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IL REGNO DI SARDEGNA E LA CONCESSIONE DELLO STATUTO

Storia



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IL REGNO DI SARDEGNA E LA CONCESSIONE DELLO STATUTO

Sia a Genova, che a Torino e in altri centri del Pie­monte, le notizie delle rivolte liberali in Sicilia e nel Napoletano avevano creato un grande fermento.

Specialmente a Genova il fermento era maggiore e nelle dimostrazioni popolari i giovani piÙ in vista erano i maz­ziniani GofTredo Mameli e Nino Bixio. Forte era il ran­core della popolazione contro l'ordine religioso dei Ge­suiti, considerato come il piÙ accanito avversario delle riforme liberali e, pertanto, a partire dal 4 gennaio 1848, in pochi giorni vennero raccolte ventimila firme in calce ad una petizione da mandare al governo di Torino e nella quale petizione si domandava, né piÙ, né meno, che la espulsione dal Regno dell'Ordine dei Gesuiti, oltre alla istituzione della guardia civica.Tale petizione fu affidata ad una commissione compo­sta di cittadini colti e stimati i quali il 7 e l'8 gennaio giunsero a Torino per presentarla al Re Carlo Alberto.



Carlo Alberto a tale notizia rimase sdegnato e mani­festÃ’ il suo disappunto contro il governatore di Genova e l'intendente della polizia i quali non avevano saputo evitare tale «sgradevole sedizione». Quindi ordinava che appena giunti i genovesi a Torino fossero accompagnati al Ministero e dopo due ore rispediti a Genova, man­dando inoltre una staffetta al governatore di Genova af­finchÈ facesse immediatamente agire la truppa contro ogni dimostrazione popolare.

Si pensÃ’ anche di richiamare una classe, in servizio di ordine pubblico, mentre Carlo Alberto dichiarava ai suoi ministri che « i genovesi conservano sempre il desiderio di indipendenza sperando nell'aiuto dell'Inghilterra ».

Non appena i genovesi latori della petizione giunsero a Torino, furono ricevuti all'albergo d'Europa da un gruppo di torinesi fra i quali Lorenzo Valerio, Camillo Cavour, Predari, Roberto d'Azeglio, Giacomo Durando, Riccardo Sineo e Giovanni Lanza. Camillo Cavour di­chiarÃ’ che il presentare una petizione domandante l'espul­sione dei Gesuiti era una cosa impolitica e urtante i sen­timenti religiosi del Re. Sarebbe stato preferibile doman­dare una Costituzione al fine di portare le discussioni di­sordinate fatte in pubblico nella sede legale pubblica e solenne del Parlamento. I presenti non riuscirono a met­tersi d'accordo e i liberali genovesi, ricevuti dal ministro Borelli, furono ammoniti severamente, mentre Carlo Al­berto si rifiutava di riceverli negando la loro qualitÀ di legali rappresentanti di Genova.

Intanto la popolazione piemontese e la ligure venivano turbate dalle notizie dei sanguinosi episodi che avevano luogo a Milano e in altre cittÀ della Lombardia tra popo­lazione, polizia e soldati austriaci, e accoglievano con simpatia i primi giovani profughi lombardi mentre le ultime notizie sui moti siciliani e napoletani accrescevano l'eccitazione degli animi.

La notizia che il 29 gennaio a Napoli era stata procla­mata la Costituzione dette luogo a grandi manifestazioni di gioia in ogni centro del Regno Sardo e a Torino fu deciso di illuminare la cittÀ e che una dimostrazione anclasse a porgere le sincere congratulazioni all'ambasciatore del Re delle Due Sicilie. Infatti oltre duemila persone, con torcie e bandiere, si recarono davanti alla residenza del console napoletano. Ma alla corte le idee erano molto lontane da quelle espresse dai liberali e dai dimostranti.

Carlo Alberto dichiarava al San Marzano che trovava « non ammissibile far salire al trono il voto illegale di una minoranza sediziosa » e a Roberto d'Azeglio faceva la seguente affermazione: « io voglio, come voi, la libe­razione dell'Italia, e per questo, ricordatevelo, non darÃ’ mai una Costituzione al mio popolo ». Il conte de La Tour, al quale il Re aveva fatto una identica dichiarazione, rac­contava l'episodio, mettendo in evidenza come gli stessi cortigiani che lo circondavano, non avessero alcuna stima della fermezza del suo carattere. CosÃŒ narrava il de La Tour: « dunque vogliono la Costituzione, ma non la darÃ’ mai, ha detto il Re; dunque la darÀ e presto » e nel dire cosÃŒ il de La Tour assumeva un'espressione piena di malizia.

Era un'ironia molto irriverente, fatta da un cortigiano contro il proprio Re e ricordava quella, allora recente, di alcuni cortigiani i quali, al momento della partenza di Carlo Alberto per Genova, vedendolo abbracciare quattro volte il conte de La Tour, dissero tra di loro: « È bello e spacciato », tanto poco era la stima che quei gallonati cortigiani avevano per il proprio Re e per la sua lealtÀ.

Non appena a Carlo Alberto giunse la notizia ufficiale della Costituzione concessa da Ferdinando II (forse il 1' febbraio 1848) scrisse al ministro Borelli la seguente lettera: « II Re di Napoli, non poteva far niente di piÙ fatale per la tranquillitÀ dell'Italia, di quanto lui ha ac­cordato ai suoi popoli, dopo il massacro delle sue truppe e la flagrante rivoluzione. Ma non bisogna perdersi di coraggio per questo; al contrario. Se a Genova ci sarÀ una dimostrazione di gioia, come prevede il governatore

La Plenargia, e che lui crede di non potere impedire, pazienza. Ma per nessuna cosa al mondo egli non deve tollerare qualsiasi manifestazione che abbia per scopo il domandare una Costituzione. In tale caso la mia ferma volontÀ È che bisogna combattere fino all'estremo ma non accordare niente ad una domanda proveniente da un'insurrezione ».

Questo era l'intimo, spontaneo, pensiero di Carlo Al­berto.

Il Borelli era un ministro considerato, come i suoi colleghi di Gabinetto, un retrivo e non certo un amante di novitÀ, ma con tutto ciÃ’ capiva che l'esempio della Costituzione concessa a Napoli era una cosa da esami­nare con serietÀ e con obiettivitÀ e disse al Re che la Costituzione era una cosa da introdurre, inevitabilmente, anche negli Stati Sardi e che la decisione di Ferdinan-do II annullava il primato morale che Carlo Alberto si era conquistato nell'animo degli Italiani, e che Leopol­do II in Toscana stava per seguire l'esempio del Re di Napoli. Ma Carlo Alberto alle insistenze dei suoi ministri rispose che piuttosto che concedere la Costituzione avreb­be preferito abdicare in favore del suo primogenito prin­cipe Vittorio Emanuele e questo perché la Reggia sa­bauda prima, ed egli stesso in un momento successivo, avevano fatto solenne promessa scritta di no» concedere una legge costituzionale.

E il ministro Petitti di Roreto confermava che al con­gresso di Lubiana nel 1821 i Re di Sardegna e delle Due Sicilie si erano impegnati, con un formale trattato, a non concedere una Costituzione ai loro sudditi. Inoltre Carlo Alberto, reduce dal Trocadero, aveva fatto uguale giura­mento scritto nel gennaio 1824 a Carlo Felice. Ma tutti i ministri interpellati dichiararono al Re che ormai, dopo l'esempio di Ferdinando II era inevitabile, per il Re di Sardegna, accordare la Costituzione.

Carlo Alberto insisteva nei suoi propositi di abdica­zione e i liberali ne erano molto turbati poiché nel suo successore, principe Vittorio Emanuele, sposo di una principessa austriaca, vedevano piÙ difficile il raggiungi­mento dei loro ideali politici.

A Genova era incominciata un'agitazione che di giorno in giorno diventava piÙ minacciosa tanto che il governa­tore La Planargia scrisse a Torino che si poteva fare as­segnamento, per far cessare tale agitazione, solo su due sistemi; ossia: o concedere la Costituzione o proclamare lo stato d'assedio; e che il governo torinese scegliesse quale dei due sistemi voleva adottare.

Dopo infinite insistenze fatte dalla parte piÙ colta della nobiltÀ e della borghesia torinese, finalmente l'otto feb­braio 1848 Carlo Alberto autorizzÃ’ la pubblicazione di un manifesto che annunciava la prossima concessione del­lo Statuto, ma contemporaneamente si venne a conoscere che il Re non voleva ricevere nessuna commissione e pregava di non organizzare manifestazioni di riconoscenza e si chiudeva in un mutismo triste e preoccupante per chi gli stava vicino.

Naturalmente, in tutto il Piemonte e nella Liguria la popolazione esultante si dedicÃ’ spontaneamente a mani­festazioni di gioia con riunioni, cortei, luminarie e grande ostentazione di coccarde tricolori.

Lo Statuto firmato il 4 marzo fu promulgato il 5 mar­zo 1848.

A Roma il 10 febbraio 1848 Pio IX aveva pubblicato un proclama di intonazione liberale e in tutta Italia si ripeteva con giubilo la frase che chiudeva detto proclama e che era la seguente: « Oh, perciÃ’ benedite, Gran Dio, l'Italia, e conservatela sempre questo dono preziosissimo fra tutti, la Fede ! Beneditela con le Benedizioni che umil­mente Vi domanda, posta la fronte per terra, il Vostro Vicario ». Ed anche a Roma, come in tutta Italia, le grida che maggiormente risuonavano durante le popolari manife­stazioni erano: « Viva Napoli, Viva la Sicilia, Viva la Costituzione ».

Ma nel 1961, commemorando il centenario dell'UnitÀ d'Italia in Torino, il primato nelle insurrezioni del po­polo siciliano, primo tra tutti, e del popolo napoletano poi, non È stato ricordato e non si È nemmeno sentita la necessitÀ e il dovere di ricordare la cittÀ di Palermo e tutta la Sicilia, con la presenza ufficiale di suoi rappre­sentanti. Eppure Palermo e tutta la Sicilia, nel 1812, È bene sempre ripetere, ossia mentre l'Europa subiva la tirannia militare di Napoleone e dei Napoleonidi, pretese ed ottenne da Ferdinando IV di Borbone rifugiato nel­l'isola, l'emanazione della prima Costituzione elargita nel continente europeo dopo quella inglese.

E nel 1820 a Napoli e a Palermo si iniziarono i moti liberali italiani seguiti poi nel 1821 da quelli del Pie­monte.

Nel 1848 Palermo e Napoli furono ancora le prime cittÀ italiane insorte per ottenere la Costituzione.

E Palermo e Napoli ancora una volta diedero l'esempio a tutti gli altri Stati italiani, e il loro esempio fu imitato e seguito dagli Stati Pontifici, dalla Toscana, da Genova, dal Piemonte, dagli Stati della Val Padana e dal Lom­bardo-Veneto.

Ma a Torino nel 1961 tutto ciÃ’ non È stato messo nella dovuta luce. Non si capisce se questo sia avvenuto per cattiva volontÀ o per involontaria dimenticanza di quel periodo della storia patria. Forse la seconda ipotesi È la piÙ verosimile e giustifica ed incoraggia questa fa­tica di aggiornamento della storia del Risorgimento ita­liano, affinchÈ tutti gli Italiani si rendano conto di quanto essi debbano, per la loro libertÀ e il loro progresso poli­tico, ai fratelli siciliani e napoletani.



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