: “Non credo che ci sia tempo”. Ha sorriso. “Solo per salire quei quattro piani”. Era chiaro che i genitori erano al corrente che era venuta a trovarmi. Mi confondeva un po’ questo rapporto trasparente: solitamente si tiene riservato anche quello di cui non ci sarebbe bisogno, e tra genitori e figli, se ben ricordo, il riserbo è una sorta di regola, mascherata, da una maggiore o minore effusione affettiva, esteriore, destinata a esercitare una funzione direi quasi teatrale. In così poco tempo, per due o tre volte, da quanto era stato detto e sottinteso, mi sono accorto della peculiarità del legame tra M. e i suoi genitori: una disinvoltura che, forse, è l’ultimo stadio del più intimo fra i rapporti, una forma di libertà all’estremo della dipendenza, un albero nato sul limitare della foresta.

Ho posteggiato la macchina nei pressi della stazione e li ho accompagnati all’ingresso. Sono sempre stato sensibile all’assurdità dei commiati da una banchina, quando ormai ci si è detto tutto e non c’è tempo per ricominciare, con un treno che non si decide a partire e un orologio che scandisce gli ultimi secondi: e poi, finalmente, il sollievo della partenza, anche se dopo, scomparsa in lontananza l’ultima carrozza, scoppiano i singhiozzi e spunta quel dispiacere che sembrava non esserci. Il padre mi ha ringraziato per l’aiuto e poi ha detto: “Noi cominciamo a entrare. Non tardare”. M. e io ci siamo ritrovati nell’atrio, un po’ in disparte per evitare la folla. “Mi ha fatto tanto piacere stare con lei”, ho detto io, guardandola in faccia. “Mi ha fatto tanto piacere stare con te”, ha risposto lei. E con un’espressione franca, ma insieme grave, ha alzato il capo, si è sollevata sulla punta dei piedi e mi ha dato un bacio sulla guancia. E senza dire altro, come un viandante che ha salutato e riprende il suo cammino, ha attraversato l’atrio ed è sparita, senza guardarsi indietro. Sono tornato lentamente alla macchina, mi sono seduto. Ci sono momenti così nella vita: si scopre inaspettatamente che la perfezione esiste, che anch’essa è una piccola sfera mobile nel tempo, vuota, trasparente, luminosa, e che a volte (rare volte) ci viene incontro, ci circonda per brevi istanti e poi prosegue verso altri lidi e altra gente. A me sembrava, tuttavia, che questa sfera non mi avesse più lasciato e io mi ci muovessi dentro. È arrivato il momento di avere paura: ho mormorato queste parole. Nell’orizzonte del mio deserto stanno per irrompere persone nuove. Chi sono questi due vecchi, quale serenità possiedono? E Antonio, arrestato, che libertà si è portato con sé in prigione? E poi M., che mi sorride da lontano, calpestando la sabbia con passo impercettibile, che usa le parole come fossero lamine di cristallo e che, d’improvviso, si avvicina e mi dà un bacio? È ora di avere paura, lo ripeto. La perfezione esiste fugacemente. Ma non dura. E tantomeno si mantiene. “Mi ha fatto tanto piacere stare con te”, ha detto M. Puntigliosamente, badando alla calligrafia, scrivo e riscrivo queste parole. Mi sposto lentamente. Il tempo è questo foglio su cui scrivo.

C’è stato un tentativo d’insurrezione militare. Truppe del Quinto Reggimento di Fanteria, di Caldas da Rainha, hanno marciato su Lisbona, ma alla fine sono rientrate. C’è grande agitazione dappertutto. M. mi ha dato una copia del manifesto del Movimento degli Ufficiali. Ne trascrivo la parte finale: “Dichiariamo, fin da ora, la nostra solidarietà attiva verso i compagni arrestati, che non cesseremo di difendere in ogni circostanza. La loro causa è la nostra, anche se possiamo criticarli per la loro impazienza. Quanto hanno scatenato, tuttavia, non è stato inutile. È servito a risvegliare la coscienza di quanti avessero ancora qualche esitazione. È servito a definire con chiarezza gli schieramenti in atto, da cui si traggono lezioni preziose per il futuro prossimo. È servito a rivelare, in maniera brutale, le contraddizioni in cui si dibatte l’esercito e – dal momento che questi è lo “specchio della nazione” – la crisi generale del paese. È servito, infine, a rivelare i metodi cui ricorrono i nostri “capi”, la loro totale mancanza di scrupoli e le alleanze cui ricorrono per tentare di schiacciare e paralizzare un processo ormai irreversibile. In particolare, quanto a quest’ultimo aspetto, tocca a noi denunciare l’ingerenza della PIDE/DGS (che è stata attivata direttamente dal ministro e dal sottosegretario di stato dell’esercito), che ha arrestato tanti nostri compagni e, in un caso almeno, ha forzato la casa di un compagno, verso le cinque del mattino, maltrattando fisicamente, moralmente e psichicamente la moglie e i figli, e compiendo una perquisizione domiciliare senza mandato. Tale interferenza della polizia politica è intollerabile, costituisce un ripugnante attentato ai nostri più che violati diritti, e noi non possiamo permettere che tali fatti si ripetano, minacciando di generalizzarsi e di farci perdere, completamente, la nostra dignità già tanto scossa e il fragile prestigio che ancora ci rimangono. Ma non si sono fermati qui, i nostri “capi”. Hanno chiamato la Guardia Nazionale Repubblicana e l’hanno mandata contro i nostri compagni del Quinto Reggimento di Fanteria, per giunta affidando a quell’arma l’inammissibile e oltraggioso compito di assediare l’Accademia Militare! A sua volta, la Legione Portoghese, rivelando l’esistenza di un apparato militare e poliziesco operante, ha collaborato con la DGS e la GNR, partecipando addirittura al seguito delle forze del Quinto Reggimento di Fanteria al rientro a Caldas da Rainha. C’è forse da aspettarsi che il governo e i “capi militari” abbiano infine trovato nella Legione Portoghese, nella GNR e nella DGS i valorosi combattenti di cui hanno bisogno per proseguire in Africa la loro politica d’oltremare? Compagni dei tre corpi delle Forze Armate: alla luce degli avvenimenti che lo hanno immediatamente preceduto, l’episodio della marcia su Lisbona del Quinto Reggimento di Fanteria ci consente di portare avanti il nostro Movimento con maggiore sicurezza e realismo. Confidiamo, fin da ora, nel vostro spirito di cameratismo e nella vostra solidarietà per i compagni arrestati (quasi duecento tra ufficiali del QP e del Qe, sergenti, caporali della Milizia e soldati), i quali hanno dato al paese e alle Forze Armate una prima prova reale del fatto che non siamo più disposti a tollerare un siffatto stato di cose. Ci appelliamo infine perché ci si mantenga saldi agli obiettivi del Movimento già divulgati. È necessario rimanere uniti e rafforzarci nelle nostre strutture, consapevoli che, se sapremo essere coerenti e lucidi, ben presto raggiungeremo quanto ci siamo proposti”.

M. non poteva rimanere a Lisbona. L’ho accompagnata a Caxias (Antonio è stato interrogato di nuovo, ha dormito quattro giorni, “una piccola dose”, ha commentato M.; ha ricevuto tutto, tranne i libri, che hanno trattenuto) e poi abbiamo fatto un giro per Sintra, che lei conosceva appena. Non abbiamo parlato granché. Ho notato che i suoi silenzi (e, quindi, i nostri silenzi) non sono imbarazzanti: sono soltanto un tempo diverso dal tempo delle parole. Credo che sia possibile (e addirittura desiderabile) stare a lungo in silenzio accanto a lei: un silenzio che è un altro modo di continuare il dialogo. Scrivo la stessa cosa in due maniere diverse, per vedere in quale suoni meglio: l’ho detto, eppure non basta. Non è esatto, però, che non abbiamo parlato granché. Ma scrivere (ecco una cosa che, finalmente, ho imparato) è una scelta, proprio come dipingere. Si scelgono parole, frasi, brani di dialoghi, come si scelgono i colori o si decide la lunghezza e la direzione delle linee. Il contorno disegnato di un viso può essere interrotto, ma il viso è sempre un viso: non c’è pericolo che la cosa contenuta in quel limite arbitrario sfugga attraverso l’apertura. Per lo stesso motivo, scrivendo si abbandona ciò che non servirebbe al testo, anche se le parole hanno eseguito, una volta pronunciate, il loro primo dovere: l’essenziale si preserva in quell’altra linea interrotta che è lo scrivere.

Abbiamo cenato a Sintra. Eravamo già d’accordo che l’avrei accompagnata a Santarém. Abbiamo fatto due passi nella Piazza del Palazzo. Faceva fresco, e io ho ripetuto quell’immemorabile gesto mascolino: le ho messo il braccio intorno alle spalle. Lo volevo fare fraternamente, e così è stato, ma quanto di fraterno lì non c’era mi sono reso conto che passava e si manifestava in quella pellicola di calore che ci separava e ci legava. Con la mano sinistra, M. ha preso la mia mano destra, che le cingeva le spalle, e così ci siamo avviati alla macchina. Era ormai buio. Quando abbiamo lasciato la cittadina, dentro il tunnel degli alberi disegnati dai fari, foglia dopo foglia, lei ha ripetuto: “Mi piace stare con te”. Non credo si possano rivolgere a qualcuno parole piú belle, e non so quali altre parole si vorrebbe poter udire. Che cosa dovevo fare? Imboccare la prima traversa, spegnere i fari, stringerla a me, eccitarla, scomporle la gonna, sbottonarle la camicetta. Una squallida avventura. Come se stesse leggendomi nel pensiero, scoprendo le mie intenzioni, M. mi ha detto: “Non dobbiamo avere fretta”. E io le ho risposto: “Non ho fretta”. La strada, adesso, era tutta diritta e potevo accelerare, ma non era al viaggio che intendevamo riferirci.

Abbiamo riparlato, poi, del fratello e dei genitori. “L’altro giorno mi hai detto che il tuo lavoro si svolge tutto a Santarém. Non è una frase normale. Che cosa vuol dire quel “tutto”?” Lei ha sorriso: “Hai buona memoria”. “Non c’è male, ma in questo caso è anche migliore, perché ho scritto la tua frase, parola per parola”. M. non ha aperto bocca. Abbiamo attraversato un paesino. Le luci della strada si riflettevano sui nostri visi mentre passavamo. E quando siamo ripiombati nell’oscurità della campagna, M. ha iniziato a raccontare. “Lavoro nello studio di un avvocato. Ci siamo trasferiti a Santarém per i motivi di cui ti ho già parlato. Là, ho conosciuto mio marito. Ci siamo sposati, ma non c’intendevamo, e quindi ci siamo separati. Tutto questo, già lo sai. Ai miei genitori piace vivere a Santarém. A me non dispiace, per quanto Santarém sia una cittadina limitata, ristretta. L’hanno costruita su quella collina, ma poteva diventare una grande città. Casa per casa, strada per strada, ogni singolo sasso, è più bella di quanto non si creda. Ma la gente, no. Ovunque ci sono eccezioni, e anche lì, per fortuna, ma gli orizzonti di chi vive a Santarém non sono quelli che si vedono dalle Porte del Sole. Sarebbe difficile trovare una città più aperta verso l’esterno e più protesa all’interno”. “E i tuoi orizzonti, sono quelli delle Porte del Sole?” “Esattamente: sono quelli delle Porte del Sole”. “Non vuoi spiegarti meglio?” È rimasta zitta di nuovo. Poi mi ha guardato con attenzione: le ho visto gli occhi vivaci, illuminati dalla luce dei fari. Guidavo a una velocità costante, né adagio né veloce. M. ha ripreso a fissare la strada. E poi ha ricominciato a parlare: “Ascolta. Ti conosco da poche settimane. Di te sapevo solo il nome, l’indirizzo e il numero di telefono. Due parole in confidenza da mio fratello. Ti ho conosciuto, sono stata a casa tua, ti ho parlato della mia vita; ci diamo del “tu” perché è giusto, sei stato onesto. Non parlo di questioni di sesso, quando dico che sei stato onesto: è qualcos’altro, più complicato, e non vale la pena spiegarlo. Quel tipo di onestà che non t’inculcano a forza. Mi piace stare con te, te l’ho già detto. Te lo dirò altre volte, perché è la verità. Se non mi sbaglio, questa nostra conoscenza potrebbe andare lontano. E adesso credo che debba andare al di là di dov’è arrivata. E non parlo di sesso”. “Lo so”. Mi ha sfiorato la gamba. E ha detto: “Svolgo attività politica nella regione di Santarém. Ecco perché ti ho detto che tutto il mio lavoro si svolge a Santarém. Santarém e il suo circondario, come si diceva un tempo”. “Sei del Partito?” “ Sì” . “E Antonio?” Ho sentito che si ritraeva un po’: “Antonio l’hanno arrestato. Su di lui non c’è altro da aggiungere”.

Per alcuni minuti, non abbiamo parlato. “Grazie per avermi detto queste cose. Niente ti costringeva”. “Niente mi costringerebbe, se non la mia volontà. Perciò non devi ringraziare”. “Qual è il tuo lavoro?” Ho indovinato che si allungava sul sedile, addirittura che sorrideva. “Oh, niente d’importante. Io non sono importante. Contatti con i compagni nei vari paesi, organizzazioni varie, un lavoro oscuro, ma che è necessario. Di grandi calure e grandi acquazzoni, ormai ne ho perso il conto. Ma, sai, anche adesso, guardo questi campi e so di essere nel giusto. Non so spiegarti il perché”. “Non ce n’è bisogno. Anch’io ho letto il mio Marx”. Lei è scoppiata a ridere. “Non dirmi che sei fra quelli che giurano, con la mano alzata, di aver letto tutto il Capitale?” “Non l’ho letto tutto, e non lo giuro”. Abbiamo riso entrambi, lei ha posato il braccio sullo schienale del mio sedile e io ho ripetuto il gesto che aveva fatto lei a Sintra. Tenendo il volante con la sinistra, le ho stretto la mano. Ma, giunti a una curva stretta, ho avuto bisogno anche dell’altra mano sul volante. “I tuoi arresti sono avvenuti a causa di questa attività?” “No. C’erano cause visibili, non come queste. Ma non sono riusciti a incastrarmi”. “Quando farò qualche domanda che non devo fare, dimmelo”. “Quando farai domande che non devi fare, non ti risponderò. Oppure, chiamerò la polizia”. Di nuovo siamo scoppiati a ridere, come due bambini. Sfera miracolosa che viaggia, portandomi dentro di sé.

“Dev’essere duro, il tuo lavoro”. “A volte, sì. Ma è necessario. Più duro è quello dei lavoratori, e loro non si lagnano: lottano, continuano a lottare. Nel 1962, quando si lottò per le otto ore di lavoro, avevo ventisette anni, ero separata da poco. A quell’epoca, non ero ancora nel Partito, ma era come se lo fossi: mio padre è un vecchio militante. So che si diede un sacco da fare in quell’occasione, soprattutto nella regione a sud del fiume: Almeirim, Lamarosa, Coruche, fino a Coupo. Sei mai stato a Coupo? Se qualcuno leggesse i giornali di allora, penserebbe di trovarsi in un altro mondo. Ma il mondo era qui. Cerca di capire: i lavoratori non sono mica andati a mendicare le otto ore, a implorare al governo la misericordia di non lavorare più dall’alba al tramonto. Ci sono documenti del Partito. Ad Alcìcer do Sal, per esempio (è una storia che ho letto e non dimenticherò mai), accadde che i lavoratori, per decisione loro, e senza curarsi degli ordini del capoccia, attaccarono a lavorare alle otto. Alle dieci e mezzo, quando suonò la campana, che un tempo era per il pranzo, loro fecero orecchie da mercante e continuarono a lavorare. A mezzogiorno si interruppero e andarono a pranzare. Riattaccarono all’una. Alle cinque del pomeriggio scadevano le otto ore. Cessò il lavoro, e tutti se ne andarono a casa. Sembra facile, no? Ma quanta coscienza di classe ci vuole, quanta organizzazione, quante riunioni, quanti discorsi. Uno se ne rende conto solo quando ci sta dentro. Ma ci sono tante altre storie: quella dell’agricoltore di MontemoroNovo che, quando andarono a chiedergli lavoro, rispose: “Avete già mangiato quello che avete guadagnato nelle otto ore? Adesso mangiatevi la paglia”. Sai che cosa fecero i braccianti? Entrarono in una delle proprietà del tipo, presero un agnello e gli lasciarono un biglietto con scritto: “Finché c’è carne, non si mangia paglia”. Ma ci furono anche tanti arresti, scontri a fuoco, bastonature. Tanti sono morti. Chi c’è stato, lo sa bene. Io parlo per aver sentito dire e letto”. “E oggi?” le ho domandato io. “Andiamo avanti. È come un fiume: con più o meno acqua, ma scorre sempre. Non ci prosciughiamo mai”. Era davvero seria, e fissava la strada. A destra brillava il fiume. “Del resto” ha soggiunto, “abbiamo la certezza che il regime non durerà. Il tentativo di Caldas non rimarrà isolato. E noi non ce ne stiamo mica con le mani in mano. Non ci siamo mai stati. Il fascismo ne ha per poco”.

Ci stavamo avvicinando alla città. Le ho detto: “Ti fidi di me. Mi hai raccontato queste cose”. “Sì. Mi fido di te. E mi piaci”. A centodieci chilometri da Sintra, alla fine ho fermato la macchina, spostandomi sul ciglio, sotto un albero, sentendo il crepitio delle foglie sotto le ruote, e poi il silenzio. Mi sono voltato verso M. Lei mi stava guardando. Ha ripetuto: “Si. Mi piaci”. L’ho abbracciata, senza sbottonarle la camicetta, senza scomporle la gonna. Ci siamo solo baciati, con un singulto, e abbiamo continuato a baciarci fin quando il mondo si è riempito di costellazioni. Allora le ho detto: “Mi piaci”. E poi, insieme, abbiamo aggiunto: “ Amore mio”.

“Amore mio”. Meu amor. Ripetere queste due parole per dieci pagine, scriverle ininterrottamente, senza sosta, senza spazi bianchi, prima lentamente, lettera dopo lettera, disegnando le tre colline della M manoscritta, l’anello tenue della E simile a braccia che riposano, il letto profondo di un fiume che si scava nella U, e poi lo sgomento o il grido della A sulle onde del mare, eccole, dell’altra M, e la O che non può essere se non quest’unico nostro sole, e infine la R divenuta casa, o tetto, o baldacchino. E subito dopo trasformare questo lento disegno in un unico filo tremolante, la traccia di un sismografo, perché le membra rabbrividiscono e si turbano, il mare bianco della pagina, una distesa di luce o un lenzuolo levigato. “Meu amor, “amore mio” hai detto, e l’ho detto anch’io, spalancandoti la mia porta, e tu sei entrata. Tenevi gli occhi bene aperti venendomi incontro, per vedermi meglio o più di me, e hai posato la borsa per terra. E, prima che ti baciassi, per poterlo dire serenamente, hai detto: “Stanotte rimango con te”. Non sei arrivata né troppo presto né troppo tardi. Sei venuta al momento giusto, al minuto esatto, su quel preciso e prezioso pianerottolo del tempo su cui avrei potuto attenderti. Tra i miei modesti quadri, circondati da cose dipinte e attente, ci siamo spogliati. Com’è fresco, il tuo corpo. Ansiosi, eppure senza fretta. E poi, nudi, ci siamo guardati senza vergogna. Lentamente (solo lentamente poteva accadere, solo lentamente) ci siamo avvicinati l’uno all’altra e, così vicini, ci siamo stretti tremando. Stretti l’uno contro l’altro, il mio sesso, il tuo ventre, e le tue braccia intorno al mio collo, e le nostre bocche, le lingue, e i denti, a respirare insieme, a nutrirsi, a parlarsi senza dire una parola, in un gemito interminabile, simile a una vibrazione, lettere inarticolate, pausa. Ci siamo inginocchiati, siamo saliti sul primo scalino e poi, lentamente, come se l’aria ci trattenesse, tu sei ricaduta di spalle e io sopra di te, completamente nudi, e poi siamo rotolati, nudi, tu sopra il mio corpo, il tuo petto elastico, mentre i tuoi fianchi mi coprivano, le tue cosce come ali. Sopra di me ci siamo uniti e poi, così, uniti, di nuovo siamo rotolati, io sopra di te, i tuoi capelli ardenti, le mie mani adesso posate per terra come se sulle spalle sostenessi il mondo, o il cielo, e nello spazio fra di noi gli sguardi intensi, subito offuscati, e lo stridere del sangue che fluisce e refluisce nelle vene, nelle arterie, che pulsa nelle tempie, che trascina sottopelle il corpo e il corpo. Siamo noi, il sole. Le pareti vorticano, i libri, i quadri, Marte, Giove, Saturno, Venere, il minuscolo Plutone,l1a Terra. Ed ecco il mare, non un mare vasto e oceanico, ma l’onda profonda compressa fra due pareti di corallo che comincia a montare, a montare fino a esplodere in spuma, zampillando. Un sussurro, o un segreto d’acque che dilagano sui muschi. L’onda si ritrae nel mistero delle fosse sottomarine, e tu mi hai detto: “Amore mio”. Intorno al sole, i pianeti riprendono la loro grave, lenta camminata, e noi, che siamo lontani, adesso li vediamo fermi, di nuovo quadri e libri, e pareti, al posto di un circolo profondo. Di nuovo è notte. Io ti sollevo, nuda. Ti sei aggrappata alla mia spalla e adesso cammini sul mio stesso suolo. Guarda, sono i nostri piedi, un’enigmatica eredità, piante che disegnano, da sole, il poco spazio che occupiamo nel mondo. Siamo sulla soglia. Senti la pellicola invisibile che bisogna rompere, l’imene delle case squarciato e rinnovato? Dentro, c’è una stanza. Non ti prometto il cielo chiaro e le pacifiche nuvole di Magritte. Siamo entrambi umidi come se fossimo emersi dal mare ed entriamo in una piccola caverna dove l’oscurità si avverte sul viso. Una lucetta appena. Quanto basta perché io veda te e tu veda me. Ti sdraio sopra il letto e tu spalanchi le braccia e aleggi sulla pagina bianca. Mi chino su di te, è il tuo corpo che respira, falda di montagna e sorgente. Tieni gli occhi aperti, tieni gli occhi aperti sempre, pozzi di un miele luminoso. E i tuoi capelli, come messi, ardono. Dico: “Amore mio”, e le tue mani mi sfiorano dalla nuca sino al fondo della schiena. Nel mio corpo s’accende una torcia. Si aprono di nuovo, ali, le tue cosce. E sospiri. Ti conosco, riconosco dove sono: la mia bocca si apre sulla tua spalla, le mie braccia aperte seguono le tue braccia fino alle dita che s’intrecciano con una forza che non ci appartiene. Come due cuori, i nostri ventri pulsano. Hai gridato, amore mio. Il cielo intero grida sopra di noi, sembra che tutto morirà. Le nostre mani si sono distaccate, si sono perse e ritrovate, fra le nuche, fra i capelli, e adesso, abbracciati, attendiamo la morte che s’avvicina. Tremi. Tremo. Siamo scossi dalla testa ai piedi e ci afferriamo, in procinto di cadere. Non si può evitare. Il mare si è insinuato, ci fa rotolare su questa spiaggia bianca, o questa pagina, si frange sopra di noi. Gridiamo, soffocati. E io ho detto: “Amore mio”. Ti sei addormentata, nuda, alle prime luci dell’alba, vedo il tuo seno ritagliato nella controluce dell’impalpabile pellicola della porta. Pian piano, poso la mia mano sul tuo ventre. E respiro in pace.

Ha il destino già segnato la tela che ho messo sul cavalletto. Per il ritratto di M. è ancora presto, ma è arrivato il mio momento. È maturata la tela (all’aria e alla luce dell’atelier); è maturato, se possibile, lo specchio (opacizzato dal tempo); sono maturato io (questo viso marcato, questa tela, quest’altro specchio). Mi guardo sulla superficie levigata, i tubetti ancora chiusi, asciutti i pennelli che da settimane si coprono di polvere. Mi guardo allo specchio, non distratto, non di sfuggita, ma attento, valutando, misurando la profondità del colpo che sto per sferrare. Un pennello, signori (non mi rivolgo a nessuno in particolare, è un modo di dire, un po’ retorico, come altre volte mi è capitato in queste pagine), un pennello è come un bisturi. Non è un bisturi, ma come un bisturi. Serve per sollevare, delicatamente o magari a brandelli, la pelle dei signori di Lapa, per esempio, e scoprire chi c’è sotto. Mi è servito per innestare pelle su pelle, come ho già spiegato ampiamente prima, un’operazione che credo di aver fatto, in vent’anni di vita artistica (non c’è altro modo di definirla), un’ottantina di volte. In quest’altra chirurgia plastica, credo di non essere rimasto troppo indietro rispetto agli specialisti: in nessun caso sono rimaste visibili le suture, le cicatrici, i contorni, il segno dell’innesto. Temo che, dopo avermi tirato giù dai chiodi o dai ganci a cui mi hanno appeso, non troveranno facile sostituzione: i miserabili sono in via di estinzione, se non ero io proprio l’ultimo. E adesso mi ritiro. Disegno progetti per imballaggi, introduco il supplemento dell’arte nelle campagne pubblicitarie, e prudentemente chiedo al copywriter, geloso della sua letteratura, se sia d’accordo nello spostare sulla destra la sua frase, a vantaggio di una mia linea che ha bisogno di sfogo. Sono quindi, in un intervallo. È il momento di mettere su una tela questo viso, con i suoi occhi e tutto ciò che vedono all’intorno gli occhi nello specchio, tutte queste linee e questi piani che in una maniera o nell’altra convergono sempre verso i punti di fuga costituiti dalle pupille. Tanto più che c’è un altro motivo: questo testo sta per finire. È durato il tempo necessario perché si concludesse un uomo e ne iniziasse un altro. Era importante che rimanesse registrato il viso che ancora è, e fossero indicati i primi lineamenti di colui che sta per nascere. È stata una sfida con il testo. Un’altra sfida è ancora in atto, ma sul mio vero terreno: sarò in grado di trasporre sulla tela tutto ciò che ho fissato in queste pagine? Che la pittura serva almeno a questo. Non chiedo altro: chiedo molto. Altari (Piero della Francesca, Andrea Mantegna, Luca Signorelli, Paolo Uccello, Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel, Michelangelo, Leonardo, Matthias Grünewald, Van Eyck, Goya, Velazquez, Rembrandt, Giotto, Picasso, Van Gogh e tanti altri) hanno messo nella pittura tutto. Che io (H.) vi metta quel poco che ho. Non so quanto tempo impiegherò a dipingere questo autoritratto. Ho imparato, una volta per tutte, a non avere fretta. La prima lezione me l’ha data la scrittura. Poi è arrivata M. a confermare tutto e a insegnarmelo di nuovo. Anche il ritratto dovrà mostrare questo viso d’un uomo apprendista? Non anticipiamo. Si tratta della terra di oggi, non del grano di domani. Domani, questo specchio sarà infranto, oggi è il suo tempo, e il mio.

E adesso il ritratto, l’autoritratto, l’autopsia, che significa innanzi tutto indagine, contemplazione, esame di se stessi. Da questo lato, lo specchio; da quest’altro, la tela. E io nel mezzo, come il rotifero fra due vetrini, nella sua ultima goccia d’acqua, per essere osservato al microscopio. Con tutta la luce che si è potuta far convergere, ma non tanta da annullare le fattezze, né tanto poca da nasconderle. E un pennello ben solido, ibrido essere, figlio di animale e vegetale, un’asta lunga e dura con peli di tasso invece che foglie di salice. La tela è ancora bianca. È anch’essa un diverso specchio coperto di polvere. Direi che il mio viso è già dipinto sotto uno strato compatto che bisognerà asportare. Ripeto che il pennello è come un bisturi. Sarà anche un rasoio, un raspino, e, perché no, un piccone. È un lavoro, questo, anche di archeologia.

Ho le idee chiare sul quadro. Ci sarà, in basso, una barra nera, qualcosa di simile a un parapetto o un muro. Avrò la mano destra posata su questo balcone uniforme, liscio, e la destra sopra di essa, con alcuni fogli. Sulla pagina superiore, disposta secondo un’angolatura tale da consentire la lettura, saranno disegnate le prime tre parole di questo manoscritto: come a dimostrare che la spirale si può rappresentare con le lettere dell’alfabeto. Mi raffigurerò a mezzo busto. Dietro di me, come se mi sporgessi sul muro per vedere chi passa, ci sarà un paesaggio, con una pianura, a livello inferiore, piena di alberi, e, forse, i meandri di un fiume (Meandro: fiume della Turchia, celebre per le sue innumerevoli curve. Nome attuale: Buyuck-Menderez). Al di sopra di tutto e di me, come non poteva non essere, cielo e nuvole. Nel quadro ci sarà lo stemma: nell’angolo superiore sinistro ci sarà una copia in miniatura dei signori di Lapa, e nell’angolo superiore destro un’altra copia ridotta, quella del quadro che ho copiato, modificandolo, da Vitale da Bologna. Come un prolungamento di questo manoscritto, scritto proprio a mano, il ritratto dovrà essere il duplicato di qualcosa. Come il manoscritto, e contrariamente a quanto si è soliti fare, esso non cercherà di occultare le suture, le saldature, i rammendi, il lavoro di un’altra mano. Al contrario: accentuerà tutto. Seppur desiderando dire qualcosa in più, come copia, di quanto sia già espresso in ciò che copia. Nel desiderarlo, non riterrà di riuscire a dirlo meglio. Quanto dirà di peggio, per disdetta, sarà altrettanto necessario, se non di più: non era stato ancora detto. Il ritratto di Paracelso dipinto da Rubens è senza dubbio migliore di quello che uscirà dalle mie mani: eppure, lui è il mio modello, il mio riferimento; è lui che si trova nel ritratto che ho descritto. Questo mio quadro, insomma (proprio come ho fatto, e con buoni motivi, nel manoscritto), non rifiuterà la copia, la renderà esplicita. Perciò è una verifica. Ogni opera d’arte, per quanto poco meritevole come la mia, deve essere una verifica. Se vogliamo creare qualcosa, dobbiamo alzare i coperchi (o le pietre, o le nuvole, ma supponiamo che siano coperchi) che lo occultano. Ebbene, io credo che non saremmo granché come artisti (e, ovviamente, come uomini, come esseri umani, come individui) se, trovata per caso o a fatica la cosa tanto cercata, non continuassimo ad alzare il resto dei coperchi, a rimuovere le pietre, a fugare le nuvole, tutte, fino alla fine. Ricordiamoci che la prima cosa potrebbe essere stata messa lì per distrarci dalla seconda. Verificare, secondo me, è la vera regola d’oro.

Incomincio a preparare il primo colore sulla tavolozza. Non che abbia bisogno di un colore intermedio, da comporre e armonizzare, come le voci del Magnificat di Monteverdi che si diffondono nell’atelier. Mi limito a spremere il tubetto senza economia. Adesso per rivelare, non per nascondere. Lavorerò tutto il giorno.

Il regime è caduto. Un golpe militare, come si sperava. Non so descrivere la giornata odierna: i militari, i carri armati, la felicità, gli abbracci, le parole di gioia, il nervosismo, il vero e proprio giubilo. In questo momento, sono solo: M. è andata a incontrare qualcuno del Partito, non so dove. Finirà la clandestinità. Il mio autoritratto è già molto avanti. Stavamo dormendo a casa mia, M. e io, quando Chico, nottambulo, ha telefonato, urlandoci di ascoltare la radio. Siamo balzati su (stai piangendo, amore mio?): “Qui è il comando delle Forze Armate. Le Forze Armate Portoghesi fanno appello a tutti gli abitanti della città di Lisbona” Ci siamo abbracciati (amore mio, stai piangendo?) e, avvolti in un unico lenzuolo, abbiamo spalancato la finestra: la città, oh, la città, è ancora buio sopra di noi, ma si diffonde già un chiarore in lontananza. ho detto: “Domani andremo a prendere Antonio”. M. si è stretta a me. “E uno di questi giorni ti darò alcune pagine che tengo da parte. Perché tu le legga”. “Segreti?” ha domandato lei, sorridendo. “No. Pagine. Cose scritte”.



È il protagonista di un romanzo dello scrittore realista portoghese José Maria de Eça de Queirós (Pròvoa de Varzim, Minho 1845 – Parigi 1900): La colpa di Prete Amaro (1880), che narra gli amori del giovane prete Amaro Vieira con Amélia, nella cui casa egli si trova come pensionante.

Francisco de Holanda (1517-1589) fu pittore e architetto di professione, oltre che letterato dalle tendenze umanistiche molto audaci. Finanziato dal re del Portogallo, trascorse vari anni in Italia, dove conobbe grandi umanisti e fu discepolo di Michelangelo.

Vasco da Gama (1469-1524) fu il navigatore portoghese che, sotto il regno di Manuel I, doppiò il Capo di Buona Speranza e raggiunse nel 1495 Calcutta, inaugurando la cosiddetta “Via delle Indie”. Fernao de Magalhaes (Ferdinando Magellano, 1480-1521) era convinto che si potessero raggiungere le Isole delle Spezie (isole di Malacca, l’odierna Singapore) da Occidente anziché da Oriente. Al servizio della Spagna, attraversò lo stretto che da lui prese il nome e, navigando nell’Oceano Pacifico, raggiunse nel 1520 le Isole Marianne e poi le Filippine, dove trovò la morte per mano degli indigeni.

La Casa dos Bicos (XVI secolo), a Lisbona, è caratterizzata dalla bianca facciata bugnata a punta di diamante.

La Lapa è un quartiere residenziale di Lisbona, con isolati di case a pid piani risalenti all’inizio dell’Ottocento, prevalentemente adibite a sedi diplomatiche.

La battaglia di Aljubarrota (14 agosto 1385), in cui il conestabile Nuno Alvares Pereira sconfisse la cavalleria castigliana, segna l’inizio della indipendenza del Portogallo dalla Spagna.

Nel 1968, dopo l’uscita di scena di Antonio de Oliveira Salazar, l’economista Marcelo Caetano assume la presidenza del Consiglio e tenta, senza successo, un rinnovamento del regime dittatoriale. Il 25 aprile  1974 un colpo distato militare, la cosiddetta Rivoluzione dei garofani, costringe Marcelo Caetano, insieme al presidente della Repubblica, all’esilio in Brasile e smantella il regime dittatoriale.

Raul Brandao (1867-1930) autore portoghese (romanziere, poeta, drammaturgo) la cui opera è paradigmatica della transizione da un realismo naturalista a un decadentismo di influenza simbolista.

Il palazzo Sao Bento, a Lisbona, è un antico convento benedettino, trasformato all’inizio del Novecento e rimodernato nel 1935. Vi ha sede la Camera legislativa.

PDF era la temuta polizia politica istituita durante il regime dittatoriale di Antdnio de Oliveira Salazar.

Caxias era una delle prigioni, vicino a Lisbona, dove venivano rinchiusi i prigionieri politici avversari della dittatura.



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