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COMPORTAMENTO DEGLI STATI ITALIANI E DELLE POTENZE STRANIERE DURANTE LA Ia GUERRA DEL RISORGIMENTO NELL'ANNO 1848

Storia



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COMPORTAMENTO DEGLI STATI ITALIANI E DELLE POTENZE STRANIERE DURANTE LA Ia GUERRA DEL RISORGIMENTO NELL'ANNO 1848



II granduca di Toscana, dopo aver mandato nel marzo del 1848, dei volontari in Lombardia, subito utilizzati dal Re Carlo Alberto nei pressi di Mantova, il 5 aprile chiamava alle armi duemila giovani e riforniva di divise e di armi alcune centinaia di volontari siciliani giunti a Livorno agli ordini di Giuseppe La Masa.

Intanto a Roma si trascinavano le trattative (sollecitate da Pio IX ) per addivenire alla costituzione di una « Le­ga italiana » i cui scopi ancora non erano chiari. Infatti, mentre per i piÙ accesi fautori di ideali patriottici e re­pubblicani, tale Lega doveva mirare alla cacciata degli Austriaci e alla creazione di una repubblica con alla testa nientedimeno che il Papa, per i piÙ tiepidi e moderati, e forse anche per la stessa Santa Sede, la Lega avrebbe dovuto limitarsi, almeno in un primo tempo, alla crea­zione di un'unione doganale.

Ma il raggiungimento di un risultato concreto lo si ri­teneva difficile soprattutto per la politica procrastinatrice dei ministri sabaudi accreditati a Roma.

Il Governo napoletano era stato consigliato dai suoi rappresentanti presso le Corti degli altri Stati italiani a non rimanere passivo dinanzi al movimento patriottico delie popolazioni della penisola e a dimostrarsi sollecito a fiancheggiare i Governi di Torino, Firenze e Roma, nella guerra d'indipendenza dallo straniero.

Aderendo a tali consigli, dopo avere, nel mese di mar­zo, inviato per via mare a Livorno, una colonna di vo-lontari che una volta sbarcata proseguÃŒ a piedi verso la Valle del Po, Napoli decise di preparare la partenza verso il Nord d'Italia di alcuni battaglioni (complessivamente 6.000 uomini): «onde fossero impiegati secondo le oc-correnze che potrebbero presentarsi ». Contemporanea­mente inviava una squadra di navi da guerra nell'Adria­tico per farla incrociare davanti a Venezia in attesa dello svolgimento degli eventi.

Il conte Ludolf ambasciatore di Napoli presso la Santa Sede, si era affrettato a chiedere al Governo romano l'au­torizzazione di far passare i soldati napoletani attraverso i territori dello Stato Pontificio.

Il Cardinale Antonelli mandÃ’ subito un corriere a Fi­renze chiedendo il nulla-osta affinchÈ tali truppe potes­sero proseguire la marcia attraverso la Toscana e tale nulla-osta arrivÃ’ a Roma il 31 marzo e fu subito comu­nicato a Napoli. Il 18 aprile giungeva a Roma una mis­sione napoletana rappresentante il Regno borbonico al Congresso degli Stati italiani che doveva riunirsi per la creazione di una Lega italica. Tale Congresso era stato sollecitato dal Papa e il Governo di Napoli aveva dato prova di buona volontÀ facendo partire i propri pleni-potenziari. Il Granduca di Toscana si era dichiarato favo­revole, a tale Lega, ma il Governo Sardo dichiarava al principe di Palazzolo, ambasciatore di Ferdinando II, che la cosa non sembrava opportuna e uguali dichiarazioni erano fatte al Nunzio pontificio a Torino.

Napoli invece si dichiarava anche pronta ad accedere ad una Lega doganale, giÀ stabilita di massima fin dall'au­tunno precedente, e dava istruzioni al proprio rappresen­tante affinchÈ al Regno borbonico fossero conservate quel­le preminenze che gli erano dovute per la sua importanza « come il piÙ esteso e potente Stato d'Italia » e quindi fossero fissati precisi accordi politici e finanziari per la partecipazione dell' esercito napoletano « ai movimenti guerrieri dell'Italia superiore ».

I plenipotenziari napoletani furono poi ricevuti dal Pa­pa il quale dichiarÃ’ apertamente: « Io non solo approvo la Lega, ma la riconosco necessaria; per questo ho invi­tato pertanto i sovrani di Napoli, di Toscana e di Sar­degna a concluderla; disgraziatamente il Governo di Torino si mostra restio; spero tuttavia che pie­gherÀ, giacché senza di esso nulla si puÃ’ fare ». Conti­nuando il suo dire Pio IX lamentÃ’ « come fosse sempre vivo, tra gli Italiani, lo spirito municipale ed espresse il voto che la Lega, quando fosse istituita, contribuisse a calmare certe furie popolari e certe opinioni esorbitanti; forse anche i malumori siciliani ne sarebbero chetati ».

D'altra parte i governi di Roma, Firenze e Napoli ve­dendo prolungarsi l'assenza dei rappresentanti di Torino a Roma, non riuscivano a capacitarsi perché mai doves­sero far combattere i propri soldati, spendere molto de­naro e correre i piÙ gravi rischi, unicamente perché il Re di Sardegna acquistasse nuovo e maggiore dominio in Alta Italia e diventasse tanto forte e potente da poter minacciare, in un successivo momento, l'esistenza e l'in­dipendenza delle altre regioni italiane. E, data la rilut­tanza del Piemonte ad entrare nella Lega, la preoccupa­zione del Re, dei Principi e della stessa Santa Sede, non si poteva certo giudicare infondata.

Ottenuto il permesso di far passare le proprie truppe attraverso il territorio della Santa Sede, il Governo di Napoli, sperando anche prossima e sicura la formale conclusione della Lega italica, decideva di mandare rapida­mente anche per via di mare, ad Ancona un forte con­tingente di truppe in direzione dell'Alta Italia, comu­nicando al Cardinale Antonelli, segretario di Stato di Pio IX, la sua decisione.

Ma tale direttiva napoletana non veniva approvata da Roma, che non voleva mettersi apertamente contro l'Au­stria e nello stesso tempo temeva che Ferdinando II una volta entrato con le truppe nella regione marchigiana, confinante con gli Abruzzi, la volesse poi occupare defi­nitivamente. Dopo altre insistenze del Governo di Napoli, la Santa Sede concedeva il libero passaggio delle truppe borboniche purché si attestassero sulle rive del Po, senza attraversarle.

Lo stesso ordine il Papa dava al generale Durando, comandante delle truppe pontificie, perché « nella sua qualitÀ di Pontefice non voleva prendere parte alla guerra tra il Re di Sardegna e l'Austria, tranne che per la di­fesa dello Stato Pontificio ».

Questo anche perché, «nella dannata ipotesi che l'Austria avesse vinto la guerra, si sarebbe poi impadronita anche dei territori appartenenti alla Chiesa; oppure i popoli spaventati avrebbero chiamato in Italia i Francesi e in tal caso si sarebbe avuta un'invasione francese e repubblicana».

Naturalmente sia il Governo di Vienna che quello di Monaco, facevano conoscere al Papa la loro indignazione contro Sua SantitÀ considerata il protettore, l'ispiratore, il padre dell'Italia ribelle e guerreggiante.

A Roma, oltre ai rappresentanti del Governo di Na­poli, si erano stabiliti anche quelli della Sicilia (Giuseppe La Farina, Cosimino Pisani e Michele Amari) i quali ultimi volevano raggiungere un duplice scopo; ossia es­sere ammessi alla Lega italica e ottenere dal Papa il riconoscimento dell'indipendenza siciliana, e quindi del Governo di Palermo.

Attorno alla Santa Sede i contrasti tra i vari governi della penisola e tra Governi e popolazioni cattoliche di lingua tedesca (Baviera ed Austria) e Governo romano, aumentavano sempre piÙ mentre i ministri laici del go­verno di Roma venivano tenuti all'oscuro di quanto Pio IX andava maturando dentro di sé per uscire da tale diffi­cile situazione.

Il 29 aprile Pio IX tenne al palazzo del Quirinale il Concistoro segreto e nello stesso giorno si sparse in cittÀ la notizia della allocuzione pronunciata in latino dal San­to Padre.

Quanto il testo dell'allocuzione venne pubblicato in lingua italiana un senso di smarrimento si propagÃ’ nelle popolazioni italiane e nei vari governi, mentre invece i rappresentanti dei governi di Austria a Roma manifesta­rono entusiasticamente la loro soddisfazione. Quanto era successo non era che la conclusione inevitabile ( anche se non auspicabile in quel momento cosÃŒ difficile per l'Italia) della ubriacatura romantico-sentimentale e patriottica su­scitata fin dal 1847 dall'atteggiamento umano, ma sopra­tutto religioso, di Papa Pio IX appena eletto dal Con­clave.

La sua invocazione « Dio benedica l'Italia » si pre­stava certamente alle illazioni e alle illusioni di tutti que­gli italiani che aspiravano ad una vita nazionale libera da stranieri e vagheggiavano riforme politiche e sociali; cosa, del resto, che avveniva presso tutti i popoli europei.

La fantasia e l'entusiasmo sono cose bellissime, ma la realtÀ È sempre molto distante dai moti del sentimento. Il Papa capo di una rivoluzione politica, addirittura poi di una federazione repubblicana (per i piÙ accesi tra gli Italiani) e incoraggiante guerre contro Stati stranieri e cattolici era — e cosÃŒ doveva essere — una utopia. La Santa Sede allora, come prima di allora, e come adesso, È la tutrice di tutti i cattolici e non puÃ’, parteggiare per uno Stato cattolico contro un altro Stato cattolico. Oggi a tanta distanza di tempo e con animo piÙ sereno È bene ricordare e metter in evidenza il testo della lettera inviata da Pio IX all'Imperatore austriaco. Eccolo: «Mae­stÀ, fu sempre consueto che da questa Santa Sede si pro­nunciasse una parola di pace in mezzo alle guerre che insanguinano il suolo cristiano, e nella Nostra allocuzione del 29 decorso, mentre abbiamo detto che rifugge al No­stro cuore paterno di dichiarare una guerra, abbiamo espressamente annunciato l'ardente Nostro desiderio di contribuire alla pace. Non sia dunque discaro alla MaestÀ Vostra che Noi ci rivolgiamo alla Sua pietÀ e religione, esortandola con paterno affetto a far cessare le sue armi da una guerra che, senza poter riconquistare all'Impero gli animi dei Lombardi e dei Veneti, trae con sé la funesta serie di calamitÀ che sogliono accompagnarla e che sono da lei certamente abborrite e detestate. Non sia discaro alla generosa Nazione tedesca, che Noi la invitiamo a deporre gli odii e a convenire in utili relazioni di amichevole vicinato una dominazione che non sarebbe nobile, né fe­lice, quando sul ferro unicamente riposasse. CosÃŒ Noi confidiamo che la Nazione stessa, onestamente altera della nazionalitÀ propria, non metterÀ l'onor suo in sanguinosi tentativi contro la Nazione italiana; ma lo metterÀ piuttosto nel riconoscerla onestamente per so­rella, come entrambe sono figliole Nostre e al Cuor No­stro carissime; riducendosi ognuna ad abitare ciascuna i naturali confini con onorevoli patti e con la benedizione del Signore. Preghiamo intanto il Datore di ogni lume e l'Autore di ogni bene, che ispiri la MaestÀ Vostra di santi consigli mentre dall'intimo del cuore diamo a Lei, a Sua MaestÀ l'Imperatrice e all'Imperiale famiglia, l'A­postolica benedizione ».

Questa lettera nobile ed italiana e, al di sopra delle umane passioni, a tanta distanza di tempo, non puÃ’ non essere ammirata da tutti, credenti e non credenti. In conclusione Pio IX comunicava agli Austriaci con stile aulico e solenne, come si conveniva al Capo della Chiesa cattolica, quanto i Garibaldini cantarono dal 1858 in poi andando all'assalto delle posizioni nemiche, ossia:

Va fuori d'Italia,

Va fuori o stranier

Le case d'Italia son fatte per noi

E lÀ sul Danubio le case dei tuoi

Le parole e la forma sono notevolmente diverse, ma la sostanza È la stessa.

Sia l'inno di Garibaldi che la lettera di Sua SantitÀ dicevano agli Austriaci che era giunta l'ora di andarsene e che era sacrosanto diritto degli Italiani di governarsi da soli. Ma Pio IX aveva scritto tali concetti dieci anni prima che Mercantini scrivesse l'inno di Garibaldi, e a tale lettera l'imperatore austriaco non seppe replicare per semplice fatto che sapeva di essere dalla parte del torto. Se si vuole scrivere una critica storica, quale vuole essere questa, vicina il piÙ possibile alla veritÀ, non si puÃ’ che dire la veritÀ anche se tale veritÀ puÃ’ far pia­cere a qualcuno e dispiacere a molti altri. E la veritÀ È questa: che Pio IX, tanto deprecato dai liberali italiani, nei confronti dell'Imperatore absburgico e senza solleci­tazioni da parte di chicchessia aveva saputo interpretare il sentimento popolare italiano dicendo chiaramente con la massima autorevolezza, che gli Austriaci dovevano riti­rarsi oltre i confini naturali della penisola. La Sicilia dal gennaio 1848 era retta da un governo autonomo la cui maggiore preoccupazione (oltre a quella di riordinare il Paese creando dal nulla, esercito, finanze, sicurezza pubblica, tribunali ecc.) era rappresentata dalla volontÀ di fare riconoscere il Governo di Palermo, dai governi esteri e principalmente da quelli italiani. La cosa non era né semplice, né facile. L'Inghilterra governata da un gabinetto liberale pre­sieduto da Lord Russel, con Lord Palmerston ministro degli Esteri, era favorevole alle riforme liberali avvenute nei vari stati della penisola italiana e contraria a qual­siasi intervento austriaco contro l'indipendenza dello Sta­to PontifÃŒcio e di quello Sardo.

In conseguenza di ciÃ’ l'Austria si riavvicinava politi­camente alla Russia e alla Francia, essendo queste Nazio­ni le tradizionali rivali dell'Inghilterra nel Mediterraneo.

Nei riguardi della rivoluzione siciliana, mentre il Go­verno francese avrebbe voluto intervenire in favore di Ferdinando II, l'azione inglese era diretta ad assicurare all'isola la situazione della costituzione del 1812.

All'ambasciatore francese a Napoli che chiedeva all'am­basciatore inglese di essergli compagno in cui un'opera di mediazione rispondeva che « in Sicilia, la Francia e l'Inghilterra, hanno interessi di ordine completamente diverso ». Naturalmente l'azione inglese faceva nascere il sospetto, non certo infondato, che l'Inghilterra volesse consolidare una propria posizione privilegiata in quel punto importantissimo del Mediterraneo.

E d'altra parte la Francia si era giÀ impegnata verso l'Austria ad appoggiarla nella sua politica contro i movi­menti liberali italiani. Ma spazzato via da Parigi il go­verno conservatore di Luigi Filippo e istituita la Repub­blica, il ministro inglese Lord Palmerston, giÀ fautore del movimento liberale italiano, preoccupandosi della popola­ritÀ e della simpatia che avrebbero potuto verificarsi in un'Italia liberale, verso la Repubblica Francese, si mise all'opera con tutti i mezzi per arrestare il movimento italiano in quanto tale movimento mirava all'abbattimento

della potenza austriaca, con conseguenze inevitabilmente favorevoli per una maggiore influenza francese nel Me­diterraneo. Quindi Lord Palmerston si preoccupÃ’ di agire in tutti i modi per impedire lo scoppio di una guerra piemontese contro l'Austria e, una volta scoppiata, limitarla ad arre­starla al piÙ presto: ostacolando i movimenti italiani in modo che non prendessero carattere repubblicano, e so­prattutto, opponendosi a qualsiasi ingrandimento francese verso Nizza e verso la Savoia, cioÈ verso i facili passaggi eventuali di truppe francesi verso la pianura del Po.

Ora questo programma portava logicamente Lord Pal­merston a riprendere nella nostra penisola la politica di sostanziale fiancheggiamento dell'Austria, cosa questa che era stata abbandonata negli anni immediatamente prece­denti allo scoppio della rivoluzione del quarantotto che, iniziata in Sicilia, si era propagata per tutta l'Italia.

Pertanto Lord Palmerston tentava di dissuadere Carlo Alberto dall'idea della guerra, prospettandogliene i peri­coli, e presentava anche a Torino, l'idea di un accordo fra il Piemonte e l'Austria, (dopo che l'Austria avesse concesso riforme al Lombardo-Veneto) per formare una Lega capace di fronteggiare e ributtare l'eventuale tenta­tivo di invasioni rivoluzionarie francesi al di qua delle Alpi. Quando, dopo le gloriose Cinque Giornate mila­nesi, la tendenza bellicosa di Carlo Alberto si delineÃ’ in modo ben chiaro, un'azione pacifista fu tentata a Torino dal rappresentante britannico Abercromby, il quale con­sigliava la piÙ stretta neutralitÀ.

Naturalmente le pressioni inglesi per una politica pa­cifista furono anche dirette verso Ferdinando II di Na­poli per opera di Lord Napier per convincerlo a non mandare truppe in Lombardia cosa che, secondo l'amba­sciatore inglese, sarebbe stata una forma d'intervento negli affari interni di un altro paese, non dissimile e quindi altrettanto deplorevole, dall'intervento dell'Austria negli affari di Napoli ventilato da Vienna al principio del 1848.

Inoltre Lord Napier, subdolamente domandava al mar­chese Dragonetti, ministro degli esteri napoletano ( ri­guardo al futuro assetto della Lombardia, qualora questa provincia venisse staccata dai domini austriaci ) se rispon­desse agli interessi napoletani l'annessione della Lombar­dia al Regno di Sardegna: Non solo, ma il suddetto Lord Napier faceva balenare il pericolo delle eventuali future vendette austriache per l'intervento armato napoletano nel movimento di cacciata degli stranieri dall'Italia. Altro che « governo borbonico negazione di Dio » de­finito poi da un uomo politico inglese ! ! L'Inghilterra faceva, come ha sempre fatto, il suo gioco e i governi dei vari Stati italiani diventavano, alternativamente, ot­timi od orrendi a seconda degli interessi inglesi del mo­mento nel quale si coniavano quelle definizioni.

In Sicilia, dichiaratasi libera ed indipendente, retta da Ruggiero Settimo e dal « Generale Parlamento di Sici­lia » la situazione non era né semplice, né facile. Il di­sordine nelle provincie e nelle stesse maggiori cittÀ era veramente preoccupante avendo numerose bande di ar­mati, guidate da persone incolte e feroci, preso il soprav­vento sugli stessi governanti e sulle forze di polizia.

Ma un folto numero di persone egregie, colte e devote alla causa della Patria, lavorava dentro e fuori del Par­lamento, per il bene della Sicilia. Fra tali eminenti per­sonaggi, oltre a Ruggiero Settimo, È doveroso ricordare Stabile, La Farina, La Masa, Crispi, Torrearsa, Della Cerda, Butera e Serradifalco. A questi uomini, fieramente decisi a mantenere l'indi­pendenza della Sicilia nei confronti del governo borbo­nico, È dovuta la seguente dichiarazione fatta dal Parla­mento siciliano in data 13 aprile 1848.

Il Parlamento dichiara:

1° Ferdinando di Borbone e la sua dinastia sono per sempre decaduti dal trono di Sicilia.

2° La Sicilia si reggerÀ a governo costituzionale e chia­merÀ al trono un Principe italiano dopo che avrÀ riformato il suo Statuto.

In un primo tempo era opinione dei Siciliani d'invi­tare un principe della Casa regnante di Toscana a se­dere sul trono siciliano; ma poi le preferenze furono per il Duca di Genova secondogenito di Carlo Alberto. Le trattative, mai prese troppo sul serio dalla Casa Savoia, furono poi interrotte definitivamente data la cattiva for­tuna della guerra in atto fra il Regno di Sardegna e l'Austria.

Rinacquero cosÃŒ le speranze e i timori (a seconda del punto di vista dal quale veniva esaminata la situazione) di un inevitabile assoggettamento della grande isola all'in­fluenza di una nazione straniera.

Le nazioni europee che avevano opposti interessi nei confronti della Sicilia erano soprattutto la Francia e l'Inghilterra. La Francia non approvava la scelta di un principe savoiardo per il trono siciliano e gli emissari della Sicilia a Parigi riferivano per iscritto al loro go­verno in questi termini: « l'ingrandimento di Carlo Al­berto in Italia non incontra il favore di questo Governo; e la scelta di un principe toscano al trono di Sicilia sa­rebbe piÙ accetta ». Invece l'Inghilterra avrebbe prefe­rito un principe sabaudo onde rafforzare maggiormente il potere di tale dinastia per ostacolare uno sviluppo del­l'influenza francese in Italia sia nel Mediterraneo che nella Valle Padana.

Ma il precipitare degli avvenimenti bellici in Lombar­dia spinse il Duca di Genova a declinare l'offerta della corona.

Quando il generale Filangieri fu mandato da Ferdinando II a riconquistare la Sicilia, dove con dolorosi lutti espugnÃ’, l'8 settembre 1848, la cittÀ di Messina e nel maggio 1849 riuscÃŒ a far capitolare Palermo (nonostante l'opera di mediazione franco-britannica), apparve evidente come la precedente rivalitÀ della Francia e dell'Inghilterra si fosse trasformata in aperta collaborazione in senso neu­trale suscitando amare delusioni nel Governo siciliano, il quale aveva sognato di poter contare sopra un continuo e sicuro appoggio da parte delle potenze occidentali.

Le potenze occidentali (Francia e Inghilterra) allora, come prima e come dopo, pensavano solo a tutelare i propri interessi e dato che l'Austria era risultata vinci-trice nei confronti del Piemonte, e quindi con rafforzata posizione in Italia, e, piÙ ancora, dato che la Russia, la formidabile Russia di Nicola I, aveva interesse a soste­nere Ferdinando II per soddisfare i propri desideri espan­sionistici nel Mediterraneo, non era piÙ conveniente sia per la Francia che per l'Inghilterra seguitare ad occu­parsi degli insorti siciliani e quindi la Sicilia fu abban­donata a se stessa, da un giorno all'altro, con grande ama­rezza per i patriotti e con grande soddisfazione per Fer­dinando IL

D'altra parte, al di fuori e al di sopra dello stesso mo­do di agire dei francesi e dei britannici, È doveroso rico­noscere che l'opera ferma e decisa di Ferdinando II, alla luce degli avvenimenti del 1860, non si puÃ’, dal punto di vista dell'unitÀ dell'Italia, biasimare. Infatti se la Sicilia fosse stata — nel 1860 — retta da un governo indipen­dente dai Borboni, ma nella sfera politica dell'Imperatore francese o della Regina d'Inghilterra, l'opera dell'unifica­zione di tutte le regioni italiane in un unico Stato, sa­rebbe risultata di maggiore difficoltÀ se non addirittura di impossibile compimento.

Se poi ci vogliamo soffermare, anche per un solo istante sull'accusa da sempre rivolta a Ferdinando II di non aver mai capito che l'UnitÀ di tutte le regioni della Peni­sola in un unico Stato era il destino inevitabile ed anche prossimo per gli Italiani, e quindi lui era, tra l'altro, colpevole di non essersi fatto promotore di tale movi­mento unitario, È bene ricordare che in tale atteggiamento antiunitario si trovava in buona compagnia.

Infatti il grande Cavour parlando di Daniele Manin che nel 1849 da Venezia, lanciava l'idea unitaria, proprio il grande Cavour, cosÃŒ si esprimeva: « Manin È un uto­pista Vuole l'unitÀ d'Italia ed altre corbellerie ».

E nel 1860 l'opera di Garibaldi, che non era un poli­tico, ma un eroe trascinatore di eroi e quindi un poeta, e non un uomo da tavolino, sorprese Cavour e lo costrinse alle piÙ impensate acrobazie per impedire che l'UnitÀ fosse solo merito di Garibaldi, e soprattutto per impe­dire che detta UnitÀ si concludesse col dono del piÙ gran­de regno della penisola, fatto dall'« avventuriero » Gari­baldi, a Vittorio Emanuele II e quindi con grande scorno per i politici e per i militari di Torino.



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