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L'ESERCITO DI FRANCISCHIELLO PARTE SECONDA

Storia



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L'ESERCITO DI FRANCISCHIELLO PARTE SECONDA

Chi era Francesco II? Era figlio di Ferdinando II e di Maria Cristina di Savoia, figlia di Vittorio Emanue-le I. Il matrimonio fu celebrato a Genova e la vedova di Carlo Felice presentando la sposa a Ferdinando II, gli disse: « Io vi do in moglie una giovane timida, poco esperta delle cose del mondo; amatela, essa È degna di voi; avrete a compagna una giovane santa ».



E santa fu Maria Cristina; tale la battezzÃ’ il popolo napoletano che l'amÃ’ e la ricorda tuttora con affetto; ed ogni giorno ardono dei ceri davanti alla sua tomba sita nella chiesa di Santa Chiara, ceri quotidianamente rin­novati dai fedeli napoletani.

L'ambiente napoletano, come cielo, panorami, esube­ranza di caratteri, ma soprattutto come fasto (culmi­nante nei palazzi reali di Napoli, Capodimonte e Caserta) era simile a quello borbonico di Madrid e di Parigi. Tutto ciÃ’ dovette stordire non poco la giovane regina, abituata ad ambienti piÙ freddi e piÙ rigidi, per clima, per abitudini e per cornici architettoniche.

Lo stesso carattere impetuoso e giovialone del marito era molto differente dalla riservatezza dei caratteri su­balpini che di fatto erano quelli degli abitanti delle tur­rite e severe dimore principesche della Savoia e della Valle d'Aosta. Il carattere di Ferdinando II aveva il pregio grande della sinceritÀ, scevra dalle ipocrisie di una rigida e in­concepibile, per lui, etichetta formale tra coniugi.

Soprattutto Ferdinando fu un marito fedele per Maria Cristina, cosÃŒ come marito fedelissimo fu per la sua se­conda moglie, madre di undici figli; grande differenza questa, tra lui e i principi regnanti in altre piÙ nordiche latitudini. Naturalmente, leggende infinite si crearono circa dissa­pori e incomprensioni tra moglie e marito; e in tali leg­gende molta parte ebbero le malignitÀ che mai non man­carono a danno sia dei principi che del popolo napo­letano. Sta di fatto che Ferdinando II aveva grande rispetto per la moglie, nonostante che lui avrebbe preferito una compagna piÙ allegra e disinvolta. CiÃ’ non impedÃŒ a Ferdinando di avere profonda considerazione per la re­gina e ne accettava i consigli, cercando anche di smussare le durezze derivate dalla propria passione per la vita di caccia e l'abitudine di occuparsi principalmente di ca­serme e di riviste e ispezioni militari.

Il re diceva ai suoi intimi: « Maria Cristina, me sta educanno ». Ma È bene ricordare come Maria Cristina, da parte sua, scrivesse alla sorella Maria Beatrice, du­chessa di Modena, lettere piene di elogi per il marito e la di lui famiglia. Il 16 gennaio 1836 nacque Francesco. Maria Cristina non sopravvisse a lungo; morÃŒ infatti due settimane do­po, spirando santamente dopo una vita da santa. E a Francesco, per i napoletani, rimase il titolo di: « 'o figlio d'a Santa ». Le napoletane e i napoletani con sentimenti materni e paterni si abituarono a chiamare l'orfano « d'a santa » col vezzeggiativo di « Francischiello », affettuoso e niente affatto spregiativo come chi, non conoscendo il cuore dei meridionali, ha creduto che fosse. Francesco II crebbe malinconico e di carattere chiuso come sua madre; crescendo studiÃ’ l'arte della guerra e le discipline giuridiche. Quando morÃŒ suo padre, si trovÃ’ in giovane etÀ col peso del regno sulle spalle inaspetta­tamente e senza la preparazione necessaria. La moglie, da lui sposata poco prima della morte di Ferdinando II, era Maria Sofia Amalia di Wittelsbach, quartogenita di Massimiliano duca di Baviera.

Era una donna bella, vivace, di forte carattere, e per tali qualitÀ non incontrÃ’ la simpatia della suocera, se­conda moglie di Ferdinando II e quindi matrigna di Francesco. Francesco giovanissimo e inaspettatamente re (il padre morÃŒ non ancora cinquantenne) si trovÃ’ in una bufera politica che squassava tutta l'Europa e con l'Italia al centro delle rivalitÀ franco-austriache. La guerra del '59 con la sconfitta dell'Austria e con l'annessione al Piemonte della Lombardia, della Toscana e dei granducati della Val Padana e di Ferrara e Bolo­gna, portÃ’, come era inevitabile, un gran fermento in tutte le regioni italiane che ancora non erano state coin­volte negli avvenimenti militari di quell'anno.

Garibaldi con la sua ardita spedizione colse di sor­presa Francesco II e i suoi ministri cortigiani. Se tale avvenimento con il suo clamoroso e glorioso successo stupÃŒ e trovÃ’ impreparato lo stesso Cavour, ben di piÙ dovÈ stupire e cogliere di sorpresa il giovane re borbo­nico. E quest'ultimo tra l'altro, di carattere retto e di natura semplice, viveva circondato dall'astio della ma­trigna, che avrebbe preferito un proprio figlio come suc­cessore del proprio marito Ferdinando II, e dall'invidia dei fratellastri e degli stessi zii. Vita difficile, anche per-

che solo da poco tra Francesco e Maria SofÃŒa si era stabilita una relazione di vero affetto e di stima reciproca. Cosa quest'ultima di non facile attuazione per coniugi sposatisi senza essersi conosciuti prima del matrimonio avvenuto per procura; pedine innocenti ed ignare, tutti e due, di interessi dinastici e politici.

Pubblicato il saluto di Francesco II ai suoi sudditi il 6 settembre 1860, dopo essersi accomiatato dai ministri e personaggi di corte rimastigli fedeli, agli ufficiali pre­senti nella sua anticamera, disse: « Signori ci rivedremo in linea » e in uniforme militare, dando il braccio alla regina e seguito da sei aiutanti generali e dal maresciallo di campo principe Nicola Brancaccio, s'imbarcÃ’ sul Mes­saggero che agli ordini del comandante Criscuolo alle ore sei sciolse gli ormeggi, segnalando alle navi da guerra di seguirlo. Ma le navi non si mossero, data la propa­ganda fatta dall'ammiraglio sardo Persano, ottimo ma­neggione politico, ma, come poi si verificÃ’ a Lissa nel 1866, comandante pavido e infido nel combattimento. Solo la fregata a vela Partenope, comandata da Alberto Pesca, seguÃŒ il re a Gaeta. Ma non tutti i marinai erano del parere di considerare ormai finita la guerra per i Borboni di Napoli. Alcuni raggiunsero a nuoto la Parte­nope e altri raggiunsero a piedi, con stenti infiniti, la fortezza di Gaeta, quando ne era stato giÀ iniziato l'as­sedio.

E dalle Calabrie, dagli Abruzzi, alla spicciolata accor­sero spontaneamente, in mezzo alle piÙ grandi difficoltÀ, ufficiali subalterni e semplici soldati che non volevano e non potevano rassegnarsi alla scomparsa del loro re. Giunto Francesco II a Gaeta, si occupÃ’ subito della riorganizzazione dei reparti del suo esercito che gli erano rimasti fedeli e immediatamente la situazione militare nella quale vennero a trovarsi le truppe di Garibaldi cambiÃ’. Non piÙ entusiastiche adesioni ed acclamazioni delle folle di tutte le cittÀ e paesi incontrati lungo il per­corso, ma una resistenza tenace da parte dei soldati napoletani, che passavano al contrattacco infliggendo per­dite notevoli agli assalitori27. E questo avvenne partico­larmente a Caiazzo, dove i borbonici, agli ordini del ge­nerale Colonna di Stigliano e del colonnello La Rocca, ebbero un grosso successo sulle truppe comandate dal ga­ribaldino TÙrr; le quali truppe perdettero un migliaio di uomini e dovettero ritirarsi lasciando gran quantitÀ di prigionieri tra i quali otto ufficiali che avevano cercato rifugio presso il Vescovo di Capua. Cose queste mai avvenute dallo sbarco di Marsala in poi.



Naturalmente, si ebbero episodi di valore dall'una e dall'altra parte e un giovane alfiere borbonico di nome Dioguardi portÃ’ a Francesco II due bandiere prese al­l'avversario, mentre il vecchio generale a riposo Rossa-roll, ripreso servizio « perché il soldato non È mai in ritiro in tempo di guerra » cadeva gravemente ferito portando all'assalto le proprie truppe. Il 1' ottobre le truppe napoletane da Capua, travol­gendo le prime linee garibaldine, occupavano S. Angelo e Tommaso. Lo stesso Garibaldi fu sorpreso da un at­tacco di cacciatori napoletani, mentre si recava verso le linee ed ebbe ucciso il cocchiere e ferito un ufficiale del suo Stato Maggiore. Ma Garibaldi riprese lui la direzione della battaglia, (che aveva dovuto abbandonare per re­carsi a Palermo) ne rovesciÃ’ le sorti in proprio favore. E non fu cosa semplice tanto che lo stesso Garibaldi lasciÃ’ scritto nelle sue «Memorie» quanto segue: «Chi decise la battaglia furono le riserve giunte sul campo verso le tre del pomeriggio. Se esse fossero state tratte­nute da un Corpo nemico, la giornata risultava per lo meno indecisa. CiÃ’ prova essere state le disposizioni dei generali borbonici non tanto cattive ».

I garibaldini di fronte ai reggimenti borbonici, pieni di entusiasmo per difendere il proprio Re, e ben coman­dati, ebbero un duro osso da rodere. E soprattutto capi­rono che difficilmente avrebbe capitolato la fortezza di Capua; mentre una colonna di garibaldini al comando del valoroso Nullo, rimaneva disfatta in un combatti­mento ad Isernia.

Entrato in azione l'esercito di Vittorio Emanuele, giun­to da poco attraverso le Marche e gli Abruzzi, si iniziÃ’ il bombardamento di Capua. Giuseppe Bandi a questo pro­posito narra quanto segue: « Comandavo un battaglione del reggimento di Griziotti, che fu il primo della brigata Basilicata e dovevo passare la notte presso il cimitero di Santa Maria. Quando Garibaldi comparve in fondo alla strada, feci pigliar le armi ai soldati per salutarlo. Gari­baldi, giunto in faccia al battaglione, fermÃ’ di botto il cavallo e mi fece cenno che mi avvicinassi a lui.

— Vedete — mi disse — vogliono bombardare a tutti i costi, e io me ne vado perché non ho cuore di assistere a tanto barbaro spettacolo. Nessuno deve avere diritto di chiamarmi bombardatore. E strettami la mano, salutÃ’ i volontari, gridando loro con quella sua voce che innamorava: — Addio, figliuoli, addio — II giorno dopo, Capua bombardata capitolÃ’. Caduta Capua, il com­pito dei garibaldini era finito e mentre l'esercito regolare s'apparecchiava ad assediare Gaeta, Garibaldi, accortosi che sia lui che i suoi volontari non erano piÙ che ospiti, s'apparecchiÃ’ a ritornarsene a Caprera e, come scolpÃŒ il Poeta:

« donato il regno al sopraggiunto Re

ora sen torna al sasso di Caprera

il Dittatore. Fece quel che potÈ.

E seco porta un sacco di semente ».

L'epopea garibaldina aveva termine; cominciava un assedio, da terra e da mare, della fortezza di Gaeta, ufficiali e soldati borbonici sicuri di avere perduto, resiste­vano cento giorni ad un bombardamento fatto con can­noni rigati contro cannoni lisci e di minore gittata.

Cominciava cosÃŒ un'altra epopea: quella di una giovane coppia regale che, circondata da autentici eroi votati al sa­crificio e alla morte, vedeva smantellare giorno per giorno, bastioni, batterie, polveriere e poi infierire il tifo. Mentre le navi di Persano bombardavano facilmente le pattuglie borboniche che uscivano dalla fortezza di Gaeta per com­piere esplorazioni sia sul litorale sud che su quello a nord. Ma i soldati e gli ufficiali napoletani non volevano arrendersi; e non certo per la speranza di fare carriera o di godere futuri benefici. Resistevano e morivano; e i superstiti resistevano ancora. Maria Sofia compariva sui bastioni e narra la leggenda che in quei momenti il co­mandante dell'esercito piemontese desse ordini ai suoi artiglieri: « non sparate, quando compare l'Augusta Si­gnora ». E tale « Augusta Signora » quando il generale Cialdini a mezzo di un parlamentare le mandÃ’ a dire di far innalzare una bandiera nera sulla di lei abitazione onde salvarla dal tiro dei cannoni, cosÃŒ fece rispondere da un proprio incaricato: « Sebbene la MaestÀ della Re­gina sia rimasta sensibilissima alla cavalieresca cortesia di V.E. pure vorrÀ Ella permettere che invece di porre la bandiera sul palazzo di S.M., si possa inalberarla sul tempio di San Francesco, edificio monumentale elevato e diretto dal chiaro architetto, forse a V.E. non ignoto, signor Giacomo Guarinelli ».



Risposta da grande sovrana, coraggiosa ed altera, cui ripugnava nascondersi sotto la protezione di una ban­diera issata sul proprio tetto per non correre il rischio di un bombardamento inumano quanto vile, come era quello eseguito con cannoni a lunga gittata contro chi era armato di cannoni che non potevano adeguatamente rispondere all'avversario.

Fu una resistenza veramente epica e quei valorosi, ri­cordiamolo, erano italiani. E il Re era napoletano e sua madre era una principessa di Savoia. Mai nella storia, nei lontani secoli e anche purtroppo dopo il 1861, una coppia regale o principesca, ha saputo dimostrare tanto sublime coraggio, quanto ne dimostra­rono Francesco e Maria SofÃŒa, i quali, ricordiamolo, erano convinti di avere giÀ perduto.

L'investimento della fortezza di Gaeta durÃ’ dal 4 no­vembre 1860 al 13 febbraio 1861. Gli assedianti avevano 164 cannoni dei quali 15 rigati a grande gittata e furono sparati 60.000 proiettili. La difesa disponeva di 170 cannoni dei quali solo 9 erano rigati, mentre i rimanenti erano di bronzo a corta gittata e risalivano alle guerre napoleoniche e spararono 35.250 colpi. Le perdite degli assediati furono: 506 morti per ferite, 307 per malattie, 743 dispersi e 800 feriti fuori della piazzaforte. Le per­dite dell'esercito assediante si limitarono a 50 morti e 350 feriti28.

Italiani di tutte le regioni d'Italia, meditate ed ammi­rate al ricordo del valoroso comportamento dei soldati borbonici e della famiglia reale. Erano i soldati elogia­ti da Napoleone e gli ultimi ad abbandonarlo durante la ritirata dalla Russia; i loro ufficiali provenivano dalla scuola militare dell'« Annunziatella » come il grande Ca­po di Stato Maggiore italiano Enrico Cosenz che nel 1892 (cosÃŒ afferma Luigi Cadorna) preparÃ’ il piano di difesa sul Piave, in caso di un'invasione austriaca e da Cadorna attuato dopo Caporetto. Dall 'Annunziatella era anche uscito il generale Pianell che nel 1866, passato nell'esercito nazionale, al comando di una divisione lungo il Mincio, disubbidendo agli ordini ricevuti e agendo di propria iniziativa, nell'infausta giornata della seconda Custoza, salvÃ’ l'esercito italiano dal completo accerchia­mento da parte dell'esercito austriaco. Erano ufficiali e soldati che parlavano napoletano come l'Armando Diaz di Vittorio Veneto.

E perché non si debbono onorare, almeno nel ricordo, tali valorosi? Perché non si insegna alla nostra gioventÙ che gli Italiani, da qualunque parte della barricata si trovino, sanno combattere e morire con dignitÀ ed onore?

Lo stesso Cialdini, il comandante delle truppe regolari, lasciÃ’ detto che l'esercito napoletano « provÃ’ di posse­dere valore e senno militare, da essere altamente pregiato da ogni uomo di guerra ».

E poi ancora: « Se non fossero Italiani che mi stan­no di fronte, sarei glorioso di combattere contro tali soldati ».

Il capitano De Filippis, comandante la batteria di Gaeta chiamata « Denti di Sant'Antonio », sette volte ferito rimase intrepido al comando. Il tenete Savio, morto mentre puntava un cannone, veniva sostituito im­mediatamente dal fratello Attilio, che poi cadeva sul cadavere del fratello. Una notte Maria Sofia, alle due dopo la mezzanotte, si portava sulla batteria « Ferdinando » mentre una bomba piemontese cadendo in mare lanciava un'onda sulla persona della regina; ed ella esclamÃ’: « Coraggio soldati, È questo il battesimo della vittoria ».

A tali parole la musica suonÃ’ l'inno reale e i marinai della Partenope, che servivano da cannonieri, proruppe­ro in entusiastiche acclamazioni.

Il 22 gennaio del '61 esplodeva una polveriera sep­pellendo 212 soldati, cento borghesi, il vecchio generale del genio Traversa e il colonnello Paolo di Sangro.

Poiché gli assediati tentavano di riparare la breccia apertasi, Persano mandÃ’ una nave a bombardare quelle rovine. Oh, se il Persano avesse impiegata quell'energia nel 1866 alla battaglia di Lissa, invece che contro gli eroi di Gaeta, avrebbe avuto non uno, ma due motivi in meno di rimorso.

Il 14 febbraio Francesco II, dopo ventun mesi di re­gno, salutÃ’ i suoi valorosi fedeli con queste parole: « Per voi miei fidi compagni di arme, per pensare al vostro avvenire, per le considerazioni che meritano la vostra lealtÀ, la vostra costanza e la vostra bravura, per voi rinuncio alla ambizione militare di respingere gli assalti di un nemico che non avrebbe preso una piazza difesa da tali soldati, senza disseminare di morti il suo cammino!

Quando voi tornerete in seno alle vostre famiglie, gli uomini d'onore si inchineranno al vostro passaggio e le madri mostreranno ai figli come esempio i prodi difen­sori di Gaeta »30.

Messaggio nobile che dopo cento anni deve essere te­nuto in considerazione da tutti gli Italiani perché gli Italiani eroici, per qualsiasi idea abbiano combattuto in buona fede, debbono sempre, da tutti gli Italiani, essere rispettati ed onorati.

Questo era, egregio lettore, il famigerato e disprezzato « esercito di Francischiello » dal punto di vista del co­raggio, e combatteva pur avendo nell'animo la radicata convinzione di trovarsi dalla parte perdente.





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