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IL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1815 AL 1821

Storia



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IL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1815 AL 1821

I due Stati italiani piÙ importanti, escludendo il Lom­bardo Veneto, che era un possedimento austriaco, erano, dopo il 1815, il regno di Sardegna (comprendente la Sar­degna, la contea di Nizza, tutta la Savoia, tutta la Ligu­ria e il Piemonte fino al Ticino e ai confini delle provincie di Piacenza e di Lucca) e il Regno delle Due Sicilie.



Per questa ragione, dopo aver esaminato gli avveni­menti politici del Regno delle Due Sicilie, passeremo ad esaminare le stesse cose per il Regno di Sardegna, atte­nendoci solo a documenti ufficiali e a scrupolosa obiet­tivitÀ, in modo che il paziente lettore possa farsi un'idea veritiera e quindi inevitabilmente un po' diversa dalla storia ufficiale che ha avuto corso fino a oggi, anche co­me materia d'insegnamento per la nostra gioventÙ.

II 17 giugno 1815 Ferdinando IV di Borbone, che imbarcato a Palermo aveva sostato un paio di mesi a Messina, sbarcÃ’ a Napoli accolto da manifestazioni di giubilo.

A Palermo il Re aveva lasciato come Vicario regio il figlio principe ereditario Francesco, mentre la Regina Maria Carolina era, da pochi mesi, morta a Vienna.

Su tale Regina i pareri sono stati sempre discordi. Pri­ma della rivoluzione francese essa era stata di spirito innovatore, iscritta ad una loggia massonica, protettrice dei pensatori e dei politici innovatori quali il Giannone e il Filangieri, che unitamente a molti altri, tra cui il Cuoco, precedettero di decenni i principi della rivolu­zione francese. Dopo gli eccessi di tale rivoluzione, e l'uc­cisione con la ghigliottina di suo cognato il Re di Francia e della propria sorella la regina Maria Antonietta, l'at­teggiamento di Maria Carolina verso le innovazioni poli­tiche cambiÃ’ radicalmente.

I liberali videro nella Regina la consigliera delle ven­dette reazionarie del 1799. I suoi seguaci la dicevano, invece, innocente del sangue cittadino versato ed attribui­vano all'Ammiraglio Nelson, antifrancese ed antigiacobi­no, la massima responsabilitÀ dell'ecatombe dei patriotti napoletani. Si narrava anche come la Regina in Sicilia si era addossata molti debiti per soccorrere i profughi na­poletani, privandosi di monili preziosi ed impegnando le gioie per aiutare i bisognosi e gli infelici e che negli ul­timi mesi della sua vita a Vienna, pur essendo in gravi ristrettezze finanziarie, non s'asteneva dal soccorrere i soldati napoletani scampati dal disastro della spedizione napoleonica in Russia.

II 12 giugno 1815 Ferdinando IV dovette sottoscrivere un patto con l'Austria impegnandosi a fornire, in caso di guerra in Italia, un esercito di venticinquemila uomini e altresÃŒ a non introdurre nel Regno « mutamenti i quali non potessero conciliarsi sia con l'antica costituzione mo­narchica, sia con i principi adottati dall'Imperatore d'Au­stria nel regno interno delle sue provincie italiane ». Ma il trattato faceva anche obbligo di preservare lo Stato da reazioni suscitatrici di violenza e torbidi. Invece il mi­nistro Canosa perseguiva i liberali, i murattiani, i mas­soni e i carbonari provocando l'intervento degli ambasciatori di Austria e di Russia affinchÈ Canosa venisse allontanato dal suo ufficio. E Ferdinando lo fece partire dal Regno dando, nello stesso tempo, incarico ad una commissione di giuristi di studiare la riforma dei codici napoleonici, ma conservan­doli provvisoriamente e abolendo solo il divorzio che era, del resto, assai impopolare.

Per rifornire l'esercito, il re nominÃ’ una commissione formata da due generali murattiani e da due borbonici, mentre la coscrizione, che era stata abolita in un primo tempo, fu dovuta ripristinare a causa degli impegni mili­tari assunti nei confronti dell'Austria. Con l'incarico dato ad un certo Church, generale inglese, fu estirpata la piaga dei fuorilegge esistente principalmente nella provincia di Lecce e cosÃŒ fu ristabilito l'ordine e ridata la tranquillitÀ ai pacifici cittadini.

Ferdinando strinse accordi con gli stati mussulmani di Algeri, Tunisi, Tripoli e con denaro riscattÃ’ i regnicoli fatti prigionieri dai corsari. Accordi commerciali strinse con Francia, Spagna e Inghilterra.

Siccome il re era IV come re di Napoli e II come re di Sicilia, unificÃ’ il due titoli con quello di Ferdinan­do I Re delle Due Sicilie.

Come giÀ vedemmo nel 1812 durante la permanenza di Ferdinando in Sicilia, fu in quell'isola proclamata una Costituzione simile alla Costituzione inglese. A tale pro­clamazione, fatta per soddisfare quelle popolazioni, im­portante fu il concorso degli Inglesi, i quali, a mezzo di Nelson prima e di Lord Bentinck poi, desideravano ac­quistare simpatie in Sicilia, data l'importanza di essa come valore strategico e come valore commerciale.

Ad ogni modo, qualunque siano state le cause e gli interessi che la provocarono, la Costituzione del 1812 fu la prima, dopo quella inglese, a venire proclamata in Europa. E solo nel 1848, ossia trentasei anni dopo, avvennero le proclamazioni di Costituzioni in altri Stati italiani.

Ma tornato Ferdinando a Napoli, il Parlamento sici­liano non fu piÙ convocato, dato l'obbligo dei governi della penisola di attenersi ai patti sottoscritti con l'Au­stria a seguito del Congresso di Vienna e della Santa Alleanza.

I Siciliani protestarono facendo un appello alla nazione inglese, ma poiché questa aveva dato mano libera in Italia alla sua alleata Austria, la protesta non ebbe nessun seguito e questo per la egoistica abitudine di ogni potenza europea di quei tempi di fare o disfare le cose secondo che convenivano o meno ai propri interessi. Speriamo che si raggiunga presto la costituzione degli Stati Uniti d'Euro­pa e che di tutto ciÃ’ rimanga solo un lontano ricordo.

Nel 1817 i carbonari delle Puglie, del Salernitano, di Napoli, della Basilicata e delle Calabrie, cominciarono a mettersi d'accordo tra di loro per preparare un moto generale di intonazione liberale spinti soprattutto dalla partenza delle truppe austriache dal Regno e dalla illu­sione di poter contare su un largo seguito tra la popo­lazione; cosa, questa, che era lontana dalla realtÀ.

E lontana dalla realtÀ era soprattutto perché il regno dei sovrani borbonici non era affatto malvisto dalla mag­gioranza dei sudditi.

Per suffragare questa affermazione basta rileggere quanto fu scritto in quell'epoca dallo storico napoletano Colletta mentre era in esilio e non aveva quindi motivo di simpatia o di gratitudine verso il governo borbonico. Ecco quanto Colletta scriveva: « Nel 1815, ritornato al trono, Ferdinando sostenne o mutÃ’ leggermente gli or­dini del decennio precedente, per lo che vi erano, come innanzi, codici eguali, indi giusti; finanza grave, ma co­mune; amministrazione civile rigida, ma sapiente; e poi per leggi, come che offese talvolta, polizia senza arbitrio;



il potere giudiziario indipendente; i ministri del re e gli amministratori delle rendite nazionali soggetti a pubblico sindacato; e finalmente decurionati, consigli di provincia, cancelleria; tutte congreghe di cittadini e magistrati; at­tendenti al bene comune; le quali leggi e statuti compa-nevano una quasi libera costituzione dello Stato; i go­vernanti erano benigni, la finanza ricca, s'imprendevano lavori di pietÀ e di pubblica utilitÀ, prosperava lo Stato; felice il presente, felicissimo si mostrav al'avvenire; il regno di Napoli era tra i regni di Europa il meglio gover­nato e che piÙ larga parte serbasse del patrimonio delle idee nuove ».

CosÌ scriveva mentre era in esilio il galantuomo, il patriotta, colto ed amante del progresso, Pietro Colletta, storico di indubbio valore.

E da tale scritto appare evidente come il lavorio delle sette e delle consorterie segrete in tutti i tempi abbiano fatto piÙ male che bene e a tutti i popoli. E il male di­viene irreparabile quando a far parte delle sette segrete si trovino i militari. PerciÃ’ come dice Massimo d'Azeglio nei suoi Ricordi: « La rivoluzione militare È la piÙ brutta, la piÙ corruttrice, la piÙ dannosa per cattivi esempi e interminabili conseguenze. Se io non stimo e non amo un sistema, non lo servo; se ho accettato di servirlo mentre io amavo e stimavo, e se poi a ragione o a torto mi sono mutato, lascio di servirlo. Ma violare la fede data, mai».

D'Azeglio la pensava cosÌ per le sÈtte piemontesi che poi portarono ai tristi fatti del 1821 in Piemonte, fatti simili a quelli avvenuti nel 1820 nel Regno delle Due Sicilie.

E d'Azeglio era un galantuomo, patriotta e intelligente che seppe dare prova del proprio valore, anche come militare, quando, anziano, si trasformÃ’ da pittore e da scrittore, in valoroso ufficiale.

Bisogna pur ricordare che Ferdinando I col trattato di

Vienna del 12 giugno 1815 si era impegnato a non fare concessioni in senso liberale come del resto si erano im­pegnati il Re di Sardegna e tutti gli altri regnanti della penisola italiana.

Ma la Carboneria, che aveva fatto molti proseliti tra i militari, con molta avventatezza e con molte illusioni circa una larga adesione di civili, stabilÃŒ di insorgere con­tro il Governo.

Nelle prime ore del 2 luglio 1820 due ufficiali, Morelli e Salvati, con centoventisette soldati disertarono dal quar­tiere e guidati dal prete Minichini si diressero verso Avellino, dove risiedeva il generale Guglielmo Pepe, il quale perÃ’ non era entrato a far parte di alcuna setta. Il Pepe si trovava a Napoli chiamato dal capo dell'eser­cito generale Muget, e avuto sentore di quanto stava succedendo, tornÃ’ di nascosto ad Avellino.

Ivi giunto raccolse altri armati e seppe che la rivolta si stava estendendo anche nelle Calabrie.

Intanto alcuni carbonari si presentarono alla reggia di Napoli per comunicare al Re che la rivoluzione era in atto e solo elargendo la Costituzione era possibile sedarla.

Il Re si tirÃ’ in disparte nominando suo Regio Vicario l'erede al trono Francesco, Duca di Calabria, il quale promise che la Costituzione sarebbe stata elargita entro pochi giorni.

Solo il generale Campana a Salerno, il generale Nun-ziante a Nocera e il generale Carrascosa a Noia, osteggia­rono la rivolta mentre il generale Rossarol a Capua si di­chiarÃ’ favorevole ai costituzionali.

Il giorno 8 luglio le truppe insorte giunsero al Campo di Marte a Capodichino e alle ore dodici sfilarono per via Toledo giungendo davanti al palazzo reale al cui bal­cone era affacciato il duca di Calabria con la famiglia.

Finita la rassegna, Guglielmo Pepe, con altri personag­gi, fu ricevuto dal Vicario Regio e a lui dichiarÃ’ di aver aderito alla rivoluzione per il bene dello Stato e invitÃ’ il duca di Calabria a convocare prontamente il Parla­mento. Il duca di Calabria accompagnÃ’ il generale Pepe, e i suoi accompagnatori, nella camera da letto del Re che diceva di essere ammalato. Il Re si complimentÃ’ con il Pepe e il 15 luglio giurÃ’ nella cappella della reggia di rispettare la Costituzione.

Dopo pochi giorni fu nominato un nuovo consiglio di ministri ove non figurava nessun carbonaro per la sem­plice ragione che i costituzionali non avevano nessun uomo adatto a reggere la cosa pubblica e preferivano per­ciÃ’ che fossero nominati dei borbonici piÙ atti a tale bisogno.

Ma quasi subito tra i soldati ribelli si accesero dispute, perché ognuno voleva una promozione e la vita di Gu­glielmo Pepe corse pericolo, dato che molti soldati che avevano disertato dall'esercito per insorgere, adesso di­sertavano nuovamente dall'esercito dei disertori perché malcontenti per interessi personali. E, quindi, si ebbero combattimenti con molti morti tra i disertori che avevano disertato una volta sola e i disertori che avevano diser­tato anche una seconda volta.

Tutti si iscrivevano alla Carboneria la quale insuper­biva e di conseguenza compiva eccessi contro i suoi avversari.

Il Regio Vicario con un editto aveva indetto le ele­zioni legislative per i giorni 20, 27 agosto e 3 settembre. E cosÃŒ fu varata la Costituzione spagnola.

Santorre di Santarosa, scrivendo della rivoluzione pie­montese del 1821, si esprimeva cosÃŒ: « I Napoletani non dovevano proclamare la costituzione spagnola pochissimo conosciuta in Europa, ma al suo posto avrebbero do­vuto proclamare la costituzione siciliana del 1812. Que­sta È pochissimo conosciuta in Europa e non È altro che la costituzione inglese senza l'ineguaglianza nel diritto

elettorale e senza quegli avanzi di feudalismo che ne alterano le belle proporzioni; essa era piÙ popolare della Carta francese, sia perché l'iniziativa delle leggi non vi È esclusivamente riservata al Re, sia per le disposizioni elet­torali, sia per i municipi organizzati sopra basi larghis­sime; sarebbe stato facile purgarla da qualche difetto di redazione e farne sparire secondarie particolaritÀ che male armonizzavano con l'insieme. Adottandola, Napoli, avrebbe conseguito il precipuo vantaggio di evitare le sanguinose gare con la Sicilia, scandalo in Europa, do­lore italiano »5.



In conclusione dallo scritto di Santarosa si rileva il riconoscimento ufficiale (fatto da un piemontese di ele­vato valore patriottico ed intellettuale), come in Italia la prima regione dove si adottÃ’ una carta costituzionale fosse stata la Sicilia.

È ben vero che tale carta fu potuta adottare perché la Sicilia era protetta dall'Inghilterra, ma È altrettanto vero che se le persone colte e la nobiltÀ siciliana non avessero voluto ottenere, con ferma decisione, tale costi­tuzione del 1812, mai e poi mai sarebbe venuto in mente agli inglesi di aiutare la popolazione dell'isola ad ottenerla.

In tale modo È bene ricordare ancora una volta, dato che qui si parla di storia nazionale, che in fatto di idee liberali, moderne, sia dal punto di vista politico che da quello sociale, non solo i filosofi e gli studiosi napoletani precedettero di alcuni decenni i famosi « diritti dell'uo­mo » proclamati dalla rivoluzione francese, ma che, con la costituzione proclamata e messa in uso nel 1812, i Siciliani precedettero le altre regioni d'Italia di circa un quarantennio.

Naturalmente con il Congresso di Vienna e la Santa Alleanza tutto ciÃ’ andÃ’ in malora, ma resta fermo e ben chiaro che sia i Napoletani, che i Siciliani, niente ave­vano da imparare in fatto di idee moderne, ma avevano invece molto da insegnare alla stessa Francia, senza par­lare poi di tutte le altre regioni italiane. Ma nella storia ufficiale fin qui in atto e specialmente in quella scritta ad uso della gioventÙ di tutto questo non si È mai fatto parola.

La rivoluzione di Napoli fu conosciuta a Palermo solo la sera del 1 luglio e fu accolta con letizia. Ma la Sicilia aveva vivo il ricordo della propria Costituzione del 1812 e cosÌ un gruppo di nobili reclamarono a favore dell'isola la loro Costituzione con lo scopo recondito di staccare la Sicilia dalla parte peninsulare del Regno. L'indipendenza da Napoli era sempre stato il sogno dei Siciliani e cosÌ si ebbero dimostrazioni popolari che si tramutarono in vera rivolta con assalto al forte di Castel-lammare e varie altre violenze.

Si ebbero 500 soldati morti o feriti e cinquantatrÈ mor­ti e sessantasei feriti tra i popolani.

Il popolo napoletano a tali notizie tumulto chiedendo, tra l'altro, l'arresto di tutti i Siciliani presenti in Napoli tenendoli in ostaggio fino a che gli isolani non riman­dassero in continente i Napoletani tenuti a loro volta in ostaggio. Ma non tutte le cittÀ siciliane andavano d'accordo tra loro e quelle orientali ( vedi Messina, Catania ecc. ) erano di parere diverso da quello di Palermo, Girgenti ecc.

Quindi lotte armate tra Siciliani e, conseguentemente, sbarco a Messina del generale Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, con un buon nerbo di soldati. Attraverso combattimenti sostenuti con varia fortuna il generale Florestano Pepe concluse il cinque ottobre, con l'inter­vento del console austriaco, un accordo con i rivoltosi.

A Napoli tale accordo fu condannato da tutti e Flore­stano Pepe fu sostituito dal generale Pietro Colletta che giunse a Palermo il 7 novembre e « si condusse con fer­mezza e prudenza, con grande sentimento di giustizia,

si da meritare se non l'affetto, la stima dei Palermitani». Il Colletta ammoniva il Governo di Napoli ad essere giusto, saggio e prudente; « una sola di queste qualitÀ che ci manchi, la Sicilia sarÀ perduta per noi, o non potremmo contenerla che per le vie aborrite della for­za ». Il Colletta poi abolÃŒ la Giunta e, fatto prestare giuramento ai funzionari, ordinÃ’ le elezioni al Parla­mento napoletano.

Ma tutto questo fu superato e sommerso dai gravi provvedimenti messi in atto dalle Potenze direttrici della Santa Alleanza.

Il Mettermeli ministro degli esteri austriaco scriveva fin dal 17 luglio annunziando che « il sangue scorrerÀ a torrenti » e anche l'Inghilterra, che pure non aveva ade­rito alla Santa Alleanza, giudicÃ’ severamente la rivolu­zione napoletana. Il ministro inglese a Napoli deplorava che « un regno che aveva raggiunto il piÙ alto grado di felicitÀ, sotto il piÙ dolce dei governi, fosse crollato per opera di un pugno di insorti, che mezzo battaglione di buoni soldati avrebbe disperso in un istante ».

Ma il ministro inglese faceva finta di ignorare che erano proprio i soldati, comandati dai migliori generali, quelli che si erano ribellati e faceva anche finta di igno­rare che, se il suo governo da Londra gli aveva dato l'ordine di assumere tale atteggiamento, era perché in quel momento l'interesse dell'Inghilterra consisteva nel­l'andare d'accordo con la Santa Alleanza, mentre il Re e i principali uomini del Governo britannico si mostra­vano persuasi « che non si potesse accordare alcuna at­tenuante o giustificazione al moto napoletano, costituen­do esso un pericolo per l'intera Europa, e che si dovesse riconoscere nell'Austria non dubbio interesse di inter­vento con vantaggio anche degli altri Stati, i quali pote­vano avvantaggiarsi dell'azione militare austriaca, senza sobbarcarsi ad oneri e maggiori responsabilitÀ ».

Pure la Francia e la Russia condannavano i moti di Napoli. Solo la Francia era incerta sul contegno da tenere in quanto essa temeva che un intervento austriaco con­tro il regno partenopeo potesse accrescere la potenza asburgica nella penisola italiana.

Il Governo napoletano, visto che i suoi ambasciatori a Vienna erano stati da Mettermeli rispediti a Napoli, come pacchi postali, tentÃ’ di mandare il Duca di Cimi-tile in Russia con una missione per lo Zar. Incontratosi a Vienna col Metternich questi gli disse: « tornate all'antico e fate ammenda con esemplare giu­stizia delle vostre colpe recenti ». « Ma non si troverÀ nessun uomo che se ne assuma la responsabilitÀ », re­plicÃ’ il Cimitile. « Le baionette austriache sono pronte, esse rimetteranno immediatamente l'ordine » — fu la ri­sposta di Metternich. E infatti cominciÃ’ il concentramento di truppe austria­che in Italia, mentre veniva convocato a Lubiana un congresso tra le varie potenze con l'invito categorico an­che a Ferdinando I di parteciparvi.



Finora si È sempre affermato che Ferdinando I È stato un perfido traditore, ma È una affermazione balorda per­ché né in Europa né in nessuna altra parte del mondo si sarebbe potuto trovare un sovrano capace di fare cosa diversa da quello che Francia, Russia ed Austria vole­vano che si facesse. Vedremo piÙ avanti come si com­portÃ’ il Re di Sardegna, che fu tra i primi a sollecitare l'intervento armato contro Napoli « onde fosse soffocata la rivoluzione e impedito il sovvertimento della intera penisola ».

I liberali napoletani si comportavano da valorosi e or­ganizzato l'esercito si avvicinarono ai confini del regno per andare incontro alle truppe austriache che stavano per sopravvenire.

II generale Guglielmo Pepe fu inviato in difesa dell'Abruzzo e il generale Carrascosa in difesa del Gari-gliano; Pietro Colletta richiamato a Napoli fu nominato ministro della guerra. Ma le armi difettavano e le reclute erano inesperte.

Il 23 febbraio 1821 fu diffuso un proclama del Re col quale si invitava la popolazione ad accogliere amichevol­mente l'esercito austriaco unendosi ad esso per assicurare la tranquillitÀ e proteggere i veri amici del bene della Patria. I soldati napoletani si scontrarono con quelli austriaci, ma, nonostante il valore dei generali, si sbandarono. E questo insegna come quando si provocano e si ap­provano le rivolte militari si stabilisce automaticamente il principio che il soldato puÃ’ disubbidire sempre e do­vunque, dato che lui non sarÀ mai in grado di giudicare quando sia la volta buona o quando quella cattiva.

Si disse poi che Ferdinando I aveva distrutto la base morale della sua dinastia nella coscienza della nazione. Ma la base morale era stata distrutta dalla rivoluzione, preparata e provocata dall'incoscienza e dalla malafede di alcuni cospiratori imprudenti ed indegni del nome di « patriotti », i quali compromisero con grande leggerezza il nome di molti militari d'onore e di molti intellettuali di ingegno profondo e di notevole cultura che pagarono per tutti, subendo comunque e andando in esilio.

Ormai per colpa della rivoluzione francese e della prepotenza militare francese era stato sconquassato tutto il mondo civile. Per colpa della corruzione, dello sper­pero, della bancarotta finanziaria francese durante il re­gno del Re Sole e dei suoi successori, tutto il mondo civile dovette subire la prepotenza e la rovina provocata dai giacobini prima e dal fanatismo napoleonico poi. E dopo la caduta di Napoleone, il crollo generale per colpa della reazione degli stati piÙ potenti d'Europa. Si persero quaranta anni in tentativi di rivoluzioni, con un numero infinito di martiri e di episodi obbrobriosi e di episodi gloriosi, in conseguenza delle galliche immo­ralitÀ seguite poi dalle pazzie rivoluzionarie e da quelle militari della « grandeur francaise ». « Grandeur » che costÃ’ all'Europa milioni di morti, di violenze, di saccheggi e di miserie 6.

Naturalmente molte furono le vittime dei moti del 1820 nel Regno delle Due Sicilie, e i processi a carico dei presunti colpevoli si trascinarono per tre mesi. I di­fensori parlarono con ardita parola come se non fosse stata causa politica « in quei tempi pericolosi e feroci » e la sentenza data con quattro voti su sette condannÃ’ gli inquisiti: trenta alla pena di morte, tredici all'erga­stolo e alla galera a tempo. Il Re fece grazia della vita a tutti i condannati tranne che al Morelli e al Salvati i quali morirono sulla forca; gli altri, incatenati, furono inviati a stentare la vita negli ergastoli di Santo Stefano e Pantelleria.

A Messina fu nominata una commissione militare, cui fu affidato di giudicare i fautori del tentativo di rivolta. Il processo contro cinquanta accusati (dei quali venti­sette in stato di arresto e ventiquattro in contumacia) finÃŒ il 28 febbraio 1822 con nove condannati a morte (quattro erano contumaci) e numerose condanne all'er­gastolo e alla galera per molti anni. Ad uno solo dei con­dannati a morte fu commutata la pena in quella di ven­ticinque anni di ferri nel bagno di Santo Stefano di modo che gli altri condannati ( sacerdoti Giuseppe Briganti, Sal­vatore Cesareo, Vincenzo Fucini, Camillo Pisano) furono portati nei pressi della Cittadella e moschettati.

Cento giorni di carcere nel forte di Sant'Elmo, ove era stato rinchiuso il 22 aprile del 21, aveva subito il generale Pietro Colletta e come lui il Pedrinelli, l'Arcovita, il Pepe Gabriele, il Poerio e il Borrelli. Il Re aveva infine deciso che tutti costoro fossero fatti partire dal

Regno e inviati per mare a Trieste e poi a Graz dove soffrirono fame e tristezze infinite, colpevoli di aver cre­duto in un ideale di libertÀ e di giustizia e per tale de­litto puniti dalle armi austriache dirette dal tremendo tiranno Metternich, incapace di comprendere come da tali martiri la passione per la libertÀ e soprattutto la pas­sione per la cacciata degli eserciti stranieri dall'Italia sa­rebbero divenute sempre piÙ profonde, accelerando i tempi della futura riscossa.

Dopo non molto tempo gli esiliati napoletani otten­nero di mutare il loro soggiorno di Gratz con quello di Firenze ove si trovarono molto meglio sia per il clima che per la cortesia di quella popolazione e la mitezza del regime granducale.

A Firenze Pietro Colletta scrisse « La storia del Re­gno di Napoli », della quale È stato riportato un brano al principio di questo capitolo. Anche a Firenze, il gene­rale Gabriele Pepe sfidÃ’ a duello il poeta francese Lamar-tine che aveva insultato l'Italia chiamandola « terra di morti ». Il comportamento del Pepe fu cosi nobile, sia prima dello scontro che dopo lo scontro, che il Lamartine, rimasto ferito, divenne amico ed ammiratore del suo avversario.

Il cugino, generale Guglielmo Pepe, si era invece rifu­giato in Inghilterra. A questo punto È bene riaffermare che i martiri siciliani e quelli napoletani furono i precur­sori del martirologio italiano, seguito un anno dopo dai martiri piemontesi prima illusi e poi abbandonati a loro stessi dal principe Carlo Alberto del ramo Carignano dei Savoia.





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