Scrigroup - Documente si articole

     

HomeDocumenteUploadResurseAlte limbi doc
BulgaraCeha slovacaCroataEnglezaEstonaFinlandezaFranceza
GermanaItalianaLetonaLituanianaMaghiaraOlandezaPoloneza
SarbaSlovenaSpaniolaSuedezaTurcaUcraineana

BiografiaBiologiaBotanicaChimicaComputerComunicazioneCostruzioneDiritto
EducazioneElettronicaFisicaGeografiaGiochiGrammaticaIngegneriaLetteratura
LibriMarketingMatematicaMedicinaMusicaNutrizionePsicologiaRicette
SociologiaStoriaVarie

INTELLIGENZA EMOTIVA APPLICATA

psicologia



+ Font mai mare | - Font mai mic



DOCUMENTE SIMILARE

INTELLIGENZA EMOTIVA APPLICATA.

9. NEMICI INTIMI.



Amare e lavorare, come ebbe a dire una volta Sigmund Freud al suo discepolo Erik Erikson, sono le due capacitÀ che segnano il raggiungimento della piena maturitÀ. Se fosse davvero cosÌ, la maturitÀ, intesa come traguardo della vita, potrebbe essere in pericolo - e le attuali tendenze mostrate dai tassi di matrimonio e di divorzio farebbero dell'intelligenza emotiva una dote piÙ importante che mai.

Consideriamo il tasso di divorzio: quando esso viene calcolato per anno, si vede che il suo valore si È piÙ o meno stabilizzato. Tuttavia c'È un altro modo di calcolarlo, dal quale traspare invece una pericolosa ascesa: si tratta di valutare le probabilitÀ che una certa coppia appena sposata 'finisca' per divorziare. Sebbene il tasso complessivo di divorzio abbia smesso di aumentare, il 'rischio' di divorzio per le coppie appena sposate È andato crescendo. Il fenomeno È piÙ chiaro se si confrontano i tassi di divorzio per le coppie sposate in un dato anno. Dei matrimoni americani contratti nel 1890, circa il 10 per cento finirono nel divorzio. Il tasso salÌ a circa il 18 per cento per le coppie sposate nel 1920, e al 30 per quelle che sancirono la loro unione nel 1950. Le coppie sposatesi nel 1970 avevano la stessa probabilitÀ di separarsi o di restare unite (50 per cento). Infine, per i matrimoni celebrati nel 1990, la probabilitÀ che l'unione si concluda nel divorzio È stata stimata prossima a uno sconcertante 67 per cento! (1) Se questa stima È valida, solo tre coppie su dieci, fra quelle recentemente convolate a nozze, possono contare di restar unite.

Si potrebbe osservare che gran parte di questo aumento non È dovuto tanto a una diminuzione di intelligenza emotiva, quanto a una costante erosione delle pressioni sociali che tenevano unite anche coppie pessimamente assortite - si pensi al marchio di infamia che circondava i divorziati, e alla dipendenza economica delle mogli dai loro mariti. Ma se le pressioni sociali non rappresentano piÙ il cemento che tiene insieme un matrimonio, allora, per la sopravvivenza dell'unione, i vincoli emotivi fra moglie e marito diventano ancora piÙ fondamentali. Questi legami fra marito e moglie - e i comportamenti emotivamente sbagliati che possono spezzarli - sono stati recentemente studiati con una precisione senza precedenti. Forse il piÙ grande passo avanti nella comprensione dei fattori che tengono insieme un matrimonio o lo mandano in pezzi È stato compiuto grazie all'uso di sofisticate misure fisiologiche che consentono di seguire, istante per istante, le sfumature emozionali nel corso di un'interazione fra i membri di una coppia. Gli scienziati sono oggi in grado di rilevare, in un marito, scariche di adrenalina e rialzi della pressione ematica altrimenti invisibili, e di osservare, in una moglie, microemozioni fugaci ma dense di significato cogliendole dal suo volto nell'istante in cui lo attraversano. Queste misure fisiologiche rivelano che alla base delle difficoltÀ di coppia c'È un elemento biologico nascosto, un livello fondamentale di realtÀ emozionale solitamente impercettibile e trascurato dagli stessi membri della coppia. Queste misure mettono a nudo le forze emozionali che tengono insieme o distruggono una relazione. Nella coppia, i comportamenti sbagliati dei partner hanno le loro piÙ remote radici nelle differenze fra l'universo emozionale delle bambine e quello dei bambini.

- Il matrimonio di lui e quello di lei: radici nell'infanzia.

Qualche sera fa, mentre entravo in un ristorante, incrociai un giovane che ne usciva a grandi passi, con un'espressione dura e accigliata dipinta sul volto. Una giovane donna lo rincorreva seguendolo a ruota, tempestandogli di pugni la schiena e gridando. “Maledetto! Torna qui e sii gentile!” Questa energica richiesta, contraddittoria fino all'inverosimile, mirata a qualcuno che se ne va voltando le spalle, incarna un tipo di comportamento comunissimo nelle coppie in crisi. Lei cerca di riattaccare, lui si ritrae. I terapeuti della coppia hanno da tempo notato che quando i coniugi si risolvono a cercare una consulenza sono giÀ caduti in questo schema di rincorsa-fuga, nel quale l'uomo si lamenta delle esigenze e degli scatti “irragionevoli” di lei mentre la donna se la prende per l'indifferenza che lui ostenta verso ciÃ’ che sta dicendo.

Questo duello coniugale riflette il fatto che in una coppia esistono due realtÀ emozionali, quella di lui e quella di lei. Le radici di queste differenze emozionali, sebbene possano essere in parte biologiche, sono rintracciabili fin nell'infanzia, e hanno origine negli universi emozionali distinti del bambino e della bambina nel periodo dello sviluppo. Su questi mondi separati sono state fatte moltissime ricerche, e si È constatato che la barriera che li divide non È rinforzata solo dal diverso tipo di gioco preferito dai due sessi, ma anche dalla paura, tipica dei bambini piccoli, di essere derisi per il fatto di avere un “fidanzato” o una “fidanzata” (2). Uno studio sulle amicizie dei bambini mise in evidenza che, stando alle loro stesse dichiarazioni, a tre anni metÀ dei loro amici appartiene all'altro sesso; a cinque anni, la percentuale scende a circa il 20 per cento, e a sette quasi nessun bambino/a afferma di avere un'amicizia importante con un membro dell'altro sesso (3). Questi universi sociali separati si intersecano raramente finché non cominciano i flirt dell'adolescenza.

Nel frattempo, maschi e femmine ricevono insegnamenti molto diversi sul come gestire le emozioni. Con la sola eccezione della collera, in genere i genitori discutono le emozioni piÙ con le figlie che con i figli (4). Per quanto riguarda le emozioni, le bambine sono esposte a un maggior numero di informazioni rispetto ai maschi: quando i genitori inventano delle storie da raccontare ai propri bambini in etÀ prescolare, usano un maggior numero di parole riferite alle emozioni quando parlano alle figlie che non quando si rivolgono ai figli maschi; quando le madri giocano con i loro bambini molto piccoli, mostrano una gamma di emozioni piÙ ampia alle femmine che non ai maschi; se parlano di sentimenti con le figlie, discutono piÙ dettagliatamente gli stati emozionali di quando lo fanno con i figli maschi sebbene con questi ultimi scendano in maggiori dettagli sulle cause e le conseguenze di emozioni come la collera (forse con intenti preventivi).

Leslie Brody e Judith Hall hanno analizzato e riassunto le ricerche condotte sulle differenze emozionali dei due sessi; essi ipotizzano che nelle bambine, lo sviluppo piÙ precoce del linguaggio, le porti ad essere piÙ esperte dei maschi nell'articolare i propri sentimenti e piÙ abili nell'uso di parole che esplorano e sostituiscono reazioni emotive quali ad esempio gli scontri fisici; d'altra parte, essi osservano, “i bambini di sesso maschile, nei quali la verbalizzazione degli affetti È de-enfatizzata, possono diventare in larga misura inconsapevoli degli stati emozionali propri e altrui” (5).

All'etÀ di dieci anni, nei due sessi c'È all'incirca la stessa percentuale di soggetti apertamente aggressivi e inclini al confronto diretto sotto l'impulso della collera. Ma a tredici anni, ecco emergere una significativa differenza: le femmine diventano piÙ inclini a tattiche aggressive scaltre come l'ostracismo, il pettegolezzo maligno e le vendette indirette. Quando sono irritati, i maschi, in linea di massima, continuano a confrontarsi direttamente come prima, del tutto ignari di queste strategie piÙ subdole (6). Questo È solo uno dei molti aspetti nei quali i bambini - e piÙ tardi gli uomini - sono meno sofisticati delle loro controparti femminili per quanto riguarda i recessi della vita emotiva.

Quando le bambine giocano insieme, lo fanno in piccoli gruppi in cui regna l'intimitÀ, e dove si cerca attivamente di ridurre al minimo l'ostilitÀ e di massimizzare la cooperazione; i giochi dei maschi, invece, si svolgono in gruppi piÙ numerosi, nei quali viene dato massimo risalto alla competizione. Una differenza chiave fra i due sessi emerge quando i giochi in corso sono interrotti perché qualcuno si fa male. Quando l'incidente capita a un maschio, e l'infortunato si mette a piangere, gli altri si aspettano da lui che esca dall'azione e smetta di lamentarsi, in modo che il gioco possa proseguire. Se la stessa cosa accade in un gruppo di bambine, il 'gioco si ferma' e tutte si raccolgono intorno all'amica che piange per aiutarla. Questa differenza a livello di gioco fra bambini e bambine incarna quello che, secondo Carol Gilligan, di Harvard, È una differenza fondamentale fra i due sessi: i maschi vanno orgogliosi di un'indipendenza e un'autonomia tipica del tipo duro e solitario, mentre le femmine si interpretano come elementi di una rete di connessioni. Pertanto, i bambini si sentono minacciati da qualunque cosa possa mettere in discussione la loro indipendenza, mentre le bambine lo sono di piÙ da una rottura nelle loro relazioni interpersonali. Come ha affermato Deborah Tannen nel suo libro 'You Just Don't Understand', queste diverse prospettive indicano come uomini e donne vogliano, e si aspettino, cose molto diverse da una conversazione: i primi sono contenti se possono parlare di “fatti”, le donne cercano invece nessi emozionali.

In breve, queste differenze nell'educazione delle emozioni finisce per alimentare capacitÀ molto diverse: le bambine diventano “brave a leggere segnali emozionali verbali e non verbali, come pure a esprimere e a comunicare i propri sentimenti”, mentre i maschi imparano a “minimizzare le emozioni che hanno a che fare con la vulnerabilitÀ, il senso di colpa, la paura e il risentimento” (7). La letteratura scientifica contiene moltissimi dati a riprova di questi diversi atteggiamenti. Ad esempio, centinaia di studi hanno riscontrato che in media le donne sono piÙ empatiche degli uomini, almeno per quanto riguarda la capacitÀ di leggere i sentimenti altrui dall'espressione facciale, dal tono di voce o da altri indizi non verbali. Analogamente, in genere È piÙ facile leggere i sentimenti sul volto di una donna che non su quello di un uomo. Fra bambini e bambine molto piccoli non c'È alcuna differenza nell'espressivitÀ del volto; ma negli anni della scuola elementare i maschi diventano sempre meno espressivi, e le femmine sempre di piÙ. Questo puÃ’ in parte riflettere un'altra differenza fondamentale: le donne, in media, sperimentano tutta la gamma delle emozioni con una maggiore intensitÀ e transitorietÀ degli uomini - in questo senso, le donne sono piÙ 'emotive' (8).

Tutto questo significa che, in generale, le donne arrivano al matrimonio giÀ preparate al controllo delle emozioni, mentre gli uomini ci arrivano avendo compreso molto meno l'importanza di questo compito per la sopravvivenza di una relazione. Secondo uno studio condotto su 264 coppie, nelle donne - ma non negli uomini - l'elemento piÙ importante per sentirsi soddisfatte della propria relazione È la percezione di avere “una buona comunicazione” con il partner (9). Ted Huston, uno psicologo della Texas University che ha compiuto studi approfonditi sulla coppia, osserva: “Per le mogli, l'intimitÀ significa parlare - soprattutto della relazione in se stessa. Gli uomini, in linea di massima, non capiscono che cosa vadano cercando le loro mogli. Essi dicono: 'Io voglio fare delle cose con mia moglie, ma lei non vuole far altro che parlare'“. Huston constatÃ’ che durante la fase del corteggiamento gli uomini erano molto piÙ disposti a passare il tempo parlando, per adeguarsi al desiderio di intimitÀ delle loro future mogli. Ma una volta sposati, con il passare del tempo, gli uomini - soprattutto nelle coppie piÙ tradizionali - passavano sempre meno tempo a parlare in questo modo con le proprie mogli, senza piÙ sentire il bisogno di discutere e trovando un sufficiente senso di intimitÀ nella condivisione di alcune semplici occupazioni come potare le rose in giardino.

Questo silenzio crescente da parte dei mariti potrebbe essere in parte dovuto al fatto che gli uomini peccano di un ottimismo un po' troppo ingenuo riguardo allo stato del proprio matrimonio, mentre le mogli si concentrano di piÙ sugli aspetti problematici della relazione: in uno studio sul matrimonio, gli uomini avevano una visione piÙ rosea delle donne praticamente su tutti gli aspetti della loro relazione - dal rapporto sessuale, agli aspetti economici, i legami con i suoceri, la capacitÀ di ascoltarsi l'un l'altro, il peso dei propri difetti (10). Le mogli, in generale, sono piÙ esplicite dei mariti nelle proprie lamentele, soprattutto nelle coppie infelici. Se si mette insieme la visione rosea del matrimonio tipica degli uomini e la loro avversione per il confronto emozionale, È chiaro perché le mogli si lamentino tanto spesso del fatto che i mariti cercano di eludere la discussione sugli aspetti problematici della loro relazione. (Naturalmente questa differenza fra i due sessi È una generalizzazione, e non vale in ogni caso; un mio amico psichiatra si lamentava del fatto che sua moglie fosse riluttante a discutere le questioni emozionali, e che toccasse sempre a lui il compito di sollevare quegli argomenti.)

L'inerzia degli uomini nell'affrontare i problemi di una relazione È senza dubbio aggravata dalla loro relativa incapacitÀ di leggere le emozioni dalle espressioni facciali. Le donne, ad esempio, sono piÙ sensibili a un'espressione triste sul volto di un uomo di quanto non lo siano gli uomini nel rilevare la tristezza dall'espressione di una donna (11). PerciÃ’, una donna deve essere davvero molto depressa perché un uomo cominci a notare i suoi sentimenti; non parliamo poi di quanto dovrebbe esserlo per indurlo a chiederle che cosa la renda cosÃŒ triste.

Consideriamo ora le implicazioni, a livello di coppia, di questa abissale differenza di genere nella sfera emozionale, ai fini del modo in cui vengono affrontati i risentimenti e i dissapori che inevitabilmente emergono in seno a qualunque relazione intima. In veritÀ, ciÒ che davvero rinsalda o spezza un matrimonio, non È l'esistenza di problemi specifici come la frequenza del rapporto sessuale, il modo in cui educare i figli, il contenimento dei debiti o l'entitÀ dei risparmi necessaria per sentirsi a proprio agio. CiÒ che davvero conta per il destino del matrimonio, È il modo in cui la coppia discute queste dolenti note. Ai fini della sopravvivenza della relazione coniugale È fondamentale raggiungere un'intesa sul come non essere d'accordo; nell'affrontare difficili situazioni emozionali, uomini e donne devono superare le loro innate differenze di genere. Se non ci riescono, la coppia diventa vulnerabile a contrasti emozionali che possono finire per mandare in pezzi la loro relazione. Come vedremo, la probabilitÀ che emergano tali contrasti sono di gran lunga maggiori se uno o entrambi i partner presentano particolari deficit dell'intelligenza emotiva.

- Comportamenti coniugali sbagliati.

'Fred: Hai ritirato la mia roba in tintoria?

Ingrid: (Con tono di scherno) “Hai ritirato la mia roba in tintoria?” Vattela a prendere da te la tua maledetta roba. Che cosa sono, la tua serva?

Fred: Magari. Se lo fossi, almeno sapresti fare il bucato'.

Se si trattasse di uno scambio di battute in una 'sitcom', potrebbe essere anche divertente. Ma questo dialogo dolorosamente caustico ebbe luogo in una coppia che (fatto non molto sorprendente) divorziÒ nel giro di pochi anni (12). Teatro del loro scontro fu il laboratorio diretto da John Gottman, uno psicologo della Chicago University che ha compiuto l'analisi piÙ dettagliata forse mai condotta sulle emozioni che cementano le unioni e sui sentimenti corrosivi che possono invece distruggerle (13). Nel suo laboratorio, la conversazione dei due partner viene videoregistrata e poi sottoposta a ore e ore di microanalisi per rivelare eventuali correnti emozionali sotterranee. Questa mappatura dei comportamenti distruttivi che possono portare una coppia al divorzio dimostra l'importanza cruciale dell'intelligenza emotiva nella sopravvivenza di un matrimonio.

Negli ultimi vent'anni, Gottman ha monitorato gli alti e bassi di piÙ di duecento coppie, alcune appena sposate, altre convolate a nozze da decenni. Gottman ha studiato l'ecologia emozionale del matrimonio con una tale precisione che in uno studio È stato in grado di prevedere - 'con un'accuratezza del 94 per cento' - quali coppie, fra quelle osservate nel suo laboratorio (come Fred e Ingrid, la cui discussione sulla tintoria era stata cosÌ aspra) avrebbero divorziato nei tre anni successivi: una precisione mai vista negli studi sulle coppie!

Il potere dell'analisi di Gottman sta nel suo metodo meticoloso e nella precisione dei suoi sondaggi. Mentre i partner parlano, alcuni sensori registrano cambiamenti fisiologici anche minimi; un'analisi istante per istante delle loro espressioni facciali (usando il sistema per la lettura delle emozioni sviluppato da Paul Ekman) rileva le sfumature emozionali piÙ fugaci e impercettibili. Dopo la seduta, ciascun partner ritorna da solo al laboratorio, rivede la registrazione della conversazione e racconta ciÒ che pensava durante i momenti piÙ roventi dello scambio. Il risultato È simile a una radiografia emozionale del matrimonio.

Secondo Gottman, un atteggiamento aspramente critico da parte dei partner costituisce un segnale di avvertimento precoce del fatto che il matrimonio È in pericolo. In un matrimonio sano, marito e moglie si sentono liberi di dar voce a un rimprovero. Ma troppo spesso nella foga del momento, i rimproveri vengono espressi in modo distruttivo, come un attacco diretto alla personalitÀ del coniuge. Consideriamo, ad esempio, questo caso: mentre il marito, Tom, si era recato in libreria, Pamela era andata in giro con la figlia per acquistare delle scarpe. Erano rimasti d'accordo che si sarebbero incontrati di fronte all'ufficio postale di lÃŒ a un'ora, per poi recarsi insieme al cinema. Al momento stabilito, Pamela era puntuale, ma non c'era traccia di Tom. “Ma dov'È? Il film comincia fra dieci minuti”, si lamentÃ’ Pamela con la figlia. “Se c'È un solo modo per mandare a monte qualcosa, sta' tranquilla che tuo padre non se lo lascia sfuggire.”

Quando Tom comparve, dieci minuti dopo, tutto felice per aver incontrato un amico e scusandosi per il ritardo, Pamela lo attaccÃ’ sarcastica: “Non preoccuparti, va tutto bene: aspettando abbiamo avuto la possibilitÀ di discutere della tua sorprendente abilitÀ a mandare all'aria ogni progetto. Sei talmente menefreghista ed egocentrico!”.

Il rimprovero di Pamela È qualcosa di piÙ di una protesta: È l'assassinio di una personalitÀ, una critica rivolta alla persona, non al suo operato. Dopo tutto, Tom si era scusato. Ma irritata dal suo errore, Pamela gli dÀ del “menefreghista ed egocentrico”. Moltissime coppie, di tanto in tanto, passano attraverso momenti come questo, nei quali un rimprovero, invece di limitarsi a censurare l'azione di uno dei due partner, assume la forma di un attacco contro la sua persona. Ma queste aspre critiche personali hanno un impatto emozionale di gran lunga piÙ corrosivo di quello di una protesta piÙ ragionevole. E tali attacchi, comprensibilmente, diventano sempre piÙ probabili quando un coniuge ha la sensazione che le proprie lamentele restino inascoltate o ignorate.

Le differenze fra una protesta e una critica personale sono semplici. In una protesta, la moglie indica specificamente che cosa l'ha infastidita e critica l'azione del marito, spiegando come essa l'abbia fatta sentire, senza scagliarsi direttamente contro di lui: “Il fatto che hai dimenticato di prendere i miei vestiti in tintoria mi ha dato la sensazione di essere trascurata”. Questa È un'espressione di elementare intelligenza emotiva: sicura, senza aggredire né mostrare passivitÀ. Ma in una critica personale, la donna avrebbe usato la rimostranza specifica per lanciare al marito un attacco globale: “Sei cosÃŒ egoista e privo di attenzioni. Questo non fa che dimostrare che faccio bene a pensare che tu non ne possa mai combinare una giusta”. Questo tipo di critica provoca in chi la riceve sentimenti di vergogna e di colpa, oltre alla sensazione di non essere amato - tutte percezioni che scateneranno con maggiori probabilitÀ una reazione difensiva, e non un reale tentativo di migliorare le cose.

Questo È piÙ che mai vero quando alle critiche va ad aggiungersi il disprezzo, un'emozione particolarmente distruttiva. Il disprezzo compare facilmente associato alla collera; di solito esso viene espresso non solo attraverso le parole usate, ma anche dal tono di voce e da un'espressione di collera. La sua forma piÙ ovvia, naturalmente, È lo scherno o l'insulto - “scemo”, “puttana”, “smidollato”. Ma il linguaggio corporeo che trasmette il disprezzo non ferisce certo di meno: si pensi soprattutto al sogghigno, o al labbro sollevato, che sono i segni facciali universali per esprimere il disgusto, oppure al gesto di alzare gli occhi al cielo, come per dire “Oh, Dio!”.

L'espressione facciale caratteristica del disprezzo È una contrazione del muscolo che tende gli angoli della bocca verso i lati (di solito verso sinistra), mentre gli occhi ruotano verso l'alto. Quando uno dei due partner assume rapidamente questa espressione, l'altro, in un tacito scambio emozionale, va incontro a un aumento della frequenza cardiaca di due-tre battiti per minuto. Questa conversazione non verbale ha il suo prezzo; Gottman scoprÌ che se in una coppia il marito mostra regolarmente disprezzo, la moglie andrÀ piÙ soggetta a tutta una serie di problemi di salute che vanno dai frequenti raffreddori e agli attacchi di influenza, alle infezioni vescicali, alla candidiasi, e ai sintomi di interesse gastroenterico. E se nel corso di una conversazione di quindici minuti il volto di una moglie assume quattro o cinque volte un'espressione di disgusto - un parente prossimo del disprezzo - questo È un tacito segnale del fatto che probabilmente quella coppia si separerÀ nel giro di quattro anni.

Naturalmente, l'esibizione occasionale di disprezzo o disgusto non compromette un matrimonio. Piuttosto, queste scariche emozionali hanno un ruolo simile, come fattori di rischio, a quello del fumo e del colesterolo alto per le cardiopatie - quanto piÙ sono intense e prolungate, tanto maggiore È il pericolo. Sulla via che porta al divorzio, la presenza di uno di questi fattori lascia prevedere la comparsa del secondo, in un'escalation di infelicitÀ. Un abituale atteggiamento critico, e il disprezzo o il disgusto, sono segni di pericolo perché indicano che il coniuge ha silenziosamente formulato un giudizio molto negativo sul proprio partner, che nei suoi pensieri È fatto oggetto di costante condanna. Questi pensieri negativi e ostili portano naturalmente ad attacchi che mettono chi li subisce sulla difensiva - olo preparano a passare al contrattacco.

Nella reazione di combattimento o fuga, ciascuna delle due opzioni rappresenta un modo in cui un coniuge puÒ rispondere all'attacco dell'altro. La soluzione piÙ ovvia È quella di rispondere contrattaccando, con un'esplosione di collera. Questa via solitamente porta a uno scontro verbale violento e privo di frutti. Ma la risposta alternativa, la fuga, puÒ essere ancora piÙ pericolosa, soprattutto quando consiste nel ritirarsi in un silenzio ostile.

L'ostruzionismo È l'ultima difesa. L'ostruzionista È inespressivo, e si ritira dalla conversazione rispondendo con impassibilitÀ e silenzio. In tal modo, invia un messaggio potente e snervante, qualcosa di simile a una combinazione di distacco glaciale, superioritÀ e disgusto. L'ostruzionismo compare soprattutto nei matrimoni che vanno verso la crisi; nell'85 per cento di questi casi il marito fa l'ostruzionismo in risposta a una moglie che lo attacca con disprezzo e atteggiamento critico (14). Come risposta abituale, l'ostruzionismo È devastante per la salute di una relazione: esclude infatti ogni possibilitÀ di ricomporre il disaccordo.

- Pensieri tossici.

I bambini si stanno scatenando e Martin, il padre, sta perdendo la pazienza. Si rivolge allora alla moglie, Melanie, e le dice con tono tagliente: “Cara, non pensi che i bambini potrebbero darsi una calmata?”.

Ma in realtÀ pensa: “E' troppo indulgente con i bambini”.

Melanie, rispondendo all'irritazione di lui, sente montare la collera. Il suo volto si fa teso, le sopracciglia si aggrottano ed ella replica: “I bambini si stanno solo divertendo. Ad ogni modo, fra poco vanno a letto”.

Il suo pensiero: “Eccolo qua, di nuovo a lamentarsi in continuazione”.

Martin adesso È visibilmente furioso. Si protende in avanti minacciosamente, con i pugni serrati mentre sibila con voce irritata “Devo metterli a letto io, adesso?”.

In realtÀ pensa: “Mi contraddice in tutto. Farei bene a riprendere in mano la situazione”.

Melanie, improvvisamente spaventata dalla collera di Martin risponde con tono mansueto: “No, li metto a letto subito”.

Sta pensando: “Ha perso il controllo - potrebbe fare male ai bambini. Meglio dargliela vinta”.

Queste conversazioni parallele - lo scambio verbale e quello silenzioso - sono riportate da Aaron Beck, il padre della terapia cognitiva, che le cita come esempio del tipo di pensieri che possono avvelenare un matrimonio (15). Il vero scambio emozionale fra Melanie e Martin È plasmato dai loro pensieri, e quelli, a loro volta, sono determinati da un altro fattore piÙ profondo, che Beck chiama “pensiero automatico” - in altre parole, assunti su se stessi e gli altri che, estremamente transitori e simili a un rumore di fondo, riflettono i nostri piÙ profondi atteggiamenti emotivi. Nel caso di Melanie, il pensiero di fondo era qualcosa come “Va in collera e fa sempre il prepotente con me”. Per Martin, il pensiero chiave È “Non ha alcun diritto di trattarmi cosÃŒ”. Nel matrimonio, Melanie si sente come una vittima innocente e Martin crede di provare una legittima indignazione per quello che ritiene un trattamento ingiusto.

Pensare di essere una vittima innocente, o provare una giusta indignazione sono atteggiamenti tipici di partner che vivono una crisi matrimoniale e alimentano continuamente la collera e il risentimento (16). Una volta che essi diventano automatici, sono tali da autoconfermarsi: il partner che si sente vittima dell'altro sottolinea costantemente qualunque cosa faccia il coniuge, che possa confermare la sua idea di essere una vittima - al tempo stesso ignorando o tenendo in poco conto tutti gli atti di gentilezza che potrebbero invece mettere in discussione o smentire quell'idea.

Questi pensieri sono potenti; essi inceppano il sistema d'allarme neurale. Una volta che la convinzione di essere una vittima, nutrita dal marito, scatena un “sequestro” emozionale, egli ricorderÀ e rimuginerÀ tutta una lista di esempi che gli rammenteranno i numerosi modi in cui la moglie fa di lui una vittima innocente, senza ricordare nulla di ciÃ’ che, nell'arco di tutta la loro relazione, ella puÃ’ aver fatto e che smentirebbe la sua idea. Questo mette la donna in una posizione perdente in partenza: qualunque cosa ella faccia per essere intenzionalmente gentile, osservata attraverso lenti cosÃŒ negative, puÃ’ essere reinterpretata e liquidata come un debole tentativo di negare la veritÀ, ossia che il marito È vittima della moglie.

I partner che non hanno idee di questo tipo, fonte peraltro di tanta sofferenza e disagio, possono interpretare in modo piÙ benevolo le stesse situazioni, e cosÃŒ hanno meno probabilitÀ di andare incontro a questi “sequestri” emozionali - o se gli capita, si riprendono piÙ in fretta. In generale, i pensieri che fomentano o alleviano il disagio seguono il modello descritto dallo psicologo Martin Seligman per la concezione pessimista e quella ottimista (vedi capitolo 6). Chi assume un atteggiamento pessimista sostiene che il partner È di per se stesso in difetto, e che la situazione, immodificabile, garantisce infelicitÀ: “E' egoista e pensa solo a se stesso: È stato allevato cosÃŒ e sarÀ sempre cosÃŒ; si aspetta che lo serva di tutto punto e non potrebbe importargliene meno di come mi sento io”. La concezione ottimistica, al contrario, potrebbe essere: “Adesso È molto esigente, ma in passato ha avuto molte attenzioni per me; puÃ’ darsi che sia di cattivo umore - forse qualcosa lo ha contrariato sul lavoro”. Questo È un modo di vedere le cose che non liquida il marito (o il matrimonio) come irrimediabilmente compromesso o senza speranza. Il primo atteggiamento porta a un continuo disagio; il secondo semplifica la situazione.

I partner che assumono la posizione pessimista sono estremamente soggetti a “sequestri” emozionali, vanno in collera, si offendono e comunque soffrono per il comportamento del coniuge; una volta che l'episodio È cominciato, permangono in uno stato di disturbo. Il loro disagio interiore, e il loro atteggiamento pessimista, naturalmente, rendono molto piÙ probabile che essi ricorrano alle critiche e al disprezzo quando si confrontano con il partner; questo a sua volta aumenta la probabilitÀ che l'altro si metta sulla difensiva e ricorra all'ostruzionismo.

Forse i piÙ virulenti fra questi pensieri tossici sono quelli che passano per la mente dei mariti violenti nei confronti delle loro mogli. Uno studio sui mariti violenti condotto dagli psicologi della Indiana University trovÃ’ che questi uomini pensano come se fossero adolescenti prepotenti: scoprono un intento ostile anche nelle azioni neutrali delle loro mogli e usano questa errata interpretazione per giustificare a se stessi la propria violenza (gli uomini sessualmente aggressivi con le fidanzate hanno un comportamento simile, in quanto considerano le donne con sospetto e non si curano delle loro obiezioni) (17). Come abbiamo visto nel capitolo 7, questi uomini si sentono particolarmente minacciati dalla percezione di indifferenza o di rifiuto, o anche quando vengono pubblicamente messi in imbarazzo dalle loro mogli. Negli uomini che picchiano le proprie mogli, solitamente i pensieri che “giustificano” la violenza sono innescati da scenari come questo: “Sei a un ricevimento e ti accorgi che nell'ultima mezz'ora tua moglie ha parlato e riso in continuazione con lo stesso uomo affascinante. Sembra che lui le stia facendo la corte”. Quando questi uomini percepiscono un sintomo di rifiuto o di abbandono da parte delle proprie mogli, le loro reazioni passano rapidamente all'indignazione e all'offesa. Presumibilmente pensieri automatici del tipo “Vuole lasciarmi” scatenano un “sequestro” emozionale nel quale il marito reagisce impulsivamente con quelle che i ricercatori definiscono “risposte comportamentali incompetenti”: in altre parole, diventano violenti (18).

- Emozioni in piena: il matrimonio cola a picco.

L'effetto netto di questi atteggiamenti negativi È quello di creare uno stato di crisi interminabile, dal momento che essi scatenano sempre piÙ spesso “sequestri” emozionali e rendono piÙ difficile riprendersi dalla collera e dal risentimento che ne risulta. Gottman usa il termine calzante di 'inondazione' per indicare questa suscettibilitÀ al frequente turbamento emotivo; in queste condizioni, i coniugi sono talmente sopraffatti dalla negativitÀ del partner e dalle proprie reazioni ad essa che vengono “inondati” da sentimenti terribili, completamente sfuggiti a ogni controllo. Questi soggetti non possono udire alcunché senza distorcerlo, né reagire con luciditÀ; trovano difficile organizzare il proprio pensiero e fanno ricorso a reazioni primitive. Essi vorrebbero solo che tutto si fermasse, oppure vorrebbero fuggire o, ancora, a volte, restituire il colpo. L'“inondazione” È un “sequestro” emozionale che si autoperpetua.

In alcune persone la soglia per raggiungere questa condizione È elevata, ed esse resistono facilmente alla collera e al disprezzo; altre invece possono essere travolte dalla “piena” non appena il coniuge indirizza loro una leggera critica. Questa “piena” emozionale viene descritta tecnicamente in termini di aumento della frequenza cardiaca a partire dai livelli di riposo (19). Nelle donne, a riposo, questo parametro si attesta intorno agli 82 battiti al minuto, mentre negli uomini È di circa 72 (la frequenza cardiaca specifica varia principalmente in base alla taglia corporea dell'individuo). L'“inondazione” comincia in corrispondenza di una frequenza cardiaca che superi quella a riposo di 10 battiti al minuto; se la frequenza raggiunge 100 battiti al minuto (cosa che puÃ’ accadere facilmente in momenti di collera o quando si piange) l'organismo pompa adrenalina e altri ormoni in modo da prolungare questo stato di disagio per un certo periodo. L'importanza del “sequestro” emozionale traspare evidente dai valori della frequenza cardiaca: essa puÃ’ aumentare di colpo di 10, 20 o perfino 30 battiti al minuto. I muscoli si tendono: la respirazione puÃ’ sembrare difficile. C'È una vera e propria piena di sentimenti tossici, una spiacevole ondata di paura e di collera che sembra inevitabile e, soggettivamente, “ci mette una vita” ad andarsene. A questo punto - siamo nel mezzo di un “sequestro” emozionale - le emozioni dell'individuo sono talmente intense, le prospettive cosÃŒ limitate e il pensiero a tal punto confuso che non ci sono speranze di poter considerare il punto di vista dell'altro, né di ricomporre le cose in modo ragionevole.

Ovviamente, la maggior parte dei coniugi ha, di tanto in tanto, scontri di questa intensitÀ quando entra in conflitto - È una cosa naturale. Per il matrimonio, i veri problemi cominciano quando uno dei due coniugi si sente quasi perennemente “in piena”. In quel caso, il partner che si sente sopraffatto dall'altro È sempre sulla difensiva in quanto teme di essere vittima di un assalto o di un'ingiustizia; questo individuo si fa pertanto ipervigilante, pronto a rilevare il benché minimo segno di attacco, insulto o rimprovero, e reagirÀ sicuramente in modo esasperato al minimo accenno. Se un marito si trova in questo stato, il fatto che la moglie dica “Tesoro, dobbiamo parlare” puÃ’ innescare il pensiero “Sta provocando un altro scontro”, e questo scatena l'ondata di piena. In queste condizioni, diventa sempre piÙ difficile riprendersi dallo stato di attivazione fisiologica; questo, a sua volta, rende piÙ facile considerare uno scambio innocuo sotto una luce sinistra, innescando nuovamente l'inondazione.

Questo È forse il punto di svolta piÙ pericoloso in un matrimonio, una tappa catastrofica nella relazione. Il partner “in piena”, a questo punto, pensa in continuazione le cose peggiori del coniuge, interpretando tutte le sue azioni in una luce negativa. Piccoli problemi diventano gravi conflitti; i sentimenti vengono continuamente feriti. Con il tempo, il partner che si sente travolto comincia a considerare grave e irresolubile ogni singolo problema del matrimonio, in quanto ogni tentativo di sistemare le cose viene regolarmente sabotato dalle ondate di piena. Quando questa situazione si protrae, comincia a sembrare inutile parlarne, e i due partner cercano di mitigare la propria sofferenza ognuno per conto suo. Essi cominciano cosÃŒ a condurre vite parallele, essenzialmente isolati l'uno dall'altro e sentendosi soli all'interno del matrimonio. Fin troppo spesso, Gottman ha constatato, il passo successivo È il divorzio.

In questa traiettoria che porta alla separazione, le tragiche conseguenze della mancanza di competenze nella sfera emozionale sono fin troppo evidenti. Quando una coppia viene presa nel circolo vizioso della critica e del disprezzo, degli atteggiamenti di difesa o di ostruzionismo, dei pensieri negativi e delle ondate di “piena” emozionale, questo stesso ciclo riflette una disintegrazione dell'autoconsapevolezza e dell'autocontrollo emozionali, dell'empatia e delle capacitÀ di calmare se stessi e gli altri.

- Uomini: il sesso debole.

Torniamo alle differenze di genere nella vita emotiva, che si dimostrano uno sprone nascosto nelle unioni coniugali. Anche dopo piÙ di trentacinque anni di matrimonio, c'È una fondamentale distinzione fra mariti e mogli nel modo in cui essi considerano gli scontri emozionali. In genere, alle donne dÀ meno fastidio che agli uomini tuffarsi nella sgradevolezza di una lite coniugale. Questa conclusione, raggiunta da Robert Levenson della California University a Berkely, si basa sulla testimonianza di 151 coppie, tutte sposate da molti anni. Levenson scoprÌ che i mariti trovavano tutti spiacevole, perfino odioso, litigare durante una discussione, mentre le loro mogli non se ne dispiacevano troppo (20).

I mariti vengono travolti “dalle piene” emozionali in corrispondenza di una negativitÀ meno intensa rispetto a quella necessaria per “inondare” le loro mogli; fra coloro che reagiscono alle critiche del coniuge facendosi travolgere dall'inondazione, ci sono piÙ uomini che donne. Una volta “sommersi”, gli uomini secernono piÙ adrenalina delle donne, e il flusso di questo ormone viene innescato da livelli di negativitÀ inferiori a quelli necessari per attivare la stessa reazione nelle donne; inoltre, agli uomini È necessario piÙ tempo per riprendersi dalla “piena” emozionale (21). Tutti questi dati suggeriscono che forse la stoica imperturbabilitÀ del maschio alla Clint Eastwood rappresenta una forma di difesa per non sentirsi sopraffatti dalle emozioni.

La ragione per cui È tanto probabile che gli uomini ricorrano all'ostruzionismo, secondo Gottman, È il tentativo di autoproteggersi dalle “piene” emozionali; la sua ricerca ha dimostrato che una volta intrapresa la strategia dell'ostruzionismo, la loro frequenza cardiaca scende di circa dieci battiti per minuto, il che comporta un sollievo soggettivo. Ma - e questo È un paradosso - quando gli uomini cominciano a fare l'ostruzionismo, È la frequenza cardiaca delle loro mogli a innalzarsi a livelli che segnalano un elevato disagio. Questa specie di tango del sistema limbico, nel quale ogni sesso cerca conforto con degli stratagemmi, porta ad atteggiamenti molto diversi verso gli scontri emozionali: gli uomini cercano di evitarli con lo stesso impegno che le donne mettono nel tentare di innescarli.

Proprio come È di gran lunga piÙ probabile che siano gli uomini a rifugiarsi nell'ostruzionismo, È piÙ facile che le donne ricorrano alla critica (22). Questa asimmetria deriva dal fatto che le donne si assumono una funzione di controllo sulle emozioni. Quando cercano di alleviare e risolvere il disaccordo e le controversie, gli uomini sono piÙ riluttanti a impegnarsi in quelle che sono destinate a diventare discussioni roventi. Non appena la moglie vede il marito che si ritira, alza il volume e l'intensitÀ del rimprovero, cominciando a criticarlo. E quando egli si arrocca sulla difensiva o replica facendo l'ostruzionismo, la donna si sente frustrata e in collera, e cosÃŒ aggiunge all'interazione il proprio disprezzo, per sottolineare l'intensitÀ della sua frustrazione. Accorgendosi di essere oggetto delle critiche e del disprezzo della moglie, l'uomo comincia a cadere nei pensieri da vittima innocente o da marito giustamente indignato che sempre piÙ facilmente scatenano la “piena” emozionale. Per proteggersi da essa, egli si mantiene sempre piÙ sulla difensiva o semplicemente si trincera in un ostruzionismo totale. Ma quando i mariti adottano questa strategia, essa innesca la “piena” emozionale nelle loro mogli che, come ricorderete, si sentono completamente osteggiate. E quando il circolo vizioso della lite coniugale si autoalimenta in questo modo, È fin troppo facile che possa sfuggire al controllo.

- Matrimonio - consigli per lui e per lei.

Date le gravi conseguenze del diverso modo dei due sessi di affrontare i sentimenti fonte di turbamento nelle loro relazioni, che cosa possono fare le coppie per proteggere l'amore e l'affetto che sentono reciprocamente - in breve, che cosa protegge un matrimonio? Osservando l'interazione di partner i cui matrimoni hanno prosperato per anni, i ricercatori danno consigli specifici agli uomini e alle donne, e qualche ammonimento generale a entrambi.

Gli uomini e le donne, in generale, hanno bisogno di una differente sintonizzazione emozionale. Agli uomini si consiglia di non evitare il conflitto, ma di comprendere che quando la moglie solleva una rimostranza o evidenzia un punto di disaccordo, potrebbe farlo come atto d'amore, cercando di mantenere la relazione sana e vitale (anche se possono esserci benissimo altri motivi dietro all'ostilitÀ di una moglie). Quando i rancori covano sotto la cenere, si accrescono di intensitÀ finché non esplodono; quando vengono elaborati e lasciati liberi, la pressione trova invece uno sfogo. Ma gli uomini devono comprendere che la collera o il disprezzo non sono sinonimi di un attacco personale - le emozioni delle loro mogli hanno semplicemente la funzione di evidenziare l'intensitÀ dei loro sentimenti sull'argomento.

Gli uomini devono anche guardarsi dal tagliar corto durante la discussione offrendo troppo presto una soluzione pratica - solitamente, per la moglie, È piÙ importante sentire che il marito ascolta le sue lamentele ed empatizza con i suoi 'sentimenti' (anche se non deve necessariamente essere d'accordo con lei). La donna puÒ interpretare l'offerta di una soluzione come un modo per liquidare rapidamente i suoi sentimenti tacciandoli di incoerenza. I mariti che invece di liquidare le loro proteste come insignificanti, riescono a sopportare gli scoppi di collera delle mogli, le aiutano a sentirsi ascoltate e rispettate. Soprattutto, le mogli vogliono vedere riconosciuti e rispettati i propri sentimenti, anche se il marito non È d'accordo con loro. Molto spesso, quando una moglie si rende conto che il suo punto di vista viene ascoltato e che il marito prende nota dei suoi sentimenti, si calma.

Per quanto riguarda le donne, il consiglio È assolutamente parallelo. Per gli uomini l'esagerata intensitÀ con la quale le donne danno voce alle proprie proteste rappresenta un problema fondamentale; le donne, quindi, dovrebbero fare uno sforzo mirato per stare attente a non attaccare i propri mariti - a protestare per quello che hanno fatto, senza criticarli come persone o esprimere disprezzo verso di loro. Le proteste non sono attacchi alla personalitÀ, ma piuttosto la dichiarazione che una particolare azione ci ha causato sofferenza. Quasi sicuramente, un collerico attacco personale porterÀ il marito a mettersi sulla difensiva o a ricorrere all'ostruzionismo, il che sarÀ quanto mai frustrante per la donna, e non farÀ che esacerbare lo scontro. E' anche utile che le proteste della donna siano collocate in un contesto piÙ ampio, nel quale lei rassicuri il marito del suo amore.

- Lo scontro positivo.

Il giornale del mattino ci offre una lezione su come non risolvere, nel matrimonio, le differenze di genere fra i coniugi. Si tratta del battibecco fra Marlene Lenick e suo marito Michael: lui voleva guardare la partita Dallas Cowboys-Philadelphia Eagles, lei preferiva il telegiornale. Non appena lui si mise comodo per godersi l'incontro, la signora Lenick gli dichiarÃ’ di “averne avuto abbastanza del suo football”, andÃ’ in camera da letto a prendere una pistola calibro .38 e gli sparÃ’ due colpi mentre guardava la partita. La signora Lenick venne imputata di lesioni aggravate e liberata dietro pagamento di una cauzione di 50000 dollari; il signor Lenick fu dichiarato fuori pericolo e si riprese: i proiettili gli avevano colpito di striscio l'addome ed erano fuoriusciti perforandogli la scapola e il collo (23).

Sebbene poche liti coniugali siano cosÃŒ violente - e dispendiose! - esse sono comunque occasioni fondamentali per portare l'intelligenza emotiva nel matrimonio. Ad esempio, nelle unioni di lunga durata, le coppie tendono a concentrarsi su un argomento dando fin dall'inizio a ciascun partner la possibilitÀ di affermare il proprio punto di vista (24). Ma questi coniugi compiono anche un ulteriore passo, dimostrando di sapersi ascoltare reciprocamente. Poiché spesso ciÃ’ che il partner offeso desidera È di vedere ascoltati i propri sentimenti, da un punto di vista emozionale un atto di empatia È un sistema magistrale per ridurre la tensione.

Nelle coppie la cui unione sfocia nel divorzio si osserva una notevole assenza di tentativi, da parte di entrambi i partner, di ridurre la tensione. Durante gli scontri coniugali, la presenza o l'assenza di modi per ricomporre gli screzi costituisce una differenza fondamentale fra le coppie che hanno un matrimonio sano e quelle che alla fine si separeranno (25). I meccanismi di riparazione che impediscono a una discussione di degenerare in una tremenda esplosione sono semplici accorgimenti, quali ad esempio evitare le divagazioni, empatizzare con il partner e ridurre la tensione. Queste mosse fondamentali sono una sorta di termostato emozionale, e impediscono che i sentimenti espressi trabocchino sopraffacendo la capacitÀ dei partner di concentrarsi sul problema.

Una strategia generale per far funzionare un matrimonio È quella di non concentrarsi su problemi specifici sui quali le coppie solitamente entrano in conflitto - l'educazione dei figli, il sesso, il denaro e i lavori di casa - ma piuttosto di coltivare un'intelligenza emotiva di coppia, aumentando cosÃŒ le probabilitÀ di risolvere i problemi. Alcune competenze emozionali - soprattutto la capacitÀ di calmarsi (e di calmare il partner), l'empatia e la capacitÀ di ascoltare l'altro - possono aumentare le probabilitÀ che una coppia riesca ad appianare efficacemente i propri screzi. Questo rende possibili quelle sane litigate - “gli scontri positivi” - che consentono al matrimonio di prosperare e contribuiscono al superamento delle negativitÀ che, se lasciate crescere, possono distruggere l'unione (26).

Naturalmente, nessuna di queste tendenze emozionali puÒ cambiare nel giro d'una notte; come minimo, bisogna perseverare ed essere vigilanti. I partner riusciranno a compiere i necessari cambiamenti nella misura in cui saranno veramente motivati a provare. Se non la maggior parte, sicuramente molte delle risposte emozionali che vengono tanto facilmente innescate nel matrimonio sono state scolpite nell'individuo fin dall'infanzia: dapprima apprese nelle relazioni piÙ intime o modellizzate dai genitori, esse vengono poi portate in dote nel matrimonio ormai giÀ pienamente formate. E cosÌ, per quanto possiamo aver giurato che non avremmo mai agito come i nostri genitori, ci troviamo predisposti a determinate tendenze emozionali, ad esempio siamo pronti a reagire in modo esagerato a supposte mancanze di rispetto o a chiudere la saracinesca al primo segno di un confronto.

CALMARSI.

Ogni forte emozione deriva da un impulso ad agire, controllare quegli impulsi È fondamentale ai fini dell'intelligenza emotiva. Questo, tuttavia, puÒ rivelarsi particolarmente difficile nelle relazioni amorose, nelle quali la posta in gioco È tanto alta. In questo caso, le reazioni innescate toccano corde sensibilissime - il nostro profondo bisogno di essere amati e di sentirci rispettati, la paura dell'abbandono o di essere emozionalmente deprivati. Non c'È dunque da meravigliarsi se nelle liti coniugali ci comportiamo come se fosse in gioco la nostra stessa sopravvivenza.

Anche cosÃŒ, se il marito o la moglie sono nel bel mezzo di un “sequestro” emozionale, nulla puÃ’ risolversi positivamente. Per i due partner, una fondamentale competenza coniugale È quella di imparare a tenere a freno i propri sentimenti negativi. Essenzialmente, ciÃ’ significa avere la capacitÀ di riprendersi rapidamente dall'ondata di piena causata dal “sequestro”. Poiché durante questi picchi emozionali la capacitÀ di ascoltare, pensare e parlare con luciditÀ va perduta, quello di calmarsi È un passo fondamentale, senza il quale non puÃ’ esserci ulteriore progresso nella risoluzione della disputa.

Durante scontri molto accesi, alcuni partner potrebbero imparare a monitorare la propria frequenza cardiaca circa ogni cinque minuti, sentendo le pulsazioni sulla carotide, qualche centimetro sotto il lobo dell'orecchio (chi fa ginnastica aerobica impara a farlo facilmente) (27). Contate le pulsazioni per quindici secondi e poi moltiplicate per quattro: avrete il numero di pulsazioni per minuto. Se lo fate quando siete calmi, otterrete un valore basale a riposo; se le vostre pulsazioni aumentano, diciamo, di dieci battiti al minuto al di sopra di quel valore, questo segnala l'inizio della “piena” emozionale. Nel caso di una reazione fisiologica cosÃŒ pronunciata, la coppia necessita di un intervallo di circa venti minuti, nel quale i due partner dovranno separarsi per calmarsi prima di riprendere la discussione. Sebbene possa sembrare sufficiente un intervallo di cinque minuti, il vero tempo di recupero fisiologico È piÙ graduale. Come abbiamo visto nel capitolo 5, la collera residua innesca altra collera; un intervallo piÙ lungo dÀ all'organismo piÙ tempo per riprendersi dalla precedente attivazione fisiologica.

Per i partner che, comprensibilmente, trovano strano monitorare la frequenza cardiaca durante una lite, È piÙ semplice accordarsi in anticipo, dando la possibilitÀ a entrambi di chiedere una sospensione della discussione ai primi segni di “inondazione” emozionale in uno dei due. Durante questo intervallo, È possibile ritrovare la calma e riprendersi dal “sequestro” emozionale aiutandosi con una tecnica di rilassamento o un esercizio aerobico (o con uno qualunque dei metodi che abbiamo visto nel capitolo 5).

DETOSSIFICARE IL DISCORSO INTERIORE.

Dal momento che la “piena” emozionale È innescata dai pensieri negativi riguardanti l'altro, puÃ’ essere utile se il partner sconvolto da questi aspri giudizi riesce a bloccarli direttamente. Sentimenti come “Non ho intenzione di sopportare questa situazione un minuto di piÙ” o “Non merito questo tipo di trattamento” sono gli slogan della vittima innocente o del partner giustamente indignato. Come sottolinea il fondatore della terapia cognitiva, Aaron Beck, un coniuge puÃ’ cominciare a liberarsi dalla morsa di questi pensieri imparando a riconoscerli e a metterli in discussione, senza permetter loro di innescare una reazione di collera o di ferirlo (28).

Per ottenere questo risultato, È necessario monitorare tali pensieri, capire che non bisogna credere in essi e compiere uno sforzo intenzionale per richiamare alla mente fatti o prospettive che li mettano in discussione. Ad esempio, una moglie che nella foga del momento pensi “Non gliene importa nulla delle mie necessitÀ, È sempre talmente egoista” potrebbe mettere in discussione questo pensiero ricordando tutti gli atti del marito che, in effetti, erano segni di premura. CiÃ’ le consente di reinquadrare il suo pensiero in questa forma: “A volte dimostra che gli importa di me, anche se ciÃ’ che ha appena fatto È stato irriguardoso e mi ha fatto andare fuori di me”. La seconda formulazione offre una possibilitÀ di cambiamento e consente di intravedere una soluzione positiva; la prima, invece, non fa che esacerbare la collera e il risentimento.

ASCOLTARE E PARLARE SENZA STARE SULLA DIFENSIVA.

Lui: “Stai gridando!”.

Lei: “Per forza! Non hai sentito una parola di quello che ho detto. Tu proprio non ascolti!”.

La capacitÀ di ascoltare tiene unite le coppie. Anche nella foga di una lite, quando i due partner sono nel pieno di un “sequestro” emozionale, uno dei due, e a volte entrambi, possono riuscire ad ascoltare e a rispondere ai gesti di riconciliazione del partner. Le coppie incamminate verso il divorzio, perÃ’, sono talmente assorbite dalla collera e si fissano a tal punto sui dettagli del problema contingente, che non riescono piÙ ad ascoltare - meno che mai a ricambiare le eventuali offerte di pace che potrebbero essere implicite in ciÃ’ che sta dicendo il partner. Quando sta sulla difensiva, chi ascolta tende a ignorare o a respingere immediatamente le proteste del coniuge reagendo come se esse fossero un attacco diretto invece di un tentativo di correggere il comportamento. Naturalmente, in una lite, quello che un coniuge dice È spesso presentato in forma di un attacco, o viene detto con una tale carica negativa che È difficile riuscire a percepirvi qualcosa di diverso da un attacco.

Anche nel caso peggiore, perÃ’, i partner possono analizzare il messaggio, ignorando le parti ostili e negative dello scambio - il tono villano, l'insulto, le critiche che trasudano disprezzo - per coglierne il significato principale. A tal fine È utile che i partner cerchino di interpretare la negativitÀ dell'altro come un'affermazione implicita della grande importanza attribuita al problema - come una richiesta di attenzione sulla questione. Se la donna strilla: “Vuoi 'smetterla' di interrompermi, per la miseria!”, il marito dovrebbe riuscire a dirle, senza reagire apertamente alla sua ostilitÀ: “Va bene, va' avanti e finisci”.

La forma piÙ potente di ascolto, in un individuo che non assuma un atteggiamento difensivo, È, naturalmente, l'empatia, ossia la capacitÀ di ascoltare davvero i sentimenti che si celano 'dietro' alle parole. Come abbiamo visto nel capitolo 7, se un partner empatizza davvero con l'altro, significa che riesce a calmare le proprie reazioni al punto da essere abbastanza recettivo rispetto alla propria fisiologia, e da poter quindi rispecchiare i sentimenti dell'altro. Senza questa sintonia fisiologica, la percezione, da parte di un partner, delle emozioni dell'altro È completamente priva di fondamento. L'empatia si deteriora quando i sentimenti di un partner sono talmente forti da travolgere qualunque altra cosa, non consentendo un'armonizzazione fisiologi ca con l'altro.

Nella terapia di coppia viene comunemente usato un metodo per “ascoltare” efficacemente le emozioni che viene chiamato “rispecchiare”. Quando un partner dÀ voce a una protesta, l'altro la ripete con le proprie parole, cercando di cogliere non solo il pensiero che la anima, ma anche i sentimenti che l'accompagnano. Il partner che sta “rispecchiando” l'altro controlla insieme a quello che la sua riformulazione non abbia mancato il bersaglio, e in tal caso, riprova finché non colpisce nel segno: sembra una cosa semplice, ma a farsi È sorprendentemente difficile (29). Sul partner, l'effetto di essere “rispecchiato” accuratamente non È solo quello di sentirsi compreso, ma anche di essere in sintonia emozionale. A volte questa percezione puÃ’, di per se stessa, scongiurare un attacco imminente, e aiuta moltissimo a impedire che la discussione degeneri in uno scontro.

Nella coppia, l'arte di parlare senza stare sulla difensiva si basa sulla capacitÀ di mantenere le proprie parole nell'ambito di una protesta specifica, senza sfociare in un attacco personale. Lo psicologo Haim Ginott, padre dei primi programmi di comunicazione efficace, affermava che il modo migliore per formulare una protesta fosse “X y z”: “Quando hai fatto X, mi hai fatto sentire Y; avrei preferito che avessi fatto Z”. Ad esempio: “Quando non mi hai telefonato per avvertirmi che eri in ritardo per la cena, mi sono sentita poco considerata e in collera. Quando fai tardi, vorrei che mi chiamassi” È da preferirsi a “Sei un bastardo egocentrico e senza riguardo”. Fin troppo spesso, perÃ’, nei diverbi coniugali, il problema viene posto nel secondo modo. In breve, una comunicazione aperta non deve conoscere prepotenza, minacce o insulti. Né consente alcuna forma di atteggiamenti difensivi - scuse, negazione delle responsabilitÀ, contrattacchi con critiche, e simili. Anche in questo caso l'empatia È uno strumento potente.

Infine, nel matrimonio, come in qualunque altra circostanza della vita, il rispetto e l'amore hanno l'effetto di disarmare l'ostilitÀ. Un modo molto efficace per ricomporre un diverbio È quello di far capire al partner che È possibile vedere le cose da punti di vista diversi, i quali possono essere entrambi validi. Un altro sistema È quello di assumersi le proprie responsabilitÀ e di scusarsi quando ci si rende conto di avere torto. Come minimo, riconoscendo la validitÀ della prospettiva dell'altro, il partner gli comunica che lo sta ascoltando, e che riesce a comprendere le emozioni che esprime, anche se non È d'accordo con la sua tesi, “Mi rendo conto che sei sconvolto”. E altre volte, quando non c'È una lite, il riconoscimento della posizione dell'altro assume la forma del complimento, trovando nel partner qualcosa che si apprezza davvero e dando cosÃŒ voce a un elogio. Questa strategia, naturalmente, È un modo per aiutare il coniuge a calmarsi, o per accantonare un capitale emozionale in forma di sentimenti positivi.

UN PO' DI ESERCIZIO.

Poiché queste manovre dovranno servire nella foga di uno scontro, quando lo stato di attivazione emozionale È sicuramente elevato, devono essere apprese molto bene per essere eseguite nel momento piÙ opportuno. In quei frangenti, infatti, il cervello emozionale attiva le routine apprese in precedenza durante ripetuti momenti di collera e di risentimento, ormai divenute dominanti. Poiché tanto la memoria quanto il tipo di risposta sono specifici per le singole emozioni, durante gli scontri le reazioni associate a momenti di maggiore calma sono meno facili da ricordare e da mettere in atto. Se abbiamo scarsa familiaritÀ verso una risposta emozionale, per quanto essa sia vantaggiosa, È estremamente difficile riuscire a ricorrere ad essa quando si È sconvolti. Ma se ci si È esercitati al punto da farla diventare automatica, ci sono maggiori probabilitÀ di riuscire ad esprimerla durante una crisi emozionale. Per queste ragioni, le strategie di cui abbiamo parlato devono essere sperimentate e ripassate non solo nella foga della battaglia, ma anche durante scambi privi di tensione: solo cosÃŒ facendo esiste una probabilitÀ che esse divengano una risposta acquisita immediata (o almeno una seconda risposta non troppo ritardata) nel repertorio del circuito emozionale. Essenzialmente, questi antidoti contro la disintegrazione della coppia non sono altro che una sorta di intervento correttivo nella sfera dell'intelligenza emotiva.

10. DIRIGERE COL CUORE.

Melbourn McBroom era un capo dal temperamento dominante il cui carattere intimidiva tutti quelli che lavoravano con lui. Questo fatto avrebbe potuto passare inosservato se McBroom avesse lavorato in un ufficio o in una fabbrica. Ma era un pilota di aeroplani.

Un giorno, nel 1978, l'aeroplano di McBroom stava avvicinandosi a Portland, nell'Oregon, quando egli si accorse di un problema al carrello. CosÌ McBroom si mise in rotta d'attesa, volando in circolo ad alta quota e cercando intanto di sistemare il meccanismo.

Mentre McBroom era ossessionato dal carrello, le spie dei misuratori di livello del carburante si avvicinavano sempre piÙ a fine corsa. Ma i copiloti erano talmente terrorizzati dalla collera di McBroom che non dissero nulla, anche quando il disastro ormai incombeva su di loro. L'aeroplano precipitÒ, e dieci persone rimasero uccise.

Oggi la storia di quell'incidente viene raccontata come aneddoto ammonitore nei corsi tenuti ai piloti di linea per addestrarli sulle norme di sicurezza (1). Nell'80 per cento degli incidenti agli aerei di linea, i piloti compiono errori evitabili, soprattutto se l'equipaggio coopera in modo piÙ armonioso. Nell'addestramento dei piloti, oltre alla perizia tecnica, oggi si dÀ grande importanza a fattori quali il lavoro di squadra, la possibilitÀ di comunicare apertamente, la cooperazione, la capacitÀ di ascoltare e di esprimere il proprio pensiero insomma, ai rudimenti dell'intelligenza sociale. La cabina di pilotaggio È un microcosmo che puÒ servire da modello di qualunque unitÀ di lavoro organizzata. Ma in assenza del drammatico controllo operato dalla situazione reale, controllo che si traduce nella caduta dell'aeroplano, gli effetti distruttivi di un morale basso, della paura dei dipendenti o dell'arroganza dei superiori - o ancora di una qualunque delle decine di possibili espressioni delle carenze emozionali sul posto di lavoro - possono passare in larga misura inosservate da chi si trovi all'esterno della situazione. Tuttavia, i costi di tutto ciÒ traspaiono da segnali quali una diminuita produttivitÀ, un aumento di scadenze non rispettate, errori e incidenti, e un esodo di dipendenti verso ambienti di lavoro piÙ congeniali. Inevitabilmente, sul lavoro, un basso livello di intelligenza emotiva comporta dei costi aggiuntivi. Quando questi costi sono incontrollati, le aziende possono collassare.

L'efficienza, in termini di costi, dell'intelligenza emotiva È un'idea relativamente nuova per le imprese, un concetto che alcuni dirigenti trovano probabilmente difficile da applicare. In uno studio condotto su 250 di loro È emerso che la maggior parte riteneva che il proprio lavoro richiedesse “testa, ma non cuore”. Molti confessarono di temere che sentimenti di empatia o compassione per coloro con cui lavoravano avrebbero generato una situazione di conflitto rispetto agli obiettivi dell'organizzazione. Uno degli intervistati credeva che l'idea di empatizzare con i propri dipendenti fosse assurda - sarebbe stato, cosÃŒ disse, “impossibile trattare con le persone”. Altri replicavano che se non fossero stati emotivamente indifferenti non sarebbero riusciti a prendere le decisioni “difficili” richieste dal loro lavoro - sebbene probabilmente sarebbero riusciti a comunicarle in modo piÙ umano (2).

Quello studio venne effettuato negli anni Settanta, quando l'ambiente del lavoro era molto diverso da oggi. La mia tesi È che tali atteggiamenti siano ormai superati, e vadano considerati un lusso dei tempi che furono; nelle imprese e sul mercato, una nuova realtÀ competitiva tiene l'intelligenza emotiva in grande considerazione. Come mi disse Shoshona Zuboff, una psicologa della Harvard Business School: “In questo secolo le aziende hanno vissuto una rivoluzione radicale, che È stata accompagnata da una corrispondente trasformazione del paesaggio emozionale. Ci fu un lungo periodo in cui la gerarchia aziendale era dominata da dirigenti che incarnavano il tipo di capo manipolativo, un'epoca in cui era premiato lo stile da guerriero della giungla. Ma negli anni Ottanta, quella rigida gerarchia cominciÃ’ a perder colpi sotto la doppia pressione della globalizzazione e della tecnologia dell'informazione. Il guerriero della giungla simbolizza il passato delle aziende; il virtuoso delle capacitÀ interpersonali rappresenta il loro futuro” (3).

Le ragioni di questi cambiamenti di tendenza sono, almeno in parte, assolutamente ovvie - immaginate quali sarebbero le conseguenze per un gruppo di lavoro se uno dei suoi membri fosse incapace di evitare esplosioni di collera o non avesse sensibilitÀ alcuna per ciÃ’ che provano le persone intorno a lui. Tutti gli effetti deleteri che l'agitazione puÃ’ avere sul pensiero, passati in rassegna nel capitolo 6, possono manifestarsi anche sul posto di lavoro: quando gli individui sono turbati o sconvolti, non sono piÙ in grado di ricordare, aspettare, imparare o prendere decisioni lucide. Come disse un consulente di organizzazione e direzione aziendale: “Lo stress rende la gente stupida”.

D'altro canto, sul versante positivo, immaginate quali benefici comporterebbe, ai fini del lavoro, l'essere ben dotati di competenze emozionali - essere in sintonia con i sentimenti delle persone con le quali trattiamo, riuscire a gestire i diverbi in modo da non farli degenerare, avere la capacitÀ di entrare in uno stato di flusso mentre lavoriamo. La leadership non È esercizio di potere, ma l'arte di persuadere le persone a lavorare per un obiettivo comune. In termini di gestione della propria carriera, poi, potrebbe non esserci nulla di piÙ essenziale del saper riconoscere quali siano i nostri sentimenti piÙ profondi riguardo ciÒ che facciamo - e quali cambiamenti potrebbero farci sentire piÙ soddisfatti del nostro lavoro.

Alcune delle ragioni meno ovvie che spiegano come mai le capacitÀ emozionali stiano assumendo una posizione di primo piano fra le doti ritenute importanti ai fini professionali riflettono importanti cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro. Vorrei spiegare questo punto mostrando quali grandi differenze possano comportare tre diverse applicazioni dell'intelligenza emotiva, e in particolare: essere capaci di presentare una critica in forma costruttiva; saper creare un'atmosfera nella quale la diversitÀ sia qualcosa da apprezzare e non una fonte di attrito; e la capacitÀ di lavorare con profitto come elementi di una rete di connessioni reciproche.

- Le critiche nell'ambiente di lavoro - come pugni nello stomaco.

Un ingegnere non piÙ giovane, a capo di un progetto per lo sviluppo di un software, stava presentando i risultati di mesi di lavoro, suo e del proprio gruppo, al vicepresidente della compagnia. Gli uomini e le donne che avevano lavorato al progetto per giorni e giorni, una settimana dopo l'altra, erano lÀ con lui, orgogliosi di presentare il frutto del proprio impegno. Ma quando l'ingegnere finÃŒ la sua presentazione, il vicepresidente si rivolse a lui e gli chiese con tono sarcastico: “Da quanto tempo si È laureato? Queste specifiche sono ridicole. Non hanno alcuna possibilitÀ di passare oltre la mia scrivania”.

L'ingegnere, estremamente imbarazzato e umiliato, sedette tristemente, ormai ridotto al silenzio, per il resto della riunione. I suoi collaboratori fecero alcuni tentativi - in parte sconnessi, in parte ostili - per difendere il proprio lavoro. Il vicepresidente venne poi chiamato altrove e la riunione si interruppe bruscamente, lasciando nei partecipanti un residuo di amarezza e di risentimento.

Nelle due settimane successive, l'ingegnere fu continuamente ossessionato dal ricordo dei commenti del vicepresidente. Demoralizzato e depresso, era convinto che l'azienda non gli avrebbe mai piÙ affidato incarichi importanti, e nonostante il suo lavoro gli piacesse, stava pensando di licenziarsi.

Alla fine, egli si decise e andÃ’ a parlare con il vicepresidente; gli ricordÃ’ l'episodio della riunione, i suoi commenti critici e il loro effetto demoralizzante. Poi, l'ingegnere pose al vicepresidente una domanda attentamente formulata: “Ho le idee un po' confuse su ciÃ’ che lei intendeva ottenere. Non credo che stesse solo cercando di mettermi in imbarazzo - quale altro obiettivo aveva in mente?”.

Il vicepresidente rimase sconcertato: non aveva idea alcuna del fatto che il suo commento - nei suoi intenti null'altro che una battuta - fosse stato cosÃŒ devastante. In realtÀ, egli pensava che il progetto del software fosse promettente ma necessitasse di altro lavoro; non aveva avuto alcuna intenzione di liquidarlo come qualcosa assolutamente priva di valore. Semplicemente non si era reso conto, egli disse, di aver espresso tanto male la propria reazione, né si era accorto di aver ferito i sentimenti altrui. Sebbene in ritardo, il vicepresidente si scusÃ’ (4).

Spesso questi problemi sono una questione di feedback, ossia di riuscire a ottenere le informazioni essenziali per orientare correttamente i propri sforzi. Nella sua accezione originale, nella teoria dei sistemi, la parola inglese 'feedback' indicava lo scambio di dati relativo al funzionamento di una parte del sistema, nella consapevolezza che il funzionamento di una parte influenza quello di tutte le altre, e nella convinzione che la deviazione di ognuna di esse dal funzionamento ottimale debba essere corretta in modo da assicurare le prestazioni migliori. In un'azienda ciascuno fa parte del sistema e quindi lo scambio di informazioni che consente agli individui di sapere se il loro lavoro va bene, necessita di leggere modifiche, va migliorato, o deve essere completamente riorientato - in altre parole, il feedback - È la linfa vitale dell'organizzazione. In assenza di feedback l'individuo brancola nel buio; non ha idea alcuna di come vadano le sue relazioni con i superiori e con i colleghi, né puÃ’ sapere se sta soddisfacendo le aspettative degli altri; in tali condizioni, ogni problema potrÀ solo peggiorare con il passare del tempo.

In un certo senso, la formulazione di giudizi critici È uno dei compiti piÙ importanti di un dirigente. Tuttavia È anche uno di quelli piÙ temuti e fastidiosi: come il sarcastico vicepresidente della nostra storia, troppi dirigenti hanno una scarsa padronanza dell'importantissima arte del feedback. Questa carenza impone costi elevati: proprio come, nel caso di una coppia, la salute emozionale dipende dalla capacita dei due partner di dar voce correttamente alle loro proteste, analogamente l'efficienza, la soddisfazione e la produttivitÀ sul lavoro dipendono dal modo in cui vengono comunicate le informazioni su eventuali questioni sgradevoli. In veritÀ, il modo in cui le critiche vengono formulate e ricevute È molto importante per determinare il grado di soddisfazione dell'individuo relativamente al proprio lavoro e alle persone con le quali lavora e a cui deve rispondere.

- Il modo peggiore per motivare qualcuno.

Gli eventi emozionali che abbiamo visto essere attivi nel matrimonio operano anche sul posto di lavoro, dove assumono forme simili. Anche qui, spesso le critiche vengono espresse come attacchi personali e non come proteste in base alle quali correggersi; ci sono poi accuse 'ad hominem' con sprazzi di disgusto, sarcasmo e disprezzo; entrambi gli approcci inducono l'altro ad assumere atteggiamenti difensivi, ad evitare le responsabilitÀ e, infine, a ricorrere all'ostruzionismo o a quella forma di resistenza passiva e amareggiata che deriva dal sentirsi trattati ingiustamente. Secondo un consulente di organizzazione e direzione aziendale, una delle forme di critica distruttiva piÙ comune sul posto di lavoro consiste in un'affermazione aspecifica del tipo “Stai solo facendo casino”, buttata lÃŒ con un tono aspro, sarcastico e irritato, senza offrire alcuna possibilitÀ di rispondere né alcun suggerimento per far meglio. Dal punto di vista dell'intelligenza emotiva, questo tipo di critica dimostra che chi la fa ignora i sentimenti che essa scatenerÀ in coloro che la riceveranno, come pure gli effetti devastanti che quei sentimenti avranno sulla motivazione, l'energia e la sicurezza che costoro metteranno nello svolgere il proprio lavoro.

Questa dinamica distruttiva emerse evidente in un'inchiesta condotta su individui con incarichi manageriali, ai quali si chiedeva di ripensare alle volte in cui avevano rimproverato i loro impiegati e, nella foga del momento, li avevano attaccati personalmente (5). Gli attacchi pieni di risentimento avevano effetti molto simili a quelli che avrebbero avuto in una coppia di coniugi: molto spesso, gli impiegati che ne erano fatti oggetto reagivano mettendosi sulla difensiva, giustificandosi o sfuggendo alla responsabilitÀ. In altri casi, essi ricorrevano all'ostruzionismo - ossia, cercavano di evitare ogni contatto con il superiore che li aveva rimproverati. Se questi impiegati amareggiati fossero stati sottoposti alla stessa analisi microscopica che John Gottman aveva usato per le coppie di coniugi, senza dubbio sarebbe emerso che anch'essi si ritenevano vittime innocenti o si sentivano legittimamente indignati, proprio come accadeva nel caso dei coniugi che si consideravano attaccati slealmente. Se si fossero misurati i loro parametri fisiologici, probabilmente questi soggetti si sarebbero dimostrati anch'essi “inondati” dalla “piena” emozionale che rinforza tali pensieri. Tuttavia, queste reazioni non facevano che irritare e provocare ulteriormente i loro superiori: ciÃ’ sta a indicare l'innesco di un ciclo che si conclude nel licenziamento del dipendente o nel suo abbandono spontaneo del posto di lavoro - quello che, nel contesto aziendale, equivale a un divorzio.

In veritÀ, in uno studio su 108 dirigenti e colletti bianchi, un atteggiamento critico poco costruttivo era precursore di sfiducia, conflitti di personalitÀ e dispute relative al potere e alla paga come ragione di conflitto sul lavoro (6). Un esperimento effettuato al Rensselaer Polytechnic Institute mostra quanto possa essere dannoso per le relazioni di lavoro un atteggiamento critico sferzante. In una simulazione, alcuni volontari vennero incaricati di creare una pubblicitÀ per un nuovo shampoo. Stando alle apparenze, un altro volontario (d'accordo con gli sperimentatori) giudicava i lavori che essi proponevano; in realtÀ i volontari erano fatti oggetto di una critica, scelta fra due tipi accordati in precedenza. Il primo tipo di critica era riguardosa e specifica. Ma l'altra includeva minacce e incolpava dell'insuccesso le carenze insite nella persona, con commenti come: “Non doveva nemmeno tentare; sembra che non sappia fare nulla di buono” e “Probabilmente È proprio mancanza di talento. DovrÃ’ cercare qualcun altro”.

Comprensibilmente i volontari attaccati con questo secondo tipo di critica divennero tesi e irritati e assunsero un atteggiamento antagonistico, dicendo che si sarebbero rifiutati di collaborare a progetti futuri con la persona che aveva espresso le critiche. Molti dissero che avrebbero desiderato evitare del tutto ogni contatto - in altre parole, erano divenuti inclini all'ostruzionismo. Le critiche dure e sarcastiche demoralizzarono a tal punto coloro che le ricevettero da indurli a non impegnarsi piÙ molto nel lavoro e da portarli ad affermare che non si sentivano piÙ in grado di farlo bene, il che era forse piÙ grave. L'attacco personale era stato devastante per il loro morale.

Molti dirigenti sono esageratamente pronti alle critiche, ma troppo parchi di elogi, lasciando ai loro sottoposti la sensazione che gli unici commenti che sarÀ loro dato di sentire saranno degli appunti in occasione di un errore. Questa propensione alla critica È ancora piÙ grave se i dirigenti non forniscono ai propri sottoposti alcun feedback per lunghi periodi. “La maggior parte dei problemi riguardanti la prestazione di un dipendente non emerge all'improvviso, ma si sviluppa lentamente nel tempo”, osserva J. R. Larson, uno psicologo della Illinois University di Urbana. “Quando il superiore non comunica immediatamente i propri sentimenti, il livello di frustrazione cresce lentamente. Poi, un giorno, egli esplode. Se le critiche fossero state fatte prima, il dipendente avrebbe potuto correggersi. Troppo spesso gli individui danno voce alle critiche solo quando la goccia ha fatto traboccare il vaso - quando sono ormai troppo irritati per contenersi. Ed È proprio allora che le critiche vengono formulate nel peggiore dei modi, con un tono di mordace sarcasmo, richiamando alla mente una lunga lista di proteste mai espresse, oppure facendo minacce. Tali attacchi tendono a ritorcersi: poiché vengono recepiti come un affronto, chi ne È oggetto si irrita a sua volta. Questo È il modo peggiore per motivare qualcuno.”

- La critica costruttiva.

Consideriamo ora l'alternativa.

Da parte di un dirigente, una critica abile puÃ’ rivelarsi uno dei messaggi piÙ utili. Ad esempio, il vicepresidente sprezzante della nostra storia avrebbe potuto dire all'ingegnere qualcosa come: “In questa fase, la difficoltÀ principale È che il vostro piano richiederebbe troppo tempo e quindi i costi lieviterebbero in modo esagerato. Vorrei che pensaste ancora alla vostra proposta, soprattutto alle specifiche del progetto per lo sviluppo del software, per vedere se riuscite a trovare un modo per fare lo stesso lavoro piÙ rapidamente”. Un messaggio del genere ha un impatto opposto rispetto alla critica distruttiva: invece di creare un senso di impotenza, collera e ribellione, fa affiorare la speranza di migliorare e suggerisce le prime mosse per farlo.

Una critica abile si concentra su quel che una persona ha fatto e puÃ’ fare, senza voler vedere, in un lavoro scadente, il segno della personalitÀ del suo autore. Come osserva Larson: “Un attacco alla personalitÀ - dare a qualcuno dello stupido o dell'incompetente - È un'operazione che fallisce il bersaglio. In questo modo, infatti, l'altro si mette immediatamente sulla difensiva, e perciÃ’ non recepirÀ i suggerimenti che gli verranno offerti per migliorare”. Questo consiglio, naturalmente, È esattamente lo stesso dato ai coniugi che esprimono i propri rancori.

In termini di motivazione, quando gli individui pensano che i loro fallimenti siano dovuti a un proprio difetto immodificabile, perdono la speranza e desistono da ogni tentativo. La fondamentale convinzione che porta ad essere ottimisti, lo ricorderete, È che le battute d'arresto e i fallimenti siano dovuti a circostanze che possono essere modificate e rese migliori.

Harry Levinson, uno psicoanalista diventato consulente aziendale, dÀ i seguenti consigli sull'arte della critica, che È strettamente legata a quella dell'elogio:

- 'Essere specifici' - Prendiamo un incidente significativo, un evento che denoti un problema fondamentale per il quale siano necessarie delle modifiche, o che faccia emergere una carenza, ad esempio l'incapacitÀ di fare bene determinate parti di un lavoro. Se l'individuo si sente semplicemente dire che sta facendo “qualcosa” di sbagliato, senza che nessuno gli spieghi i particolari, e quindi senza sapere che cosa debba cambiare, si demoralizzerÀ. Bisogna invece concentrarsi sulle specifiche, dire che cosa È stato fatto bene, che cosa È stato fatto male e come si potrebbe migliorare. Non bisogna mai menare il can per l'aia, o essere obliqui o evasivi; tale atteggiamento confonderebbe il messaggio reale. Questo consiglio, naturalmente, È simile a quello rivolto ai coniugi, di formulare le loro proteste secondo lo schema “X y z”: dire esattamente qual È il problema, che cosa c'È di sbagliato nella situazione, o come essa vi fa sentire, e come potrebbe essere modificata.

“La specificitÀ” sottolinea Levinson “È ugualmente importante, sia nell'elogio che nella critica. Non voglio dire che un elogio vago non avrÀ effetto, ma comunque non ne avrÀ molto, e non se ne potranno trarre insegnamenti” (7).

- 'Offrire una soluzione' - La critica, come ogni utile feedback, dovrebbe indicare un modo per risolvere il problema, altrimenti lascia chi la riceve frustrato, demoralizzato o demotivato. La critica puÒ aprire la porta a possibilitÀ e alternative che l'individuo non si rendeva conto esistessero, oppure semplicemente sensibilizzarlo sulle carenze che richiedono la sua attenzione; in ogni caso, comunque, dovrebbe includere qualche suggerimento sul come affrontare questi problemi.

- 'Essere presenti' - Le critiche, come gli elogi, sono massimamente efficaci quando vengono comunicati in privato in un'interazione faccia a faccia. Le persone che si sentono a disagio nel fare una critica - o un elogio - probabilmente hanno la tendenza a rendere meno gravosa questa incombenza inviando tali messaggi a distanza ad esempio per iscritto. Questo rende perÒ troppo impersonale la comunicazione, e priva la persona criticata dell'opportunitÀ di rispondere o di chiedere un chiarimento.

- 'Essere sensibili' - Questo È un richiamo all'empatia, un invito ad essere in sintonia con l'altro e a percepire l'impatto di ciÒ che si dice e di come lo si dice sulla persona che riceve il messaggio. I dirigenti scarsamente empatici, sostiene Levinson, sono molto inclini a fornire il feedback in modo offensivo, come una raggelante umiliazione. L'effetto netto di queste critiche È distruttivo: invece di aprire la strada alla correzione dell'errore, generano una reazione emotiva negativa di risentimento e di amarezza, spingendo l'individuo a mettersi sulla difensiva e a tenere le distanze.

Levinson dÀ anche qualche consiglio a chi riceve le critiche. Uno È quello di considerarle non alla stregua di un attacco personale, ma come preziose istruzioni per migliorare. Un altro È quello di guardarsi dalla tentazione di mettersi sulla difensiva, invece di assumersi le proprie responsabilitÀ. Se il colloquio dovesse diventare emozionalmente troppo difficile, Levinson consiglia di chiedere una breve sospensione - un intervallo per assorbire il messaggio e calmarsi un poco. Infine, egli consiglia di pensare alle critiche non come a una situazione di conflitto, ma come a un'opportunitÀ per cooperare con chi le muove, al fine di risolvere il problema. Tutti questi consigli assennati, naturalmente, ricordano molto da vicino i suggerimenti per i coniugi che cercano di superare i propri rancori senza arrecare un danno permanente alla relazione. CiÒ che vale per il matrimonio, va bene anche nell'ambiente di lavoro.

- Alle prese con la diversitÀ.

Sylvia Skeeter, un'ex capitano dell'esercito sulla trentina, era capoturno a un ristorante della catena Denny's di Columbia, nel South Carolina. In un pomeriggio alquanto fiacco, un gruppo di clienti neri - un ministro del culto, un pastore e due cantanti di 'gospel' in visita - entrarono per mangiare e rimasero lÃŒ seduti per moltissimo tempo, completamente ignorati dalle cameriere. Queste ultime, ricorda Skeeter “avevano un atteggiamento piuttosto ostentato e, con le mani sui fianchi, se ne stavano a chiacchierare nel retro, come se per loro un cliente di colore, a un metro e mezzo di distanza, non esistesse neppure”.

Skeeter, indignata, affrontÃ’ le cameriere e protestÃ’ con il direttore, che minimizzÃ’ la cosa dicendo: “Sono state allevate cosÃŒ, e io non posso farci nulla”. Skeeter - che È lei stessa di colore - si licenziÃ’ all'istante.

Se si fosse trattato di un incidente isolato, questo episodio di spudorato pregiudizio razziale avrebbe anche potuto passare inosservato. Ma Sylvia Skeeter fu una delle centinaia di persone che si offrirono di testimoniare contro un comportamento molto diffuso nei ristoranti Denny's; questo modo di fare era indice di pregiudizio razziale contro i neri, e si tradusse in un risarcimento di 54 milioni di dollari, stabilito nel corso dell'azione legale che fu intentata per conto di migliaia di clienti di colore che avevano subito questo trattamento indegno.

I querelanti comprendevano un gruppo di sette agenti afroamericani del servizio segreto che aspettarono per un'ora la colazione, mentre i loro colleghi bianchi, al tavolo vicino, furono serviti in quattro e quattr'otto - facevano tutti parte del programma di sicurezza per una visita del presidente Clinton alla United States Naval Academy di Annapolis. C'era anche una ragazza nera paralizzata alle gambe, di Tampa, in Florida, che una sera tardi, dopo una gita, dovette aspettare la sua cena due ore, seduta sulla sedia a rotelle. Il comportamento discriminatorio, venne sostenuto al processo, era dovuto all'idea diffusa nei ristoranti Denny's - soprattutto a livello dei direttori locali - che i neri non fossero buoni clienti. Oggi, in larga misura grazie all'azione legale e alla pubblicitÀ che l'ha circondata, la catena di ristoranti Denny's sta facendo ammenda verso la comunitÀ nera. Tutti i dipendenti, soprattutto se si tratta di dirigenti, devono frequentare dei seminari sui vantaggi di una clientela multirazziale.

In America, questi seminari sono diventati il pane quotidiano nei programmi aziendali di addestramento interno; infatti, i dirigenti sono sempre piÙ consapevoli che, sebbene la gente porti con sé i propri pregiudizi anche sul lavoro, essa deve comunque imparare a comportarsi come se non ne avesse. Al di lÀ delle norme umanitarie e del vivere civile, le ragioni di ciÃ’ sono pragmatiche. Una di esse È il cambiamento del volto della forza lavoro, nella quale i maschi bianchi, che un tempo erano il gruppo dominante, stanno diventando una minoranza. Un'inchiesta su diverse centinaia di aziende americane ha messo in luce come piÙ di tre quarti dei nuovi dipendenti non siano bianchi - un cambiamento demografico che si riflette anche, in larga misura, in una diversa composizione razziale della clientela (8). Un'altra ragione sta nella sempre maggiore esigenza, soprattutto nel caso di aziende internazionali, di avere dipendenti non solo in grado di mettere da parte qualunque pregiudizio, e di apprezzare culture (e mercati) diversi, ma capaci anche di trasformare quell'apprezzamento in un vantaggio competitivo. Una terza motivazione sta negli utili potenzialmente offerti dalla diversitÀ in termini di maggior creativitÀ ed energia imprenditoriale collettiva.

Tutto questo significa che, sebbene i pregiudizi possano sopravvivere a livello individuale, la cultura delle organizzazioni deve cambiare nel segno della tolleranza. Ma come puÃ’, un'azienda, mettere in pratica tutto questo? Il triste sta nel fatto che l'infinitÀ di corsi di “addestramento alla diversitÀ” (da tenersi in un giorno, in un weekend, tutti registrati su un'unica videocassetta) non sembrano modificare davvero i pregiudizi di quei dipendenti che li affrontano con profonda prevenzione contro l'uno o l'altro gruppo - sia che si tratti dei pregiudizi dei bianchi contro i neri, dei neri contro gli asiatici, o degli asiatici verso gli ispanici. In realtÀ, l'effetto netto di questi inutili corsi sulla diversitÀ - quelli che alimentano false aspettative promettendo troppo, o che semplicemente creano un'atmosfera di confronto invece che di comprensione - puÃ’ essere quello di aumentare la tensione che divide i gruppi sul posto di lavoro, attirando un'attenzione ancora maggiore sulle loro differenze. Per comprendere che cosa si possa fare, È utile prima di tutto comprendere la natura del pregiudizio.

LE RADICI DEL PREGIUDIZIO.

Attualmente, lo psichiatra Vamik Volkan lavora alla Virginia University, ma ricorda bene l'esperienza di essere stato allevato da una famiglia turca nell'isola di Cipro, allora aspramente contesa fra greci e turchi. Da bambino, Volkan aveva sentito dire che i preti greci locali facevano un nodo alla loro cintura per ogni bambino turco che avevano strangolato, e ricorda molto bene il disprezzo col quale gli raccontarono che i suoi vicini greci mangiavano carne di maiale, che la cultura turca considerava un cibo impuro. Ora, come studioso dei conflitti etnici, Volkan si serve di questi ricordi della sua infanzia per dimostrare come l'odio fra i gruppi venga tenuto vivo e alimentato negli anni - quando ogni nuova generazione viene imbevuta e impregnata di pregiudizi ostili come questi (9). Il prezzo psicologico della lealtÀ verso la propria gente puÒ essere l'antipatia verso un altro gruppo, soprattutto quando fra di essi c'È una lunga storia di inimicizia.

I pregiudizi sono un tipo di insegnamento emozionale che viene impartito molto presto nella vita, il che li rende particolarmente difficili da sradicare, anche in persone che, una volta divenute adulte, capiscano quanto sia sbagliato sostenerli. “Le emozioni legate al pregiudizio si formano durante l'infanzia, mentre le convinzioni con cui l'individuo lo giustifica compaiono piÙ tardi” spiega Thomas Pettigrew, studioso di psicologia sociale presso la California University di Santa Cruz, che ha lavorato per decenni sul pregiudizio. “PuÃ’ darsi che in seguito, nella vita, l'individuo voglia liberarsi del suo pregiudizio, ma È di gran lunga piÙ facile modificare le convinzioni intellettuali che non i sentimenti profondi. Molti americani degli stati del Sud mi hanno confessato, ad esempio, che sebbene nella loro mente non sentano piÙ il pregiudizio contro i neri, provano ancora un senso di fastidio quando stringono loro la mano. Questi sentimenti sono il residuo di quanto venne loro insegnato in famiglia da bambini” (10).

Il potere degli stereotipi che alimentano il pregiudizio dev'essere in parte attribuito a una dinamica piÙ neutrale, grazie alla quale tutti gli stereotipi si autoconfermano (11). Gli individui, infatti, ricordano piÙ facilmente gli esempi a sostegno degli stereotipi, mentre tendono a tralasciare quelli che li mettono in discussione. Incontrando a un party un inglese cordiale ed espansivo che smentisce lo stereotipo del britannico freddo e riservato, ad esempio, la gente penserÀ fra sé e sé che quel tale È proprio un tipo insolito, o che forse “deve aver bevuto”.

La tenacia dei pregiudizi puÃ’ spiegare perché, nonostante nel corso degli ultimi quarant'anni gli atteggiamenti degli americani bianchi verso i neri siano diventati sempre piÙ tolleranti, persistano tuttavia forme piÙ subdole di pregiudizio. La gente rinnega gli atteggiamenti razzisti, ma agisce ancora guidata da velati pregiudizi (12). Se interrogate, queste persone dichiarano di non essere assolutamente intolleranti, ma nelle situazioni ambigue si lasciano ancora guidare dal pregiudizio - sebbene spieghino il proprio comportamento in modo da non doverlo contemplare. Ad esempio, un dirigente anziano bianco - convinto di non avere pregiudizi - potrebbe rifiutare la domanda di lavoro di un nero (apparentemente non a causa della sua razza, ma perché la sua istruzione e la sua esperienza “proprio non si confanno” al tipo di lavoro) per assumere poi un candidato bianco che ha pressappoco la stessa formazione. Oppure, un venditore bianco potrebbe vedersi offrire l'opportunitÀ di un 'briefing' e di utili suggerimenti sul come fare una telefonata - possibilitÀ negate al suo collega nero o ispanico.

NESSUNA TOLLERANZA PER L'INTOLLERANZA.

Se È vero che i pregiudizi di antica data non possono essere sradicati tanto facilmente, quel che invece 'puÃ’' essere modificato È ciÃ’ che la gente 'fa' per combatterli. Da Denny's, ad esempio, le cameriere o i direttori locali che discriminavano la clientela nera venivano messi in discussione solo raramente, se mai lo erano. Anzi, sembra che alcuni dirigenti li abbiano, almeno tacitamente, incoraggiati ad assumere un atteggiamento discriminante, anche dando loro dei suggerimenti, come quello di farsi pagare anticipatamente il pasto solo dai clienti neri, negando loro i pranzi di compleanno gratuiti (peraltro ampiamente pubblicizzati) o ancora, chiudendo il locale proprio quando entra un gruppo di clienti di colore. John P. Relman, l'avvocato che intentÃ’ la causa contro la catena Denny's per conto degli agenti di colore del servizio segreto spiega: “La direzione di Denny's chiudeva un occhio di fronte al comportamento del personale. Dev'esserci stato qualche messaggio che in qualche modo autorizzÃ’ i direttori locali ad agire spinti dai loro impulsi razzisti” (13).

Ma tutto quello che sappiamo sulle radici del pregiudizio e sul modo di combatterlo efficacemente indica che È proprio questo atteggiamento - quello cioÈ di chiudere un occhio di fronte ad atti di pregiudizio - a permettere il dilagare della discriminazione. In questo contesto, non fare nulla È giÀ di per sé una presa di posizione importante, che lascia diffondere indisturbato il virus del pregiudizio. Una misura piÙ efficace dei seminari sulla diversitÀ - o forse essenziale affinché essi abbiano un maggior effetto - sta nel cambiare radicalmente le norme di un gruppo, prendendo una posizione attiva contro ogni atto di discriminazione, dai dirigenti di grado piÙ alto ai dipendenti di piÙ basso livello. PuÃ’ darsi che i pregiudizi non cambino, ma se il clima muta, È possibile stroncare gli atti da essi ispirati. Come disse un dirigente dell'I.B.M.: “Noi non tolleriamo in alcun modo mancanze di rispetto o insulti; il rispetto per l'individuo È fondamentale nella cultura dell'I.B.M.” (14).

Se la ricerca sul pregiudizio ha qualcosa da insegnarci sul come rendere piÙ tollerante la cultura aziendale, tale lezione sta nell'incoraggiare gli individui a denunciare atti di discriminazione o molestie anche in chiave minore - ad esempio il raccontare barzellette offensive o l'attaccare in ufficio calendari con donnine nude che possano umiliare le colleghe. Uno studio scoprÌ che quando le persone appartenenti a un gruppo sentivano qualcuno fare affermazioni calunniose a sfondo etnico, ciÒ induceva gli altri a fare lo stesso. Il semplice atto di chiamare il pregiudizio con il suo nome o di censurarlo immediatamente stabilisce un'atmosfera sociale che lo scoraggia; non dire nulla ha invece l'effetto di un condono (15). In questa impresa, gli individui che occupano posizioni di autoritÀ hanno un ruolo fondamentale: la loro mancata condanna di atti di pregiudizio invia il tacito messaggio che tali atti siano accettabili. Un rimprovero invia invece un potente messaggio, chiarendo che il pregiudizio non È cosa banale, ma ha conseguenze reali e negative.

Anche qui le capacitÀ dell'intelligenza emotiva comportano un vantaggio, soprattutto nell'avere l'abilitÀ sociale di sapere non solo quando, ma anche come parlare proficuamente contro il pregiudizio. Questo feedback dovrebbe essere espresso con tutta l'arte raffinata della critica efficace, in modo che possa essere ascoltato senza che vengano innescati atteggiamenti difensivi. Se nell'ambiente di lavoro questo feedback diventa un'abitudine, innata o appresa che sia, È molto probabile che gli incidenti attribuibili al pregiudizio diminuiscano.

I corsi sulla diversitÀ piÙ efficaci hanno stabilito una nuova regola esplicita fondamentale, che vieta, a livello di organizzazione, ogni forma di pregiudizio e pertanto incoraggia gli individui che ne siano stati testimoni o spettatori silenziosi a dar voce al proprio imbarazzo e alle proprie obiezioni. Un altro principio attivo È quello di assumere il punto di vista altrui, un atteggiamento che incoraggia l'empatia e la tolleranza. Nella misura in cui gli individui arrivano a comprendere il dolore di chi si sente discriminato, È piÙ probabile che si schierino contro la discriminazione.

In breve, È piÙ pratico adoperarsi per sopprimere l'espressione del pregiudizio, piuttosto che cercare di eliminare il pregiudizio stesso; gli stereotipi cambiano molto lentamente, se mai cambiano. Il semplice mettere insieme persone appartenenti a gruppi diversi contribuisce ben poco, o per nulla, a ridurre l'intolleranza, come dimostrano i casi di de-segregazione scolastica, nei quali l'ostilitÀ fra gruppi aumentÒ invece di diminuire. Ai fini dei moltissimi programmi di addestramento alla diversitÀ che stanno circolando nel mondo delle aziende, ciÒ significa che un obiettivo realistico potrebbe essere quello di cambiare le 'norme' con le quali un gruppo esprime il pregiudizio o la molestia; tali programmi possono fare molto per instillare nella consapevolezza collettiva l'idea che l'intolleranza e le molestie non sono accettabili e non saranno tollerate. Ma aspettarsi che essi sradichino profondi pregiudizi È poco realistico.

Tuttavia, poiché il pregiudizio È una varietÀ di apprendimento emozionale, 'È' possibile modificarlo, sebbene ciÃ’ richieda tempo e comunque non ci si possa aspettare un risultato del genere da un seminario sulla diversitÀ svolto in un'unica seduta. Quel che puÃ’ davvero fare la differenza, perÃ’, È un rapporto cameratesco prolungato, come pure lo sforzo quotidiano teso al raggiungimento di un obiettivo comune, da parte di persone di diverso sfondo etnico. In questo caso l'insegnamento ci viene dalla de-segregazione in ambito scolastico: quando i gruppi non riescono a mescolarsi socialmente, formando invece cricche ostili, gli stereotipi negativi si intensificano. Ma quando gli studenti lavorano insieme alla pari per raggiungere un obiettivo comune, come accade nello sport o nelle bande, ecco che i loro stereotipi si spezzano - cosa che ovviamente puÃ’ accadere anche sul posto di lavoro, quando gli individui lavorano insieme da pari a pari per anni. (16).

Ma limitarsi a combattere il pregiudizio sul posto di lavoro significa perdere una maggiore opportunitÀ: quella cioÈ di trarre vantaggio dalle possibilitÀ creative e imprenditoriali che una forza lavoro eterogenea puÃ’ offrire. Come vedremo, un gruppo di lavoro con doti e prospettive diverse, purché riesca a operare in armonia, raggiungerÀ probabilmente soluzioni migliori, piÙ creative ed efficaci di quelle ottenute dai suoi stessi membri quando lavorano isolati.

- Buon senso aziendale e Q.I. del gruppo.

Alla fine del secolo, un terzo della forza lavoro americana sarÀ costituito da 'knowledge workers', persone la cui produttivitÀ sarÀ caratterizzata dalla grande importanza attribuita all'informazione - cioÈ analisti del mercato, scrittori, o programmatori di computer. Peter Druckers che coniÃ’ per primo questa espressione afferma che la competenza di questi lavoratori È altamente specializzata e che la loro produttivitÀ dipende dal coordinamento degli sforzi dei singoli come parte di un gruppo organizzato: gli scrittori non sono editori; i programmatori di computer non sono distributori di software. Sebbene le persone abbiano sempre lavorato in tandem, osserva Drucker, nel caso del lavoro imperniato sulla conoscenza e l'informazione, “i gruppi diventano l'unitÀ di lavoro al posto dell'individuo” (17). Questo spiega perché l'intelligenza emotiva - ossia l'insieme delle capacitÀ che aiutano le persone a interagire armoniosamente - dovrebbe acquistare sempre maggior valore negli anni a venire, rappresentando un vero e proprio asso nella manica di cui avvalersi sul luogo di lavoro.

Forse la forma piÙ rudimentale di lavoro di gruppo organizzato È l'incontro - il meeting - quella parte inevitabile del destino di un dirigente, indipendentemente dal fatto che abbia luogo in una sala riunioni, al telefono o nell'ufficio di qualcuno. Le riunioni di piÙ persone nella stessa stanza non sono che l'esempio piÙ ovvio e in un certo senso antiquato, del modo in cui È possibile condividere il lavoro. Le reti elettroniche, la posta elettronica, le teleconferenze, i gruppi di lavoro, le reti informali, e altre simili realtÀ, stanno emergendo come nuove funzioni nelle organizzazioni. Proprio come la gerarchia esplicita rappresentata da un organigramma È lo scheletro di un'azienda, questi punti di contatto umani sono il suo sistema nervoso centrale.

Ogni qualvolta gli individui si riuniscono per collaborare, che si tratti di una riunione di programmazione esecutiva, o dell'incontro di un gruppo di persone che lavorano a un prodotto comune, È molto realistico affermare che, in un certo senso, il gruppo ha un suo Q.I., equivalente alla somma totale dei talenti e delle capacitÀ di tutte le persone coinvolte. E il livello di eccellenza che esse raggiungeranno nel realizzare il compito che si sono prefisse sarÀ determinato dal valore di quel Q.I. L'elemento piÙ importante dell'intelligenza di gruppo, non È risultato essere il Q.I. medio nel senso accademico del termine, bensÌ quello che descrive l'intelligenza emotiva. La chiave per ottenere un elevato Q.I. di gruppo È l'armonia sociale all'interno di esso. E' questa capacitÀ di funzionare armonicamente che, a paritÀ di tutte le altre, renderÀ un gruppo particolarmente dotato, produttivo e coronato dal successo mentre un altro renderÀ poco pur essendo costituito da membri che per altri aspetti hanno talenti e abilitÀ simili.

L'idea che esista un'intelligenza di gruppo È venuta da Robert Sternberg, uno psicologo di Yale, e da Wendy Williams, una specializzanda, che stavano cercando di comprendere come mai alcuni gruppi sono di gran lunga piÙ efficienti di altri (18). Dopo tutto, quando le persone si riuniscono per lavorare insieme come gruppo, ciascuno porta in dote determinati talenti - ad esempio una grande capacitÀ verbale, creativitÀ, empatia o competenza tecnica. Sebbene un gruppo non possa essere “piÙ intelligente” della somma totale di tutte queste capacitÀ specifiche, puÃ’ risultare invece molto piÙ ottuso se il suo funzionamento interno non consente agli individui di mettere in comune con gli altri i propri talenti. Questo principio divenne evidente quando Sternberg e Williams reclutarono i volontari per costituire dei gruppi ai quali affidare il compito di ideare una buona campagna pubblicitaria per un dolcificante artificiale che sembrava promettente come sostituto dello zucchero.

Un risultato sorprendente fu che gli individui 'troppo' desiderosi di prendere parte all'attivitÀ collettiva si dimostrarono di intralcio per il gruppo, abbassandone il livello della prestazione complessiva; questi tipi zelanti tendevano ad esercitare un controllo o un potere esagerato. Tali individui sembravano mancare di un elemento fondamentale dell'intelligenza sociale, ossia della capacitÀ di riconoscere che cosa sia piÙ o meno giusto nei rapporti di dare e avere. Un altro fattore negativo era rappresentato dalla presenza di pesi morti, ossia di membri che non partecipavano.

Il fattore piÙ importante nel massimizzare la qualitÀ del prodotto di un gruppo era la capacitÀ dei suoi membri di creare uno stato di armonia interna, che gli consentiva di sfruttare proficuamente tutti i talenti disponibili. Nei gruppi capaci di tale armonia, la prestazione complessiva poteva avvalersi del fatto di avere un membro di particolare talento; i gruppi caratterizzati da piÙ attrito, invece, erano molto meno abili nel trarre vantaggio dalla presenza di membri molto capaci. Nei gruppi disturbati da un notevole rumore di fondo emozionale e sociale - indipendentemente dal fatto che ciÃ’ derivi dalla paura o dalla collera, dalle rivalitÀ o dal risentimento - gli individui non possono dare il meglio di sé. L'armonia, invece, consente a un gruppo di trarre il massimo vantaggio dalle capacitÀ dei suoi membri piÙ creativi e di talento.

Sebbene la morale di questo discorso sia chiara nel caso dei gruppi di lavoro, essa ha comunque anche implicazioni piÙ generali per chiunque operi all'interno di un'organizzazione. Molto di quanto le persone fanno sul lavoro dipende dalla loro capacitÀ di fare appello a una rete di colleghi; la necessitÀ di svolgere compiti diversi puÃ’ implicare l'esigenza di rivolgersi a membri diversi della rete. In effetti, questo crea la possibilitÀ di costituire gruppi ad hoc, ciascuno configurato in modo da offrire una gamma ottimale di talenti, competenze e assegnazione di mansioni. Il fatto che le persone riescano a “elaborare” una rete - in pratica che sappiano fare di essa una squadra temporanea ad hoc - È un fattore cruciale nel successo sul lavoro.

Consideriamo, ad esempio, uno studio compiuto su persone in grado di dare prestazioni ottimali, presso i Bell Labs, nei pressi di Princeton, una banca di idee famosa in tutto il mondo. I laboratori sono frequentati da scienziati e ingegneri che hanno tutti raggiunto i massimi punteggi nei test per la valutazione del Q.I. Ma all'interno di questo pool di talenti, alcuni elementi emergono come vere e proprie stelle, mentre la produzione di altri È solo mediocre. CiÃ’ che fa la differenza, fra le stelle e gli altri, non È il Q.I. riferito all'intelligenza accademica, ma il loro Q.I. 'emozionale'. Le “stelle” sono piÙ abili nel motivare se stesse e nell'elaborare le proprie reti informali facendone squadre di lavoro ad hoc.

Questi soggetti di spicco furono argomento di uno studio, che si occupÃ’ in particolare di quelli che lavoravano in un settore del laboratorio per la progettazione degli interruttori elettrici per il controllo dei sistemi telefonici - un prodotto di ingegneria elettronica altamente sofisticato e complesso (19). Poiché questo tipo di lavoro È al di lÀ delle capacitÀ di qualunque singolo individuo, esso viene svolto in squadre costituite da un numero di ingegneri compreso fra 5 e 150. Nessun singolo ingegnere conosce abbastanza da poter compiere tutto il lavoro da solo; per arrivare al prodotto È necessario attingere anche dalle competenze altrui. Al fine di scoprire le caratteristiche che differenziavano i soggetti altamente produttivi da quelli che lo erano in modo solo mediocre, Robert Kelley e Janet Caplan chiesero a dirigenti e altri membri del personale di nominare il 10-15 per cento degli ingegneri che a loro parere si staccavano dal gruppo, emergendo come “stelle”.

Inizialmente, quando i ricercatori confrontarono questi soggetti con gli altri ingegneri, il risultato piÙ impressionante fu la scarsa differenza fra i due gruppi. “Sulla base di un'ampia gamma di misure cognitive e sociali - dai test standard per la misura del Q.I. ai profili della personalitÀ - ci sono poche differenze significative nelle capacitÀ innate” scrissero Kelley e Caplan sulla 'Harvard Business Review'. “Come si vede, il talento accademico non era un buon fattore predittivo della produttivitÀ sul lavoro” - né lo era il Q.I.

Ma dopo colloqui dettagliati, emersero differenze critiche nelle strategie interne ed esterne adottate dalle “stelle” per portare a termine il proprio lavoro. Una delle piÙ importanti si rivelÃ’ essere il loro rapporto con una rete di persone chiave. Se le cose per gli individui eccezionali vanno meglio che per gli altri, È perché essi investono parte del loro tempo nel coltivare buoni rapporti con persone i cui servizi potrebbero essere necessari per costituire rapidamente una squadra ad hoc in grado di risolvere un problema o gestire una crisi. “Un ingegnere dei Bell Labs, classificato come esecutore mediocre, raccontava di essere in difficoltÀ a causa di un problema tecnico” osservarono Kelley e Caplan. “Egli chiamÃ’ allora diligentemente diversi esperti e poi aspettÃ’, perdendo tempo prezioso mentre le telefonate non ricevevano risposta e i messaggi inviati con la posta elettronica rimanevano lettera morta. Le 'stelle', invece, raramente si trovavano ad affrontare situazioni simili perché si costruivano reti affidabili ancor prima di averne realmente bisogno. Quando costoro chiamano qualcuno per un consiglio, ricevono quasi sempre una risposta piÙ rapida.”

Le reti informali sono utili soprattutto per gestire problemi imprevisti. “L'organizzazione formale È congegnata per gestire problemi facilmente anticipabili” si osserva in uno studio su queste reti. “Ma quando insorgono problemi inattesi, l'organizzazione informale È chiamata a fare la sua parte: ogni volta che i colleghi comunicano fra loro si forma una complessa trama di legami sociali, che nel tempo si solidifica configurando reti sorprendentemente stabili, altamente adattative e informali, che si muovono diagonalmente ed elitticamente, saltando intere funzioni per arrivare all'obiettivo” (20).

L'analisi delle reti informali dimostra come il solo fatto che alcuni individui lavorino insieme dalla mattina alla sera non significhi che debbano confidarsi informazioni delicate (come il desiderio di cambiare lavoro o il risentimento per il comportamento di un superiore o di un collega), né che si debbano interpellare reciprocamente nei momenti di crisi. In veritÀ, una concezione piÙ sofisticata delle reti informali dimostra che ne esistono almeno tre varietÀ: le reti di comunicazione - chi parla con chi; le reti di competenza, basate sulle persone alle quali ci si puÃ’ rivolgere per una consulenza; e le reti di fiducia. Trovarsi a livello di un nodo principale, in una rete di competenza, significa essere una persona con una reputazione di grande 'expertise' tecnico, il che spesso porta a una promozione. Ma praticamente non c'È alcuna relazione fra l'essere un esperto e l'essere considerato una persona alla quale poter confidare i segreti, i dubbi e punti deboli che ci assillano. Pur essendo molto competenti, un meschino capufficio tiranno o un micromanager possono ispirare talmente poca fiducia da essere esclusi dalle reti informali e veder compromesse le proprie capacitÀ come dirigenti. Le “stelle” di un'organizzazione sono spesso coloro che hanno forti legami su tutte le reti, siano esse di comunicazione, di competenza o di fiducia.

Oltre alla padronanza di queste reti essenziali, altre forme di buon senso aziendale che le “stelle” dei Bell Labs avevano dimostrato di possedere, comprendevano le seguenti capacitÀ: coordinare in modo efficace i propri sforzi nel lavoro di gruppo; assumersi la leadership nella costruzione del consenso; essere in grado di vedere le cose dalla prospettiva degli altri, ad esempio dei clienti o degli altri membri di un gruppo di lavoro; ancora, questi individui possedevano capacitÀ di persuasione e sapevano promuovere la cooperazione evitando conflitti. Tutte queste abilitÀ fanno riferimento a capacitÀ della sfera sociale; le “stelle”, perÃ’, mostravano anche un altro tipo di capacitÀ, erano cioÈ in grado di prendere l'iniziativa - in altre parole, erano abbastanza motivati da assumersi responsabilitÀ anche al di lÀ del lavoro assegnato - e sapevano autogestire proficuamente il proprio tempo e i propri impegni di lavoro. Tutte queste abilitÀ, naturalmente, sono aspetti dell'intelligenza emotiva. Ci sono forti segnali del fatto che ciÃ’ che vale ai Bell Labs sia importante per il futuro di tutte le altre aziende, in un domani in cui le abilitÀ fondamentali dell'intelligenza emotiva saranno sempre piÙ importanti nel lavoro di squadra, nella cooperazione e nell'aiutare i singoli ad apprendere insieme modalitÀ di lavoro improntate a una maggiore efficienza. Poiché i servizi basati sulla conoscenza e l'informazione come pure le risorse intellettuali diventano sempre piÙ importanti per le aziende, il miglioramento della cooperazione fra individui sarÀ uno dei modi principali per mettere a frutto le risorse intellettuali a disposizione, a tutto beneficio della propria competitivitÀ. Per prosperare, se non anche per sopravvivere, le aziende farebbero bene a potenziare la propria intelligenza emotiva di gruppo.

11. MENTE E MEDICINA.

'“Che cosa ne pensa dottore?”

La replica giunse immediata.

“Sta soffrendo.”

ALBERT CAMUS, 'La peste'.

Era stato un vago dolore all'inguine a spedirmi dal dottore. Sembrava non ci fosse nulla di insolito, finché il medico non vide i risultati delle analisi delle urine. C'erano tracce di sangue.

“Voglio che vada in ospedale a fare qualche test funzione renale, esame citologico” elencÃ’ in tono professionale.

Non ho la piÙ pallida idea di quel che disse dopo. La mia mente si era come paralizzata sulla parola 'citologico'. Cancro.

Ho un ricordo molto confuso della spiegazione del dottore sul quando e il dove fare i test diagnostici. Si trattava di istruzioni semplicissime, ma dovetti chiedergli di ripetermele tre o quattro volte. 'Esame citologico' - la mia mente si era come avvinghiata a quelle due parole e non aveva intenzione di lasciare la presa; mi sentivo come se avessi appena subito un'aggressione proprio sulla porta di casa mia.

Perché una reazione cosÃŒ forte? Il mio medico stava solo facendo il suo lavoro in modo scrupoloso e competente, controllando tutti i rami dell'albero logico che lo avrebbe portato alla diagnosi. La probabilitÀ che il mio vero problema fosse un cancro era remota. Ma quest'analisi razionale, in quel momento, era irrilevante. Nel mondo del malato, le emozioni regnano sovrane; la paura È lÃŒ, a un passo. La grande fragilitÀ emotiva del malato dipende dal fatto che il nostro benessere mentale si basa in parte sull'illusione di essere invulnerabili. La malattia - soprattutto se grave - manda in pezzi quest'illusione, sferrando un duro attacco alla nostra rassicurante convinzione di un mondo tutto nostro, protetto e sicuro. Improvvisamente ci sentiamo deboli, impotenti e vulnerabili.

Il problema si presenta quando medici e infermieri ignorano le reazioni 'emotive' dei pazienti, anche quando si prendono gran cura delle loro condizioni fisiche. Questa indifferenza verso la realtÀ emozionale della malattia ignora i dati, sempre piÙ numerosi, che dimostrano come lo stato emotivo possa avere a volte un ruolo significativo nella vulnerabilitÀ dell'individuo alla malattia e nel decorso della convalescenza. Troppo spesso l'assistenza sanitaria moderna manca di intelligenza emotiva.

Per il paziente, ogni interazione con un'infermiera o con un medico puÒ rappresentare un'occasione per ricevere informazioni rassicuranti, conforto e sollievo - oppure, se lo scambio È gestito in modo infelice, puÒ tradursi in un invito alla disperazione. Ma troppo spesso medici e infermieri sono frettolosi o indifferenti al disagio e alla sofferenza dei pazienti. Sicuramente, ci sono fra loro persone compassionevoli che trovano il tempo di rassicurare e informare oltre a quello di somministrare medicine. Ma la tendenza corrente sembra portare a un universo professionale nel quale il personale sanitario sia del tutto ignaro della vulnerabilitÀ dei pazienti, o comunque troppo sotto pressione per occuparsene. Dovendosi confrontare con la dura realtÀ di un sistema sanitario nel quale i tempi sono sempre piÙ spesso scanditi da contabili e ragionieri, le cose sembrano andare peggiorando.

Al di lÀ delle argomentazioni umanitarie affinché i medici offrano attenzioni e non solo cure, altre ragioni convincenti inducono a considerare la realtÀ psicologica e sociale dei pazienti non separatamente, ma come un elemento del quadro di interesse medico. Oggi si puÃ’ dimostrare scientificamente che - curando lo stato emotivo degli individui insieme alla loro condizione fisica - È possibile ritagliare un margine di efficacia in termini medici, sia a livello di prevenzione che di trattamento. Naturalmente questo non vale in ogni caso o per qualsiasi condizione. Tuttavia, l'analisi dei dati raccolti in centinaia e centinaia di casi, dimostra come in media si riscontrino - in termini 'medici' - miglioramenti sufficienti per ritenere che l'intervento a livello emotivo debba costituire, nelle malattie gravi, una normale componente dell'assistenza medica.

Storicamente, nella societÀ moderna la medicina ha identificato la sua missione nella cura della 'patologia' - il disturbo fisico - trascurando 'l'esperienza della malattia' - l'esperienza umana. I pazienti, facendo proprio questo approccio al problema, contribuiscono anch'essi a ignorare le proprie reazioni emotive alla malattia - o a liquidarle come irrilevanti ai fini del suo decorso. Questo atteggiamento È rinforzato da un modello medico contrario completamente all'idea che la mente possa influenzare il corpo in modo consequenziale.

All'altro estremo, tuttavia, troviamo una scuola di pensiero ugualmente sterile: mi riferisco al concetto che gli individui possano curare da soli anche le piÙ temibili malattie, semplicemente imponendosi di essere allegri o alimentando pensieri positivi; oppure che essi siano in qualche modo responsabili del fatto di essersi ammalati. Il risultato di questa retorica, secondo la quale “l'atteggiamento mentale cura qualunque malattia”, È stato quello di creare una grande confusione e molti fraintendimenti sull'entitÀ dell'influenza che la mente puÃ’ esercitare sulla malattia; inoltre - e questo È forse ancora piÙ grave - tale posizione ha a volte generato nei pazienti sensi di colpa riguardo alle loro malattie, come se il cattivo stato di salute fosse un segno di sbandamento morale o di indegnitÀ spirituale.

La veritÀ si trova in qualche punto fra questi due estremi. Analizzando e vagliando i dati scientifici, intendo chiarire le contraddizioni e sostituire alle stupidaggini una piÙ lucida comprensione del ruolo delle nostre emozioni - e dell'intelligenza emotiva - nella salute e nelle malattie.

- Il “cervello del corpo” - Importanza delle emozioni per la salute.

Nel 1974 una scoperta effettuata alla School of Medicine and Dentistry della Rochester University, ridisegnÒ la mappa della biologia dell'organismo: Robert Ader, uno psicologo, scoprÌ che anche il sistema immunitario, proprio come il cervello, era capace di apprendere. Questo risultato fu uno shock; fino ad allora, uno dei principali insegnamenti della medicina era stato che solo il cervello e il sistema nervoso centrale erano in grado di rispondere all'esperienza modificando il proprio comportamento. La scoperta di Ader aprÌ la strada alla ricerca sui diversi modi - rivelatisi numerosissimi - attraverso i quali il sistema nervoso centrale e il sistema immunitario comunicano fra loro - in altre parole, aprÌ la strada allo studio delle vie biologiche che rendono la mente, le emozioni e il corpo entitÀ non separate, ma intimamente interconnesse.

Nei suoi esperimenti, Ader aveva somministrato ad alcuni ratti un farmaco che riduceva artificialmente la quantitÀ delle cellule T circolanti, che difendono l'organismo dalle malattie. Ogni volta che ricevevano il farmaco, i ratti lo assumevano insieme ad acqua contenente saccarina. Ma Ader scoprÌ che se somministrava ai ratti solo l'acqua con la saccarina, senza il farmaco, otteneva ugualmente un abbassamento della conta delle cellule T, abbassamento tanto consistente che alcuni animali si ammalarono e morirono. Il sistema immunitario dei ratti di Ader aveva imparato a reagire alla somministrazione di acqua saccarinata con la soppressione delle cellule T. Stando alle piÙ aggiornate conoscenze scientifiche del tempo, questo non sarebbe dovuto accadere.

Il neuroscienziato Francisco Varela, della Ecole Polytechnique di Parigi, ha chiamato il sistema immunitario “cervello del corpo”, in quanto esso definisce il senso del sé dell'organismo - distinguendo ciÃ’ che gli appartiene da ciÃ’ che gli È estraneo (1). Le cellule immunitarie viaggiano nel sangue circolante in tutto il corpo, e pertanto possono entrare in contatto con qualunque altra cellula. Quando riconoscono le cellule in cui si imbattono, le lasciano stare; ma se non le riconoscono, le attaccano. L'attacco consiste dunque o in una difesa contro virus, batteri e cellule cancerose, oppure in una malattia autoimmune come le allergie o il lupus, qualora le cellule immunitarie attacchino per errore altre cellule dell'organismo non avendole riconosciute come tali. Finché Ader non fece la sua scoperta fortunata e inattesa, ogni anatomista, ogni medico e ogni biologo credette che il cervello (con i suoi collegamenti in tutto il corpo) e il sistema immunitario fossero entitÀ separate, e che nessuno dei due fosse in grado di influenzare il funzionamento dell'altro. Non c'era alcuna via che collegasse i centri cerebrali (che monitoravano quel che il ratto assaggiava) con le aree del midollo osseo (che producono le cellule T). Quanto meno, per un secolo questa era stata l'opinione corrente.

Da allora, anno dopo anno, muovendo dalla limitata scoperta di Ader, siamo stati costretti a riesaminare i legami fra sistema immunitario e sistema nervoso centrale. La psiconeuroimmunologia o P.N.I., che studia tali legami, È diventata oggi una scienza medica di frontiera. Il suo stesso nome riconosce l'esistenza di quei legami: “psico” sta per mente; “neuro” per sistema neuroendocrino (che comprende il sistema nervoso e quello endocrino); “immunologia”, infine, sta per sistema immunitario.

Gli stessi messaggeri chimici che operano in modo estremamente esteso sia nel cervello che nel sistema immunitario sono anche quelli piÙ frequenti nelle aree neurali che regolano le emozioni (2). Alcune delle prove piÙ convincenti dell'esistenza di una via diretta che permette alle emozioni di avere un impatto sul sistema immunitario sono state fornite da David Felten, un collega di Ader. Felten partÌ dall'osservazione che le emozioni hanno un effetto potente sul sistema nervoso autonomo, che regola le funzioni piÙ disparate, dalla quantitÀ di insulina secreta dal pancreas, al livello della pressione ematica. Felten, lavorando con la moglie Suzanne e altri colleghi, individuÒ poi il punto in corrispondenza del quale il sistema nervoso autonomo comunica direttamente con linfociti e macrofagi, ossia con le cellule del sistema immunitario (3).

In alcuni studi di microscopia elettronica, questi ricercatori scoprirono strutture simili a sinapsi, lÀ dove le terminazioni del sistema nervoso autonomo entrano in contatto diretto con queste cellule immunitarie. Questo punto di contatto fisico consente alle cellule nervose di liberare i neurotrasmettitori necessari alla regolazione delle cellule immunitarie; in effetti, il segnale puÒ viaggiare nei due sensi. La scoperta È rivoluzionaria. Nessuno aveva mai sospettato che le cellule immunitarie potessero essere bersaglio dei messaggi nervosi.

Per verificare l'importanza di queste terminazioni nervose nel funzionamento del sistema immunitario, Felten si spinse un passo piÙ avanti. In alcuni esperimenti condotti nell'animale da laboratorio, egli denervÒ milza e linfonodi - organi nei quali le cellule immunitarie vengono immagazzinate o prodotte - e poi stimolÒ il sistema immunitario inoculando negli animali sospensioni virali. Il risultato fu un'enorme diminuzione della risposta immunitaria contro il virus. Felten concluse che in assenza di quelle terminazioni nervose il sistema immunitario non risponde come dovrebbe allo stimolo rappresentato da un'invasione virale o batterica. In breve, il sistema nervoso non solo È collegato a quello immunitario, ma È essenziale per una funzione immunitaria appropriata.

Un'altra fondamentale via di collegamento fra emozioni e sistema immunitario si esplica nell'influenza esercitata dagli ormoni liberati in condizioni di stress. Le catecolamine (adrenalina e noradrenalina), il cortisolo e la prolattina, come pure gli oppiacei naturali beta-endorfina ed encefalina, vengono tutti liberati in quello stato di attivazione fisiologica che segue allo stress. Ciascuna di queste sostanze ha un forte impatto sulle cellule immunitarie. Sebbene le relazioni siano complesse, l'influenza principale di questi ormoni, mentre la loro concentrazione aumenta nell'organismo, È quella di inibire la funzione delle cellule immunitarie: almeno temporaneamente, lo stress sopprime la resistenza immunitaria, forse per risparmiare l'energia necessaria a far fronte all'emergenza immediata, alla quale viene riconosciuta la prioritÀ e che potrebbe essere piÙ urgente per la sopravvivenza. Ma se lo stress È costante e intenso, tale soppressione puÒ protrarsi a lungo (4).

I microbiologi e altri scienziati stanno scoprendo un numero sempre maggiore di queste connessioni fra cervello e sistema immunitario e cardiovascolare; in primo luogo, comunque, hanno dovuto accettare la nozione della loro stessa esistenza, un tempo di per sé rivoluzionaria (5).

- Emozioni tossiche: dati clinici.

Nonostante tali dimostrazioni, molti medici, forse la maggior parte, sono ancora scettici sull'importanza clinica delle emozioni. CiÃ’ si spiega in parte se si pensa che, sebbene molti studi abbiano dimostrato che lo stress e le emozioni negative indeboliscono l'efficienza delle cellule immunitarie, essi non hanno sempre chiarito se la portata di tale indebolimento sia tale da comportare una differenza significativa da un punto di vista 'clinico'.

CiÃ’ nonostante, sempre piÙ medici riconoscono il ruolo delle emozioni in medicina. Ad esempio, Camran Nezhat, un insigne chirurgo specializzato in laparoscopie ginecologiche che lavora alla Stanford University, afferma: “Se devo operare una donna e quella mi dice che È nel panico e che per quel giorno non se la sente, io cancello l'operazione”. Nezhat spiega: “Ogni chirurgo sa che un individuo estremamente spaventato È un pessimo paziente chirurgico. Sanguina troppo, È piÙ soggetto a infezioni e complicazioni. Ha una convalescenza piÙ difficile. E' molto meglio un paziente calmo”.

La ragione È semplice: il panico e l'ansia aumentano la pressione ematica e i vasi sanguigni, distesi dalla pressione, sanguinano piÙ profusamente quando vengono tagliati dal bisturi del chirurgo. L'eccessivo sanguinamento È una delle complicazioni chirurgiche piÙ serie, che a volte risulta fatale.

Al di lÀ di questi aneddoti, le prove dell'importanza 'clinica' delle emozioni aumentano costantemente. I dati forse piÙ convincenti sulla significativitÀ delle emozioni provengono da un'analisi di massa nella quale sono confluiti i risultati di 101 studi piÙ piccoli, generando un'unica inchiesta su diverse migliaia di soggetti di entrambi i sessi. Lo studio conferma che fino a un certo punto - le emozioni fonte di sofferenza sono negative per la salute (6). Le persone che hanno sperimentato stati cronici di ansia, lunghi periodi di tristezza e pessimismo, continua tensione o costanti sentimenti di ostilitÀ, implacabile cinismo o sospettositÀ, corrono un rischio doppio di ammalarsi di patologie quali asma, artrite, emicrania, ulcera gastrica, e cardiopatie (ciascuna delle quali È rappresentativa di grandi e importanti categorie patologiche). Questo riscontro quantitativo, di un tale ordine di grandezza, fa delle emozioni negative un fattore di rischio importante come, ad esempio nel caso delle cardiopatie; il fumo di sigarette o un elevato livello di colesterolo - in altre parole, le inquadra come una grave minaccia per la salute.

Sicuramente si tratta di un legame statistico generico: esso non significa assolutamente che chiunque abbia questi sentimenti cronici sarÀ facile preda di una malattia. D'altra parte, le prove del potente impatto esercitato dalle emozioni sulla patologia sono di gran lunga piÙ numerose di quanto faccia pensare quest'unico studio. Analizzando in modo piÙ dettagliato i dati relativi a emozioni specifiche, soprattutto alle tre emozioni maggiori - collera, ansia e depressione - si possono chiarire alcune modalitÀ specifiche attraverso le quali i sentimenti sono clinicamente significativi, sebbene i meccanismi biologici attraverso i quali le emozioni esercitano il loro effetto debbano ancora essere compresi del tutto (7).

QUANDO LA COLLERA E' SUICIDA.

'BastÃ’ un attimo, disse l'uomo, e un urto sulla fiancata della sua auto diede inizio a una battaglia inutile e frustrante. Dopo infinite lungaggini burocratiche con l'assicurazione e con diversi carrozzieri che peggiorarono il danno, si ritrovava ancora con un debito di 800 dollari. E non era nemmeno stata colpa sua. A tal punto ne aveva abbastanza, che ogni volta, entrando in macchina, veniva sopraffatto dal disgusto. Alla fine, spinto dalla frustrazione vendette l'auto. A distanza di anni, questi ricordi avevano ancora il potere di farlo illividire per il risentimento'.

Questi amari ricordi vennero deliberatamente richiamati alla mente durante uno studio sulla collera nei pazienti cardiaci, compiuto presso la Stanford University Medical School. Proprio come l'uomo amareggiato del racconto, tutti i pazienti che presero parte allo studio avevano giÀ avuto un primo attacco di cuore; l'interrogativo al quale si voleva rispondere era se la collera potesse avere un qualunque impatto significativo sulla loro funzione cardiaca. L'effetto emerse evidente: mentre i pazienti raccontavano gli episodi che li avevano fatti uscire di sé, l'efficienza della loro pompa cardiaca diminuÃŒ di cinque punti percentuali (8). Alcuni pazienti andarono incontro a un calo di efficienza cardiaca pari o superiore al 7 per cento - un ordine di grandezza che i cardiologi ritengono segno di ischemia miocardica, ossia di una pericolosa diminuzione del flusso ematico al cuore.

La diminuzione dell'efficienza della pompa cardiaca non veniva osservata in associazione ad altri sentimenti penosi - ad esempio all'ansia - né durante gli sforzi fisici; sembra che la collera fosse l'unica emozione in grado di far tanto danno al cuore. I pazienti affermavano che mentre ricordavano l'episodio che li aveva fatti adirare, la loro collera era solo circa la metÀ di quella che avevano provato quando era accaduto il fatto; questo faceva pensare che durante il vero e proprio attacco di collera il loro cuore avesse avuto difficoltÀ ben maggiori.

Questa scoperta fa parte di una serie piÙ ampia di prove emerse da decine di studi, tutte indicanti la capacitÀ della collera di arrecar danno al cuore (9). La vecchia idea, secondo la quale individui con personalitÀ di Tipo A (frenetica e con alta pressione) fossero da ritenersi ad alto rischio per le patologie cardiache, non ha retto; da quella teoria sbagliata, perÒ, È emerso un nuovo riscontro: ciÒ che mette davvero a rischio l'individuo È l'ostilitÀ.

Molti dati sull'ostilitÀ provengono dalle ricerche di Redford Williams, della Duke University (10). Ad esempio, Williams scoprÌ che i medici che avevano ottenuto i massimi punteggi in un test sull'ostilitÀ quando ancora frequentavano la facoltÀ di medicina, avevano una probabilitÀ sette volte maggiore, rispetto ai colleghi i cui punteggi di ostilitÀ erano bassi, di morire entro i cinquant'anni; in altre parole, essere soggetti alla collera era un fattore predittivo di morte prematura piÙ potente di quanto non lo fossero fattori di rischio riconosciuti come il fumo, l'ipertensione e un elevato livello ematico di colesterolo. I risultati ottenuti da un collega, John Barefoot della University of North Carolina, dimostrano inoltre che nei pazienti cardiaci sottoposti ad angiografia - un esame nel corso del quale un catetere viene inserito nell'arteria coronaria al fine di individuarne eventuali lesioni - i punteggi ottenuti in un test sull'ostilitÀ erano correlati alla misura e alla gravitÀ della patologia coronarica.

Naturalmente, nessuno sta dicendo che la collera da sola possa causare una coronaropatia; essa non È che uno dei numerosi fattori interagenti. Come mi spiegÃ’ Peter Kaufman, del Behavioral Medicine Branch of the National Heart, Lung and Blood Institute: “Non siamo in grado di distinguere se la collera e l'ostilitÀ abbiano un ruolo causale nelle prime fasi dello sviluppo della coronaropatia, se intensifichino il problema una volta che la cardiopatia sia giÀ insorta, o - ancora - se abbiano entrambi gli effetti. Immaginiamo comunque un ventenne che abbia ripetuti attacchi di collera. Ogni episodio sottopone il cuore a uno stress ulteriore, aumentando la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Se ciÃ’ si ripete molte volte puÃ’ arrecare danno”, soprattutto perché la turbolenza del sangue che fluisce nell'arteria coronaria in corrispondenza di ciascuna sistole “puÃ’ causare delle microlacerazioni vasali, nelle quali poi si svilupperÀ la placca. Se, a causa del suo abituale stato di collera, la frequenza cardiaca e la pressione ematica di questo individuo fossero superiori alla norma, dopo i trent'anni ciÃ’ potrebbe causare un accumulo piÙ veloce della placca, e portare quindi alla coronaropatia” (11).

Una volta che si È instaurata la cardiopatia, il meccanismo scatenato dalla collera influenza l'efficienza della pompa cardiaca, come era giÀ stato dimostrato nello studio sui ricordi che innescavano l'ira nei pazienti cardiaci. Le conclusioni sono che la collera È un'emozione particolarmente nociva per chi È giÀ cardiopatico. Ad esempio, uno studio condotto dalla Stanford University Medical School su 1012 uomini e donne che vennero seguiti per otto anni dopo un primo attacco cardiaco, dimostrÒ che l'eventualitÀ di un secondo attacco mostrava la massima frequenza fra gli uomini piÙ aggressivi e ostili (12). Risultati simili vennero ottenuti in uno studio della Yale School of Medicine condotto su 929 uomini sopravvissuti ad attacchi cardiaci e seguiti per dieci anni (13). La probabilitÀ di morte per arresto cardiaco era di tre volte superiore nei soggetti ritenuti inclini alla collera rispetto a quelli giudicati piÙ equilibrati. Se i soggetti presentavano anche un elevato livello ematico di colesterolo, il temperamento collerico comportava un rischio aggiuntivo di cinque volte superiore.

I ricercatori di Yale sottolinearono la possibilitÀ che il rischio di morte per attacco cardiaco sia aumentato non solo dalla collera, ma da un'intensa emotivitÀ negativa di qualunque tipo, che sommerga regolarmente l'organismo con ondate di ormoni dello stress. Nel complesso, perÒ, la correlazione piÙ forte fra emozioni e cardiopatia riguarda la collera: in uno studio della Harvard Medical School venne chiesto a piÙ di cinquecento persone di entrambi i sessi, tutte sopravvissute ad attacchi cardiaci, di descrivere il loro stato emotivo prima dell'attacco. La collera aumentava il rischio di arresto cardiaco portandolo a piÙ del doppio nei soggetti giÀ cardiopatici; il rischio, cosÌ aumentato, persisteva per circa due ore dopo che la collera era stata risvegliata (14).

Questi risultati non vogliono dire che dovremmo cercare di sopprimere la collera quando È nella giusta misura. Anzi, ci sono dati che indicano come il tentativo di sopprimere completamente quest'emozione, nella foga del momento si traduca in realtÀ in un'amplificazione dell'agitazione fisica e probabilmente in un aumento della pressione ematica (15). D'altra parte, come abbiamo visto nel capitolo 5, sfogando la collera ogni volta che la si prova non si fa che alimentarla, aumentando la probabilitÀ di reagire in questi termini a qualunque situazione fastidiosa. Williams risolve il paradosso concludendo che l'aspetto cronico della collera non È meno importante del fatto che essa venga espressa oppure no. Una sporadica esibizione di ostilitÀ non fa male alla salute; il problema nasce quando essa diventa talmente costante da alimentare un atteggiamento antagonistico dell'individuo - un atteggiamento contrassegnato da costanti sentimenti di sfiducia e cinismo, dalla propensione a far commenti umilianti e maligni, come pure ad accessi piÙ espliciti di rabbia e collera violenta (16).

Fortunatamente la collera cronica non deve essere necessariamente interpretata come una sentenza di morte: l'ostilitÀ È un'abitudine che puÃ’ essere modificata. Alcuni pazienti sopravvissuti ad attacchi cardiaci vennero arruolati dalla Stanford University Medical School affinché partecipassero a un programma ideato per aiutarli a smorzare la loro tendenza all'irascibilitÀ. Questo addestramento al controllo della collera si tradusse in un'incidenza del secondo attacco cardiaco del 44 per cento piÙ bassa rispetto a quella osservata in coloro che non avevano cercato di attenuare la propria ostilitÀ (17). Un programma messo a punto da Williams ha avuto analoghi effetti benefici (18). Anch'esso, come quello della Stanford, insegna gli elementi fondamentali dell'intelligenza emotiva, soprattutto l'attenzione alla collera quando essa comincia a montare, la capacitÀ di contenerla una volta che È stata innescata, e l'empatia. Quando si accorgono di averne, i pazienti devono mettere per iscritto i loro pensieri cinici o ostili. Se tali pensieri persistono, essi cercano di troncarli dicendo (o pensando) “Basta!”. I pazienti vengono incoraggiati a sostituire intenzionalmente, nei momenti difficili, i pensieri cinici e sfiduciati con altri piÙ ragionevoli; ad esempio, se l'ascensore tardasse, dovrebbero cercare di spiegarselo con una giustificazione benevola, senza covare risentimento verso un immaginario individuo menefreghista responsabile del contrattempo. Nel caso di interazioni frustranti, i pazienti devono imparare a vedere le cose dalla prospettiva dell'altro - l'empatia È un vero balsamo per la collera.

Come mi disse Williams: “L'antidoto contro l'ostilitÀ sta nello sviluppare un cuore piÙ fiducioso. Ci vuole solo la giusta motivazione. Quando le persone si rendono conto che l'ostilitÀ puÃ’ portarle alla tomba in anticipo, ecco, in quel momento sono mature per provare”.

STRESS: QUANDO L'ANSIA E' SPROPORZIONATA E FUORI POSTO.

'Mi sento sempre ansiosa e tesa. E' cominciato tutto alle superiori. Ero una studentessa modello, costantemente preoccupata: per i voti, per il fatto di piacere agli altri ragazzi e agli insegnanti o di essere puntuale alle lezioni - cose insomma di questo tipo. I miei genitori mi facevano moltissime pressioni perché andassi bene a scuola e fossi un buon modello di ruolo Credo che sia stata tutta quella pressione a farmi crollare, perché i miei problemi di stomaco cominciarono durante il secondo anno delle superiori. Da allora ho dovuto fare molta attenzione al caffÈ e ai cibi speziati. Ho notato che quando mi sento preoccupata o tesa mi brucia lo stomaco, e poiché in genere sono sempre preoccupata per qualcosa, ho perennemente la nausea' (19).

L'ansia - la sofferenza provocata dalle pressioni della vita - È forse l'emozione il cui legame con l'insorgenza delle malattie e con il decorso della convalescenza È documentato dalla maggior mole di dati scientifici. Quando serve per prepararci ad affrontare qualche pericolo (la sua presunta funzione durante l'evoluzione), allora l'ansia È utile. Ma nella vita moderna essa si rivela piÙ spesso sproporzionata e fuori posto: il disagio si presenta in situazioni costruite dalla nostra mente o con le quali dobbiamo necessariamente convivere, e non di fronte a pericoli reali con i quali confrontarsi veramente. Ripetuti attacchi d'ansia sono indicativi di elevati livelli di stress. La donna a cui le costanti preoccupazioni causavano i problemi gastrointestinali È un esempio da manuale di come l'ansia e lo stress possano esacerbare problemi di natura fisica.

Nel 1993 la rivista 'Archives of Internal Medicine' pubblicÃ’ un'analisi critica su diverse ricerche effettuate per chiarire il legame stress-malattia; in essa, lo psicologo di Yale Bruce McEwen osservava un ampio spettro di effetti: la compromissione della funzione immunitaria al punto da accelerare la formazione di metastasi tumorali; l'aumento della vulnerabilitÀ alle infezioni virali; l'aumento della formazione della placca, che porta all'aterosclerosi; la coagulazione del sangue che porta all'infarto miocardico; l'accelerazione dell'instaurarsi del diabete di Tipo 1 e del decorso del diabete di Tipo 2, e, infine, il peggioramento o l'innesco degli attacchi d'asma (20). Lo stress puÃ’ anche portare all'ulcerazione del tratto gastrointestinale, causando i sintomi della colite ulcerosa e del morbo di Crohn. Anche il cervello È suscettibile agli effetti a lungo termine dello stress prolungato, e puÃ’ riportare danni all'ippocampo con conseguente compromissione della memoria. In generale, McEwen afferma che “ci sono prove sempre piÙ numerose del fatto che il sistema nervoso È soggetto a 'logorio ed usura' in seguito a esperienze stressanti” (21).

Dimostrazioni particolarmente convincenti dell'impatto del disagio e della sofferenza psicologica sulla salute fisica provengono da studi su malattie infettive come il raffreddore, l'influenza e le infezioni erpetiche. Il nostro organismo È costantemente esposto a questi virus, ma di solito riesce a sconfiggerli grazie all'intervento del sistema immunitario; quando siamo sotto stress emotivo, perÒ, le nostre difese spesso falliscono. Negli esperimenti in cui si È valutata direttamente l'efficienza del sistema immunitario, si È scoperto che lo stress e l'ansia lo indeboliscono, ma nella maggior parte dei casi non È chiaro se il livello di indebolimento sia tale da avere un significato clinico - in altre parole, se esso possa aprire la strada alle malattie (22). Per questa ragione i piÙ forti legami fra stress e ansia da una parte e vulnerabilitÀ fisica dall'altra, sono stati scientificamente dimostrati nel corso di studi prospettici, ossia di quelle indagini che partono con soggetti sani nei quali viene dapprima monitorato un aumento della sofferenza psicologica, seguito poi da un indebolimento del sistema immunitario e dall'instaurarsi della malattia.

In uno degli studi piÙ convincenti dal punto di vista scientifico, Sheldon Cohen, uno psicologo della Carnegie-Mellon University, che lavorava a Sheffield con alcuni scienziati in un'unitÀ di ricerca specializzata sul raffreddore, dapprima valutÒ attentamente quanto stress gli individui percepissero nella propria vita, e poi li espose sistematicamente al virus del raffreddore. Questa esposizione non si tradusse per tutti nella malattia; un sistema immunitario robusto È in grado di resistere al virus - e lo fa costantemente. Cohen scoprÌ che quanto piÙ stressante era la vita di un individuo, tanto maggiore era la probabilitÀ che si ammalasse di raffreddore. Dopo l'esposizione al virus, si ammalÒ il 27 per cento delle persone poco stressate e il 47 per cento di quelle che avevano una vita molto stressante - una prova diretta, questa, del fatto che lo stress di per se stesso puÒ indebolire le difese immunitarie (23). (Sebbene questo possa essere uno di quei risultati scientifici che confermano ciÒ che tutti hanno da sempre osservato o sospettato, esso È comunque considerato una pietra miliare per il rigore della ricerca con il quale venne ottenuto.)

Analogamente, le coppie sposate che per tre mesi tennero un diario dei battibecchi e di altri eventi spiacevoli nella vita coniugale, presentavano una notevole regolaritÀ: tre o quattro giorni dopo eventi particolarmente spiacevoli, si ritrovavano con un raffreddore o un'infezione delle vie aeree superiori. Il periodo di latenza coincideva esattamente con quello di incubazione di molti comuni virus del raffreddore, a indicazione del fatto che l'esposizione, avvenuta quando erano preoccupati o sconvolti, li aveva trovati particolarmente vulnerabili (24).

Lo stesso collegamento costante fra stress e infezione vale anche nel caso dell'herpes virus - sia il tipo che causa le piaghe sulle labbra, sia quello che provoca le lesioni genitali. Una volta che l'herpes virus È entrato in contatto con l'organismo, vi resta in uno stato di latenza, riattivandosi di tanto in tanto. L'attivitÀ dell'herpes virus puÒ essere rilevata misurando il livello di anticorpi nel sangue. In tale modo È stato possibile riscontrare la sua riattivazione in studenti di medicina prossimi agli esami di fine anno, in donne appena separate e in persone costantemente sotto pressione per il fatto di doversi prender cura di un familiare affetto da morbo di Alzheimer (25).

Il prezzo dell'ansia non sta solo nel fatto che essa abbassa la risposta immunitaria; altre ricerche dimostrano anche i suoi effetti negativi sul sistema cardiovascolare. Nutrire costantemente sentimenti di ostilitÀ e andare incontro a ripetuti episodi di collera sembrano essere importantissimi fattori di rischio di cardiopatia per gli uomini; nelle donne, invece, le emozioni piÙ letali sono probabilmente l'ansia e la paura. In una ricerca condotta dalla Stanford University School of Medicine su piÙ di mille uomini e donne che avevano avuto un primo attacco di cuore, le donne che in seguito ne ebbero un secondo si distinguevano per elevati livelli di ansia e paura. In molti casi, la paura prendeva la forma di fobie paralizzanti: dopo il loro primo attacco le pazienti smettevano di guidare, lasciavano il proprio lavoro ed evitavano di uscire (26).

Gli insidiosi effetti fisici dello stress e dell'ansia - quelli prodotti da professioni o stili di vita ad alta pressione, come quello di una madre single che si sobbarchi la cura del figlio piccolo e il peso di un impiego - vengono oggi analizzati a livello molto dettagliato dal punto di vista anatomico. Ad esempio, Stephen Manuck, uno psicologo della Pittsburgh University, sottopose trenta volontari maschi a un test severo e rigoroso in un contesto ansiogeno; l'esperimento aveva luogo in laboratorio, monitorando i parametri ematici dei volontari, e dosando nel loro sangue una sostanza secreta dalle piastrine, chiamata adenosintrifosfato o A.T.P., che puÃ’ innescare cambiamenti vasali tali da portare ad attacchi cardiaci e ictus. Quando i volontari erano sottoposti allo stress intenso, i loro livelli di A.T.P., come anche la frequenza cardiaca e la pressione ematica, salivano bruscamente.

Comprensibilmente, i rischi per la salute sembrano massimi nel caso di occupazioni che comportino grande “tensione”: ad esempio, il dover dare elevatissime prestazioni quando si ha uno scarso controllo - o addirittura nessun controllo - sulle modalitÀ di svolgimento del lavoro (una difficile situazione, questa, che giustifica l'elevata incidenza di ipertensione riscontrata, ad esempio, fra gli autisti di autobus). In uno studio su 569 pazienti affetti da cancro del colon-retto e su un gruppo di controllo omogeneo, i soggetti che affermarono di aver sperimentato gravi problemi sul lavoro nei dieci anni precedenti avevano una probabilitÀ di cinque volte e mezza superiore di sviluppare il cancro di quelli che non avevano patito quel tipo di stress (27).

Poiché il prezzo fisico della sofferenza psicologica È tanto grande, le tecniche di rilassamento - che si oppongono direttamente all'attivazione fisiologica causata dallo stress - vengono usate clinicamente per allentare la sintomatologia di un'ampia gamma di patologie croniche. Esse includono le malattie cardiovascolari, alcuni tipi di diabete, l'artrite, l'asma, i disturbi gastrointestinali e il dolore cronico, tanto per nominarne solo qualcuna. Nella misura in cui ogni sintomo puÃ’ peggiorare in presenza di stress e di sofferenza psicologica, aiutare i pazienti ad essere piÙ rilassati e a gestire i propri sentimenti turbolenti puÃ’ spesso offrire un certo sollievo (28).

IL PREZZO FISICO DELLA DEPRESSIONE.

'A questa donna era stata appena diagnosticata la metastasi di un tumore al seno: una recidiva, a distanza di diversi anni da quella che lei aveva ritenuto una soluzione chirurgica definitiva del problema. Il suo medico non sapeva che cure suggerirle, e la chemioterapia, nel caso migliore, poteva offrirle solo qualche mese in piÙ. Comprensibilmente, la donna era depressa - a tal punto che ogni volta che andava dal suo oncologo, a un certo punto si ritrovava in lacrime. E ogni volta lo specialista le chiedeva di lasciare immediatamente il suo studio'.

A parte il carattere offensivo della freddezza dell'oncologo, il suo rifiutarsi di affrontare la costante tristezza della paziente poteva avere un peso a livello medico? Una volta che una malattia È diventata cosÌ virulenta, È poco probabile che una qualunque emozione possa influire in modo apprezzabile sul suo decorso. Sebbene la depressione della donna abbia sicuramente peggiorato la qualitÀ della sua vita negli ultimi mesi che le restavano, la dimostrazione del fatto che la malinconia possa influenzare clinicamente il decorso del cancro È tuttora controversa (29). A parte il cancro, perÒ, un piccolo numero di studi indica che la depressione potrebbe avere un ruolo in molte altre patologie, soprattutto rendendole piÙ serie una volta che siano insorte. Ci sono sempre piÙ prove del fatto che, nei pazienti affetti da gravi malattie in preda alla depressione, la cura di quest'ultimo problema possa comportare un vantaggio anche sul piano strettamente fisico.

Una complicazione, nella cura della depressione in pazienti affetti da altre patologie, È che i suoi sintomi, compresi la perdita dell'appetito e la letargia, vengono facilmente scambiati per segni di altre malattie, soprattutto dai medici che abbiano scarsa esperienza con la diagnosi psichiatrica. Questa incapacitÀ di diagnosticare la depressione puÒ di per se stessa complicare il problema; infatti essa comporta che la depressione di un paziente - come quella della donna malata di cancro e incline al pianto citata in apertura di paragrafo - passi inosservata e pertanto non venga curata. Nelle malattie gravi, questa incapacitÀ diagnostica e il mancato trattamento che ne consegue aumentano il rischio di morte.

Ad esempio, su 100 pazienti che ricevettero il trapianto di midollo osseo, dei 13 affetti da depressione, 12 morirono nell'arco del primo anno dall'operazione; dei restanti 87, invece, 34 erano ancora vivi due anni dopo (30). Nei pazienti con insufficienza renale cronica sottoposti a dialisi, quelli ai quali era stata diagnosticata una grave depressione avevano una maggiore probabilitÀ di morire nell'arco dei due anni successivi; la depressione si rivela dunque un fattore predittivo di morte piÙ potente di qualunque altro segno (31). Qui, la natura del collegamento fra l'emozione e le condizioni fisiche non era biologica ma dipendeva dall'atteggiamento mentale dei pazienti: i soggetti depressi si attenevano molto meno bene degli altri alle prescrizioni dei medici - ad esempio, baravano sulla dieta, il che li metteva in una condizione di maggior rischio.

La depressione sembra esacerbare anche la cardiopatia. In uno studio su 2832 uomini e donne di mezza etÀ, monitorati per 12 anni, il gruppo di quelli che si sentivano costantemente disperati e scoraggiati presentava una maggior frequenza di morte per cardiopatia (32). E nel gruppo dei soggetti piÙ gravemente depressi, che ammontava al 3 per cento del totale, la frequenza di morte per cardiopatia, rispetto a quella riscontrata nel gruppo di soggetti non depressi, era di quattro volte piÙ alta.

La depressione sembra comportare un rischio particolarmente serio per i pazienti sopravvissuti a un attacco cardiaco (33). In uno studio condotto sui pazienti di un ospedale di Montreal, dimessi dopo un primo attacco, gli individui depressi avevano un rischio nettamente superiore di morire nell'arco dei sei mesi successivi. I pazienti seriamente depressi erano uno su otto; in questo gruppo, la mortalitÀ era cinque volte superiore a quella riscontrata in soggetti non depressi con patologie simili; in altre parole, la depressione aveva un effetto paragonabile a quello dei principali fattori di rischio di morte per cardiopatia, quali la disfunzione del ventricolo sinistro o un'anamnesi di precedenti attacchi. Fra i possibili meccanismi che potrebbero spiegare come mai la depressione aumenti tanto le probabilitÀ di un successivo attacco, troviamo i suoi effetti sulla frequenza cardiaca, che comportano un aumento del rischio di aritmie fatali.

E' stato anche scoperto che la depressione crea complicazioni durante la convalescenza della frattura dell'anca. In uno studio su diverse migliaia di donne anziane con frattura dell'anca, venne formulata una diagnosi psichiatrica all'atto del ricovero. Rispetto alle pazienti non depresse con lesioni ortopediche simili, le donne alle quali era stata diagnosticata la depressione rimasero in ospedale in media per otto giorni in piÙ, e la probabilitÀ che potessero tornare a camminare era un terzo di quella delle altre pazienti. Tuttavia, le donne depresse alle quali, oltre all'assistenza medica, venne offerto l'aiuto di uno psichiatra per alleviare la depressione, necessitarono di meno cure fisioterapiche per tornare a camminare ed ebbero bisogno di un minor numero di ulteriori ricoveri nei tre mesi che seguirono la prima dimissione dall'ospedale.

Analogamente, in uno studio su pazienti la cui condizione era cosÃŒ grave da collocarli nel 10 per cento della popolazione che faceva maggior ricorso ai servizi sanitari - spesso perché affetti da patologie multiple, ad esempio da cardiopatie e diabete - circa uno su sei soffriva di grave depressione. Quando questi pazienti furono curati, il numero di giorni di malattia per anno scese da 79 a 51 nel caso dei soggetti con depressione maggiore, e da 62 a soli 18 per quelli curati per una depressione leggera (34).

- I benefici fisici dei sentimenti positivi.

Le prove crescenti degli effetti avversi della collera, dell'ansia e della depressione sulla salute sono dunque convincenti. Sia la collera che l'ansia, quando sono croniche, possono rendere l'organismo piÙ suscettibile a tutta una serie di malattie. E sebbene forse la depressione non renda gli individui piÙ vulnerabili, sembra perÒ ostacolarne la guarigione e aumentare il rischio di morte, soprattutto nel caso dei pazienti piÙ fragili affetti da gravi patologie.

Ma se È vero che, nelle sue molteplici forme, uno stato cronico di sofferenza psicologica È tossico, È vero anche che, fino a un certo punto, le emozioni opposte possono avere un effetto tonificante. Questo non significa assolutamente che l'emozione positiva abbia un valore terapeutico, o che una semplice risata o la felicitÀ da sola cambieranno il decorso di una grave malattia. Il vantaggio delle emozioni positive sembra quasi impercettibile; tuttavia, se si fa riferimento a studi effettuati su moltissimi soggetti, È possibile isolarlo dalla massa di complesse variabili che influenzano il decorso della malattia.

IL PREZZO DEL PESSIMISMO E I VANTAGGI DELL'OTTIMISMO.

Come nel caso della depressione, anche il pessimismo impone il suo pedaggio in termini di salute fisica, mentre l'ottimismo ha un effetto benefico. In uno studio venne valutato il livello di ottimismo o pessimismo di 122 uomini, sopravvissuti a un primo attacco di cuore. Otto anni dopo, dei 25 uomini piÙ pessimisti, 21 erano morti; dei 25 piÙ ottimisti, ne erano morti solo 6. La loro predisposizione mentale fu rivelatrice della loro possibilitÀ di sopravvivenza piÙ di qualunque altro fattore di rischio, compresa l'estensione della lesione subita durante il primo infarto, il grado di ostruzione delle arterie, il livello di colesterolo o la pressione ematica. E in un'altra ricerca, rispetto ai pazienti piÙ pessimisti, quelli piÙ ottimisti che affrontavano lo stesso intervento di bypass coronarico, ebbero una convalescenza molto piÙ rapida e meno complicazioni sia durante che dopo l'intervento (35).

La speranza, come l'ottimismo, che È suo parente prossimo, ha anch'essa un potere risanatore. Comprensibilmente, gli individui pieni di speranza sopportano meglio le situazioni difficili, comprese quelle di ordine medico. In uno studio su persone rimaste paralizzate a causa di lesioni al midollo spinale, gli individui piÙ inclini alla speranza riuscirono a riacquistare un maggiore livello di mobilitÀ fisica rispetto a quelli che, pur avendo lesioni analoghe, erano meno sereni. La capacitÀ di sperare, nei pazienti paralizzati a causa di lesioni del midollo spinale, È un dato molto significativo: questa tragedia infatti solitamente colpisce un giovane che resta paralizzato a vent'anni in seguito a un incidente, e che rimarrÀ in quelle condizioni per il resto della sua vita. Le reazioni emotive di questo individuo avranno pesanti ripercussioni sulla sua disponibilitÀ a compiere gli sforzi che potrebbero fargli recuperare una maggiore funzionalitÀ, sia a livello fisico che sociale (36).

Il fatto che un atteggiamento mentale ottimista o pessimista abbia conseguenze sulla salute si presta a moltissime spiegazioni. Una teoria sostiene che il pessimismo porti alla depressione, la quale a sua volta interferisce con la resistenza del sistema immunitario ai tumori e alle infezioni - un'ipotesi attualmente non ancora dimostrata. Oppure, potrebbe darsi che gli individui pessimisti tendano a trascurarsi - alcuni studi hanno evidenziato che, rispetto agli ottimisti, questi soggetti fumano e bevono di piÙ, fanno meno attivitÀ fisica, e sono generalmente molto meno attenti per quanto riguarda abitudini che potrebbero avere ripercussioni sulla salute. Un'altra possibilitÀ, È che un giorno gli aspetti fisiologici della speranza possano dimostrarsi biologicamente utili nella lotta dell'organismo contro le malattie.

L'AIUTO DEGLI AMICI - BUONA SALUTE E RELAZIONI PERSONALI.

Alla lista dei rischi per la salute da attribuirsi a problemi emotivi, va aggiunto il suono del silenzio - la solitudine - e a quella dei fattori che proteggono il benessere, il poter contare su legami stretti. Studi compiuti nell'arco di vent'anni, ai quali hanno preso parte piÙ di trentasettemila persone, hanno dimostrato che l'isolamento sociale - la sensazione di non aver nessuno con cui condividere i propri sentimenti piÙ intimi o con cui avere uno stretto contatto - raddoppia le probabilitÀ di malattia o di morte (37). Come recitava nelle sue conclusioni un articolo pubblicato su 'Science' nel 1987, di per se stesso, l'isolamento “È significativo ai fini della mortalitÀ esattamente come il fumo, l'ipertensione, un elevato livello ematico di colesterolo, l'obesitÀ e la mancanza di attivitÀ fisica”. Per essere precisi, il fumo aumenta il rischio di mortalitÀ di un fattore pari a 1.6, mentre l'isolamento sociale lo moltiplica di un fattore 2.0, distinguendosi come uno dei principali fattori di rischio (38).

L'isolamento È piÙ difficile da sopportare per gli uomini che per le donne. Gli uomini isolati avevano una probabilitÀ di morte dalle due alle tre volte superiore rispetto a quella di uomini con stretti legami sociali; nel caso delle donne isolate, invece, il rischio era di una volta e mezza superiore rispetto a quello di soggetti meglio integrati socialmente. Il diverso impatto dell'isolamento nei due sessi potrebbe essere dovuto al fatto che le relazioni delle donne tendono a essere piÙ intime, dal punto di vista emotivo, di quelle degli uomini; per una donna, anche pochi di questi legami sociali possono risultare piÙ confortanti di uno stesso numero di amicizie nel caso di un uomo.

Naturalmente, la solitudine non equivale all'isolamento; molte persone che vivono da sole o hanno pochi amici sono soddisfatte e sane. Piuttosto, a comportare il rischio È la sensazione soggettiva di essere tagliati fuori dal mondo degli altri e di non avere nessuno a cui rivolgersi. Alla luce dell'aumentato isolamento generato dall'abitudine di guardare la televisione da soli e dalla graduale scomparsa, nelle moderne societÀ urbane, di consuetudini sociali come i club e le visite, questo riscontro È di cattivo presagio e conferisce un valore ancora piÙ grande - quali comunitÀ surrogate - ai gruppi di auto-aiuto come quello degli alcolisti anonimi.

Nello studio, giÀ citato, sui 100 pazienti sottoposti a trapianto di midollo osseo, È emerso il potere dell'isolamento come fattore di rischio ai fini della mortalitÀ, insieme al potere risanatore dimostrato dalla presenza di stretti legami affettivi (39). Fra i pazienti che sentivano di poter contare su un forte sostegno emozionale da parte del coniuge, della famiglia o degli amici, il 54 per cento era ancora in vita a due anni dall'intervento, mentre fra quelli che ritenevano di non avere questo sostegno, i sopravvissuti, sempre a due anni, erano solo il 20 per cento. Analogamente, gli anziani che soffrono di attacchi cardiaci, ma hanno due o piÙ persone sulle quali sanno di poter contare, hanno una probabilitÀ piÙ che doppia, rispetto a chi non gode di tale aiuto, di essere ancora in vita a distanza di piÙ di un anno da un attacco (40).

La testimonianza forse piÙ significativa del potere risanatore dei legami affettivi È quella fornita da uno studio svedese pubblicato nel 1993 (41). A tutti gli uomini che vivevano nella cittÀ svedese di G”teborg e che erano nati nel 1933, venne offerto un controllo medico gratuito; sette anni dopo, i 752 uomini che si erano presentati per la visita vennero ricontattati. Di questi, 41 nel frattempo erano morti.

Nel gruppo di uomini che in occasione della prima visita avevano dichiarato di essere sottoposti a un intenso stress emozionale, la mortalitÀ era tre volte superiore rispetto a quanto rilevato nel gruppo di soggetti che giudicavano la propria vita calma e tranquilla. La sofferenza psicologica era dovuta a situazioni come un grave dissesto finanziario, l'insicurezza sul lavoro, l'essere stati esclusi da un incarico, l'avere in corso una causa legale o un divorzio. Il fatto di avere tre o piÙ di questi problemi nell'anno precedente la visita costituiva un fattore predittivo di morte nei sette anni successivi piÙ potente dell'ipertensione, dell'ipertrigliceridemia o dell'ipercolesterolemia.

Tuttavia, fra gli uomini che avevano detto di poter contare su una rete di relazioni intime - una moglie, amici fidati, e simili, 'non si osservÒ alcuna correlazione' fra elevati livelli di stress e mortalitÀ. Il fatto di avere delle persone alle quali rivolgersi e con le quali parlare, persone che potessero offrir loro sollievo, aiuto e consigli, li aveva protetti dal mortale impatto con i traumi e le asperitÀ della vita.

La qualitÀ delle relazioni di un individuo, oltre alla quantitÀ, sembra essere un fattore chiave per tamponare lo stress. Le relazioni negative hanno un costo. Le liti coniugali, ad esempio, hanno un impatto negativo sul sistema immunitario (42). Uno studio condotto su studenti universitari che condividevano la stessa camera mise in evidenza che quanto piÙ essi si detestavano, tanto piÙ suscettibili diventavano a raffreddori e influenze, e tanto piÙ spesso si recavano dal medico. John Cacioppo, lo psicologo della Ohio State University che effettuÃ’ lo studio, mi disse: “La relazione davvero fondamentale per il tuo benessere È quella piÙ importante, quella con la persona che vedi dalla mattina alla sera. E piÙ questa relazione È significativa nella tua vita, piÙ essa sarÀ importante per la tua salute” (43).

IL POTERE RISANATORE DEL SOSTEGNO PSICOLOGICO.

In 'The Merry Adventures of Robin Hood', Robin consiglia un giovane seguace: “Raccontaci i tuoi problemi e parla liberamente. Un fiume di parole allevia sempre le pene del cuore; È come aprire lo scarico quando la chiusa del mulino È troppo piena”. Questo frammento di saggezza popolare È molto vero; alleggerire un cuore oppresso dalla preoccupazione sembra essere davvero una buona medicina. La conferma scientifica della validitÀ del consiglio di Robin ci viene da James Pennebaker, uno psicologo della Southern Methodist University; in una serie di esperimenti, egli ha dimostrato che, parlando dei problemi che lo assillano, l'individuo puÃ’ trarre benefici effetti in termini medici (44). Il metodo di Pennebaker È eccezionalmente semplice: egli chiede al soggetto di scrivere, per quindici o venti minuti al giorno, e per circa cinque giorni, qualcosa che riguardi “l'esperienza piÙ traumatica di tutta la sua vita”, oppure una preoccupazione contingente molto pressante. Se le persone che partecipano allo studio lo desiderano, i loro scritti possono rimanere interamente privati.

L'effetto di questa confessione È eccezionale: in particolare, si sono riscontrati un aumento della funzione immunitaria, una significativa diminuzione del numero delle visite agli ambulatori medici nei sei mesi successivi, un minor numero di giorni lavorativi perduti, e perfino un miglioramento dell'attivitÀ degli enzimi epatici. Inoltre, i soggetti i cui scritti davano prova dei sentimenti piÙ irrequieti erano quelli che ricavavano i maggiori benefici a livello di funzione immunitaria. Emerse cosÃŒ che il modo piÙ “sano” per sfogare sentimenti penosi era in primo luogo quello di esprimere intensamente tali sentimenti, quali che fossero - tristezza, ansia, collera; poi, nel corso dei giorni successivi, intessere un intreccio, alla ricerca di un significato nel trauma o nel travaglio emotivo.

Questo processo, naturalmente, sembra simile a ciÒ che accade quando l'individuo esplora i suoi problemi nell'ambito della psicoterapia. In veritÀ, i risultati di Pennebaker offrono una possibile chiave di lettura dei risultati ottenuti in altri studi, nei quali È stato dimostrato che i pazienti sottoposti non solo a intervento chirurgico o a trattamento con farmaci per patologie diverse, ma anche a psicoterapia, spesso presentano un 'decorso clinico piÙ favorevole' di quelli che ricevono solo il trattamento farmacologico o chirurgico (45).

Forse la dimostrazione piÙ convincente del potere clinico del conforto psicologico proviene dai gruppi per le donne con cancro al seno in fase di avanzata metastasi, istituiti presso la Stanford University Medical School. Dopo un trattamento iniziale, che spesso comprendeva l'operazione, i tumori di queste donne si erano riformati e si stavano diffondendo in tutto l'organismo. Dal punto di vista clinico, la loro morte per cancro era solo questione di tempo. David Spiegel, che condusse lo studio, rimase egli stesso stupefatto dai risultati, come lo fu del resto tutta la comunitÀ scientifica: le donne con cancro al seno in fase avanzata che si recavano agli incontri settimanali del gruppo avevano un tempo di sopravvivenza 'doppio' rispetto alle pazienti oncologiche in analoghe condizioni che si trovavano ad affrontarle da sole (46).

Tutte le pazienti ricevevano un trattamento medico standard; la sola differenza era che alcune si recavano anche alle riunioni dei gruppi, dove avevano la possibilitÀ di trovare conforto parlando con altre donne che comprendevano ciÃ’ che stavano affrontando ed erano disposte ad ascoltare le loro paure, il loro dolore e la loro rabbia. Spesso questo era l'unico luogo nel quale le donne potevano essere esplicite su queste emozioni; le altre persone presenti nella loro vita, infatti, erano terrorizzate all'idea di parlare con loro del cancro e della morte imminente. Le donne che frequentavano i gruppi vissero in media altri trentasette mesi, mentre quelle che non li frequentarono si spensero, in media, nell'arco di diciannove; queste cifre parlano di un guadagno, in termini di speranza di vita, che va ben oltre la portata di qualunque trattamento farmacologico o di altro tipo offerto dalla medicina. Jimmie Holland, lo psichiatra che segue i pazienti oncologici allo Sloan-Kettering Memorial Hospital, un centro per la cura del cancro di New York, mi disse: “Ogni paziente oncologico dovrebbe essere inserito in gruppi come questi”. Effettivamente, se a produrre un simile allungamento della speranza di vita fosse stato un nuovo farmaco, le aziende farmaceutiche avrebbero ingaggiato una competizione serrata per aggiudicarsene la produzione.

- Arricchire l'assistenza medica con l'intelligenza emotiva.

Il giorno in cui un controllo di routine rilevÃ’ la presenza di sangue nelle mie urine, il medico mi mandÃ’ a fare un esame diagnostico nel quale mi venne iniettato un tracciante radioattivo. Ero disteso su un tavolo mentre una macchina per i raggi X sopra di me prendeva immagini successive per documentare la progressione del tracciante nei miei reni e nella vescica. Mentre facevo il test, ero in compagnia: un mio carissimo amico, medico egli stesso, era capitato da me per una visita di qualche giorno e si era offerto di accompagnarmi all'ospedale. Stava seduto nella stessa stanza dove la macchina per i raggi X, seguendo una traiettoria prefissata, ruotava per ottenere diverse proiezioni, emetteva un ronzio e scattava; ruotava, ronzava e scattava.

Per completare l'esame ci volle un'ora e mezza. Alla fine un nefrologo entrÃ’ in fretta e furia nella stanza, si presentÃ’ sbrigativamente e scomparve per analizzare le lastre, guardandosi bene dal tornare a dirmi che cosa mostrassero.

Mentre stavamo lasciando la sala raggi, io e il mio amico incrociammo il nefrologo. Scosso e un po' intontito per via del test, non ebbi la presenza di spirito di chiedergli l'unica cosa che mi aveva tormentato per tutta la mattina. Ma il mio accompagnatore lo fece per me: “Dottore,” disse “il padre del mio amico morÃŒ per un cancro alla vescica, e lui vorrebbe sapere se le lastre mostrano segni di cancro”.

“Nessuna anomalia” fu la concisa risposta del nefrologo, che doveva affrettarsi a visitare il paziente successivo.

La mia incapacitÀ di chiedere la cosa che in quel momento piÙ mi premeva emerge migliaia di volte ogni giorno negli ospedali e nelle cliniche di tutto il mondo. Uno studio constatÒ che quando i pazienti si trovano nella sala d'aspetto del medico hanno in media tre o piÙ domande da porgli. Ma quando lasciano l'ambulatorio, di quelle domande, in media, solo una e mezza ha trovato risposta (47). Questa È l'ennesima conferma che le esigenze psicologiche dei pazienti non vengono soddisfatte dalla medicina odierna. Le domande lasciate senza risposta alimentano l'incertezza, la paura, la tendenza ad avere pensieri catastrofici. E portano i pazienti a rifiutarsi di proseguire cure che non comprendono completamente.

La medicina puÒ ampliare la propria concezione della salute ed includervi le realtÀ emotive della malattia in molti modi. Intanto, i pazienti potrebbero ricevere normalmente informazioni piÙ complete, essenziali per prendere le necessarie decisioni relative alla loro salute; oggi esistono alcuni servizi che offrono a chiunque li interpelli la ricerca computerizzata della letteratura medica piÙ aggiornata sulle diverse patologie; maggiori conoscenze consentono al paziente di stabilire un rapporto piÙ paritario con i propri medici, e di prendere decisioni a ragion veduta (48). Un altro approccio È quello di istituire programmi che, nell'arco di qualche minuto, insegnano al paziente a porre domande efficaci al proprio medico; in tal modo, se in sala d'aspetto il paziente ha in mente tre domande, dovrebbe uscire dall'ambulatorio con tre risposte (49).

I momenti nei quali i pazienti affrontano interventi chirurgici o esami invasivi e dolorosi sono sempre temuti con angoscia - e sono un'occasione fondamentale per trattare la dimensione emozionale. Alcuni ospedali hanno sviluppato programmi di addestramento preoperatorio rivolti ai pazienti, in modo da aiutarli a lenire le loro paure e a gestire il proprio disagio - ad esempio insegnando loro le tecniche di rilassamento, rispondendo alle loro domande prima dell'operazione e dicendo loro con diversi giorni di anticipo e in termini chiari quello che probabilmente proveranno durante la convalescenza. Il risultato di questi interventi È che i tempi di recupero post-operatorio si accorciano di due o tre giorni (50).

Il ricovero puÒ essere un'esperienza di grande solitudine e impotenza. Alcuni ospedali, perÒ, hanno cominciato a progettare le camere per la degenza in modo che i familiari possano stare con i pazienti, cucinando per loro e accudendoli come se fossero a casa - un passo avanti verso una situazione che, paradossalmente, È pratica comune in tutto il Terzo Mondo (51).

Le tecniche di rilassamento possono aiutare i pazienti a superare parte della sofferenza derivante dalla loro sintomatologia, come pure a gestire le emozioni che probabilmente la stimolano o la acuiscono. Un modello esemplare È quello della Stress Reduction Clinic di Jon Kabat-Zinn, presso il Medical Center della Massachusetts University, che offre ai pazienti un corso di meditazione e yoga di dieci settimane; l'obiettivo È quello di riuscire a essere presenti a se stessi e consapevoli degli episodi emotivi nel loro svolgersi, e di coltivare un esercizio quotidiano che generi uno stato di profondo rilassamento. Alcuni ospedali hanno prodotto videocassette di questo corso - molto piÙ adatte, dal punto di vista psicologico, al paziente costretto a letto, di quanto non lo siano le solite soap opera da quattro soldi (52).

Le tecniche di rilassamento e lo yoga sono anche al centro di un programma innovativo, comprendente una dieta a basso tenore lipidico, sviluppato da Dean Ornish per curare le cardiopatie (53). Dopo aver seguito questo programma per un anno, i pazienti la cui cardiopatia era grave al punto da richiedere un bypass coronarico, mostrarono un'inversione nella loro tendenza a depositare la placca nelle arterie. Ornish mi ha spiegato che la tecnica di rilassamento È una delle parti piÙ importanti del suo programma. Come quello di Kabat-Zinn, anche il programma di Ornish trae vantaggio da quella che Herbert Benson chiama la “risposta di rilassamento”: l'opposto fisiologico di quello stato di attivazione indotto dallo stress che contribuisce a una gamma tanto vasta di disturbi.

Infine, il fatto di avere medici e infermieri empatici, in sintonia con i pazienti, capaci di ascoltarli e di farsi ascoltare, comporta un altro vantaggio: significa cioÈ alimentare un'“assistenza centrata sulla relazione” - in altre parole, riconoscere che il rapporto fra medico e paziente È esso stesso un fattore significativo. Questo rapporto potrebbe essere coltivato piÙ facilmente se la formazione dei medici comprendesse alcuni strumenti essenziali dell'intelligenza emotiva, in particolare l'autoconsapevolezza e le arti dell'empatia e dell'ascolto (54).

- Verso una medicina piÙ umana.

Questi sono solo i primi passi. Ma se vogliamo che la medicina allarghi i propri orizzonti per arrivare a comprendere anche l'impatto delle emozioni, È necessario tenere ben presenti due vaste implicazioni dei risultati scientifici:

1. 'Aiutare gli individui a gestire meglio i sentimenti negativi - la collera, l'ansia, la depressione, il pessimismo e la solitudine - È una forma di prevenzione'. Poiché i dati dimostrano che la tossicitÀ di queste emozioni, quando sono croniche, È pari a quella del fumo di sigaretta, aiutare le persone a gestirle meglio potrebbe comportare, in termini strettamente medici, un vantaggio simile a quello che si ottiene quando un forte fumatore si libera del suo vizio. Pertanto, per avere effetti di vasta portata sulla salute pubblica, bisognerebbe insegnare le piÙ elementari abilitÀ dell'intelligenza emotiva ai bambini, perché divengano in loro inclinazioni ben radicate. Un'altra strategia molto remunerativa sarebbe quella di insegnare il controllo delle proprie emozioni anche a coloro che stanno raggiungendo l'etÀ della pensione; infatti, il benessere psicologico È uno dei fattori che determinano il rapido declino o il buono stato di forma di un anziano. Un terzo gruppo individuabile per questo tipo di interventi potrebbe essere quello delle cosiddette popolazioni a rischio (i molto poveri, le madri single che lavorano, gli abitanti di quartieri con una criminalitÀ diffusa); si tratta di individui che vivono costantemente sottoposti a pressioni straordinarie e che quindi potrebbero trarre giovamento se li si aiutasse a ridurre il costo psicologico di questi stress.

2. 'Molti pazienti possono trarre un beneficio misurabile quando le loro esigenze psicologiche sono oggetto di cura insieme a quelle strettamente fisiche'. Sebbene il fatto che un medico o un'infermiera offrano conforto e consolazione a un paziente sofferente sia giÀ un primo passo verso un'assistenza piÙ umana, È possibile fare di piÙ. Tuttavia, la medicina, nel modo in cui viene oggi praticata, si lascia troppo spesso sfuggire l'occasione di intervenire anche sulla sfera emotiva del paziente; l'assistenza psicologica È una specie di punto cieco dell'arte medica. Nonostante i dati sempre piÙ numerosi sull'utilitÀ, ai fini medici, dell'attenzione prestata alle esigenze emotive dei pazienti, e nonostante le dimostrazioni dei collegamenti fra i centri cerebrali che elaborano le emozioni e il sistema immunitario, molti medici restano scettici sulla possibilitÀ che le emozioni dei loro pazienti possano avere un peso clinico; essi liquidano tutte queste prove come banali aneddoti, come “marginali”, o peggio ancora, come le esagerazioni di alcuni individui che intendono promuovere se stessi.

Sebbene sempre piÙ pazienti desiderino una medicina piÙ umana, essa È minacciata. Naturalmente, ci sono medici e infermieri che offrono con abnegazione ai propri pazienti un'assistenza affettuosa e sensibile. Ma il cambiamento culturale che sta avendo luogo nella stessa professione medica, sempre piÙ improntata all'imperativo del profitto, rende difficile l'impresa di trovare un'assistenza come quella che abbiamo prospettato.

D'altra parte, non bisogna dimenticare che una medicina piÙ umana potrebbe portare anche un vantaggio in termini di profitto: i primi dati raccolti indicano che la cura delle sofferenze psicologiche dei pazienti puÒ aiutare a risparmiare denaro - soprattutto in quanto evita o ritarda l'insorgere di una malattia o aiuta i pazienti a guarire piÙ rapidamente. In uno studio su pazienti anziani con frattura dell'anca condotto alla Mount Sinai School of Medicine di New York, e alla Northwestern University, quelli che oltre alle normali cure ortopediche ricevevano anche una terapia contro la depressione lasciavano l'ospedale mediamente due giorni prima; il risparmio totale, moltiplicato per i circa cento pazienti dello studio, ammontava a 97361 dollari di spese sanitarie (55).

Con un'assistenza di questo tipo, inoltre, i pazienti sono piÙ soddisfatti del loro medico e delle cure. Nell'emergente mercato sanitario, in cui i pazienti possono spesso scegliere la loro cura fra varie alternative, il livello di soddisfazione entra senza dubbio a far parte dell'equazione che determina queste decisioni molto personali - le esperienze spiacevoli indurranno i pazienti a cercare in futuro assistenza altrove, mentre quelle positive si tradurranno in una conferma della fiducia.

Infine, questo approccio probabilmente si impone anche per questioni di etica medica. Un editoriale comparso sul 'Journal of the American Medical Association', commentava un dato secondo il quale la depressione aumenterebbe di cinque volte la probabilitÀ di morte dopo un attacco cardiaco; l'editorialista osservava: “La chiara dimostrazione del fatto che i pazienti coronarici ad alto rischio si distinguono dagli altri per fattori psicologici come la depressione e l'isolamento sociale implica che sarebbe immorale non cominciare a curare anche questi fattori” (56).

Se le scoperte del legame fra emozioni e salute hanno un significato, esso È il seguente: non È piÙ possibile considerare adeguata un'assistenza medica che trascuri i 'sentimenti' dei pazienti che stanno combattendo la loro battaglia contro una malattia grave o cronica. E' tempo che la medicina tragga vantaggio in modo piÙ sistematico dal legame esistente fra emozione e salute. Quello che È oggi l'eccezione potrebbe - e dovrebbe - diventare parte della prassi dominante; in tal modo tutti potrebbero disporre di una medicina piÙ attenta. Quanto meno, ciÃ’ renderebbe la medicina piÙ umana e nel caso di alcuni pazienti potrebbe accelerare la guarigione. “La compassione” scrisse un paziente in una lettera aperta al suo chirurgo “non È semplice imposizione delle mani. E' buona prassi medica” (57).



Politica de confidentialitate | Termeni si conditii de utilizare



DISTRIBUIE DOCUMENTUL

Comentarii


Vizualizari: 1257
Importanta: rank

Comenteaza documentul:

Te rugam sa te autentifici sau sa iti faci cont pentru a putea comenta

Creaza cont nou

Termeni si conditii de utilizare | Contact
© SCRIGROUP 2024 . All rights reserved