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UN'OCCASIONE DA COGLIERE

psicologia



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DOCUMENTE SIMILARE



UN'OCCASIONE DA COGLIERE.

12. IL CROGIOLO FAMILIARE.



'Quella che segue È una tragedia familiare in chiave minore. Carl e Ann stanno mostrando a Leslie, la loro bambina di soli cinque anni, il funzionamento di un nuovo videogioco. Ma non appena Leslie comincia a provare, i tentativi palesemente impazienti dei genitori di “aiutarla” sembrano metterla in difficoltÀ. Ordini contraddittori si incrociano in tutte le direzioni.

“A destra, a destra - ferma. Ferma. FERMA!” Ann, la madre, la incalza, con la voce che diventa piÙ decisa e ansiosa mentre Leslie, mordendosi il labbro e con gli occhi spalancati davanti allo schermo, lotta per seguire le sue istruzioni.

“Guarda, non sei allineata mettilo a sinistra! A sinistra!” ordina bruscamente Carl, il padre della bambina.

Nel frattempo Ann, con gli occhi levati al cielo per la frustrazione, strilla il suo consiglio: “Ferma! Ferma!”.

Leslie, incapace di compiacere il padre o la madre, fa una smorfia per la tensione e sbatte le palpebre con gli occhi pieni di lacrime.

I genitori di Leslie cominciano allora a litigare fra loro, ignorando gli occhi umidi della figlia. “Non sta muovendo ABBASTANZA il comando!” Ann dice a Carl esasperata.

Quando le lacrime cominciano a scendere lungo le guance di Leslie, i genitori non battono ciglio per dimostrare che se ne sono accorti o se ne dispiacciono. Quando Leslie alza la mano per asciugarsi gli occhi, il padre le dice bruscamente: “Va bene, rimetti la mano sul comando preparati a colpire. Dai!”. E la madre abbaia di rimando “Dai! muovilo appena appena!”.

Ma adesso Leslie sta singhiozzando sommessamente, sola con la sua angoscia'.

In momenti come questi, i bambini captano insegnamenti molto profondi. Una delle conclusioni che Leslie potrebbe trarre da questo spiacevole scambio di battute È che nessuno dei suoi genitori, né se È per questo qualcun altro, ha veramente a cuore i suoi sentimenti (1). Se, durante l'infanzia, momenti simili a questo si ripetono all'infinito, finiscono per comunicare ai bambini alcuni messaggi fondamentali - messaggi che possono determinare il corso di una vita. La vita familiare È la prima scuola nella quale apprendiamo insegnamenti riguardanti la vita emotiva; È nell'intimitÀ familiare che impariamo come dobbiamo sentirci riguardo a noi stessi e quali saranno le reazioni degli altri ai nostri sentimenti; che cosa pensare su tali sentimenti e quali alternative abbiamo per reagire; come leggere ed esprimere speranze e paure. L'educazione emozionale opera non solo attraverso le parole e le azioni dei genitori indirizzate direttamente al bambino, ma anche attraverso i modelli che essi gli offrono mostrandogli come gestiscono i propri sentimenti e la propria relazione coniugale. Alcuni genitori sono insegnanti di talento, altri un vero disastro.

Centinaia di studi dimostrano che il modo in cui i genitori trattano i bambini - con dura disciplina o con comprensione empatica, con indifferenza o con calore, e cosÌ via - ha conseguenze profonde e durevoli per la loro vita emotiva. Tuttavia, solo recentemente sono stati acquisiti dati seri che dimostrano come il fatto di avere genitori intelligenti dal punto di vista emotivo È di per se stesso una fonte di grandissimo beneficio per il bambino. Il modo in cui i membri di una coppia gestiscono i propri sentimenti reciproci - oltre al loro modo di trattare direttamente con il bambino - costituisce una fonte di insegnamenti profondi per i figli, che sono alunni svegli, pronti a cogliere i piÙ sottili scambi emozionali in seno alla famiglia. Quando alcuni gruppi di ricerca guidati da Carole Hooven e John Gottman, della Washington University, compirono una microanalisi delle interazioni all'interno delle coppie concentrata sul modo in cui i partner trattavano i propri figli, scoprirono che le coppie che meglio vivevano le emozioni all'interno del matrimonio erano anche quelle piÙ abili nell'aiutare i bambini a superare i propri alti e bassi psicologici (2).

Le famiglie vennero osservate una prima volta quando uno dei figli aveva solo cinque anni, e poi ancora quando ne aveva nove. Oltre ad osservare i genitori che parlavano fra di loro, i ricercatori studiarono anche i nuclei familiari (compreso quello di Leslie) mentre il padre o la madre cercava di mostrare al bambino come far funzionare un nuovo videogioco - un'interazione apparentemente innocua, ma estremamente significativa per quanto riguarda le correnti emotive fra genitori e figlio.

Alcune madri e certi padri somigliavano ad Ann e Carl: autoritari, perdevano la pazienza di fronte all'inettitudine del bambino, alzavano la voce per il disgusto o l'esasperazione, alcuni addirittura tacciando il figlio di essere “stupido” - per farla breve, cadendo preda di quelle stesse tendenze verso il disprezzo e il disgusto che abbiamo visto avere effetti corrosivi sul matrimonio. Altri, tuttavia, di fronte agli errori del proprio bambino, erano pazienti e lo aiutavano a comprendere il gioco a modo suo senza imporre la propria volontÀ. Il test del videogioco costituiva uno strumento sorprendentemente sensibile per misurare il modo di gestire le proprie emozioni dei genitori.

I tre comportamenti inadeguati piÙ comuni nei genitori sono:

- 'Ignorare completamente i sentimenti' - Questi genitori trattano il turbamento emotivo del bambino come se fosse una cosa banale o una seccatura della quale aspettare la naturale estinzione. Essi non riescono ad approfittare dei momenti carichi di valenze psicologiche per avvicinarsi al bambino o per aiutarlo ad apprendere alcune competenze emozionali.

- 'Assumere un atteggiamento troppo incline al laissez-faire' - Questi genitori notano i sentimenti del bambino, ma ritengono che qualunque strategia egli adotti per gestire la sua tempesta interiore - anche lo scontro fisico - vada bene. Come quelli che ignorano i sentimenti del bambino, anche questi genitori raramente intervengono per cercare di mostrare al proprio figlio una risposta alternativa. Essi cercano di calmare ogni turbamento e pur di ottenere che il bambino smetta di essere triste o in collera, si metteranno a mercanteggiare e ricorreranno alle lusinghe.

- 'Essere sprezzanti, mostrando di non avere rispetto alcuno per i sentimenti del bambino' - Questi genitori solitamente hanno un atteggiamento di disapprovazione e sono duri sia nelle critiche che nelle punizioni. Ad esempio, possono proibire al bambino di mostrare ogni segno di collera e diventare punitivi al minimo segno di irritabilitÀ. Questo È il tipo di genitore che, quando il figlio cerca di spiegare la propria versione dei fatti, gli grida irritato: “E non permetterti di rispondermi!”.

Infine, ci sono i genitori che colgono l'opportunitÀ di un turbamento del figlio per agire come una sorta di “allenatore” o di guida psicologica. Essi prendono i sentimenti del proprio bambino abbastanza sul serio da cercare di comprendere esattamente i motivi del suo turbamento (“Sei arrabbiato perché Tommy ha ferito i tuoi sentimenti?”) e da tentare di aiutarlo a trovare un modo positivo per calmarsi (“Invece di prenderlo a pugni, perché non trovi qualcosa con cui divertirti da solo finché non ti torna la voglia di giocare ancora con lui?”).

Per riuscire ad essere bravi “allenatori”, i genitori devono avere essi stessi una buona conoscenza dell'intelligenza emotiva. Ad esempio, uno dei fondamentali insegnamenti emozionali per un bambino È il saper distinguere i diversi sentimenti; ma un padre troppo desintonizzato dalla propria tristezza non potrÀ aiutare il figlio a comprendere la differenza fra il dolore per una perdita, il sentirsi malinconici quando si guarda un film lacrimoso, e la tristezza che assale il bambino quando accade qualcosa a una persona che ama. Oltre a questa distinzione, c'È anche una comprensione piÙ profonda, ad esempio il fatto che la collera È molto spesso causata dal sentirsi feriti.

Crescendo, i bambini non solo sono pronti a ricevere vari insegnamenti emozionali specifici, ma ne hanno bisogno. Come abbiamo visto nel capitolo 7, l'insegnamento dell'empatia comincia nella primissima infanzia, quando i genitori entrano in sintonia con i sentimenti del neonato. Sebbene alcune capacitÀ emozionali vengano affinate con gli amici nel corso degli anni, i genitori capaci possono fare molto per infondere nei propri figli le basi dell'intelligenza emotiva: in altre parole, possono aiutarli ad apprendere come riconoscere, dominare e imbrigliare i propri sentimenti; insegnar loro ad essere empatici; e, ancora, a controllare i sentimenti nelle loro relazioni.

Sui bambini, l'impatto di genitori di questo tipo È radicale (3). Il gruppo della Washington University ha scoperto che quando i genitori sono capaci da questo punto di vista, i bambini - comprensibilmente - vanno meglio d'accordo con loro, gli dimostrano maggiore affetto, e la relazione genitori-figli È caratterizzata da meno tensioni di quando i genitori hanno una scarsa capacitÀ di controllare i sentimenti. Ma non basta: questi bambini sono anche piÙ bravi a gestire le proprie emozioni, sanno meglio come calmarsi quando sono turbati - e comunque si turbano meno spesso. Essi sono anche piÙ rilassati dal punto di vista 'biologico' e presentano livelli inferiori di ormoni dello stress e di altri indicatori fisiologici dell'attivazione emozionale (una situazione che, se si prolunga per tutta la vita, puÃ’ essere di buon auspicio per una migliore salute fisica, come abbiamo visto nel capitolo 11). Altri vantaggi sono di natura sociale: questi bambini sono piÙ simpatici e piÙ amati dai loro coetanei, e i loro insegnanti li considerano piÙ abili nella sfera sociale. Genitori e insegnanti ritengono che questi bambini abbiano meno problemi comportamentali, quali ad esempio la tendenza alla scortesia e all'aggressivitÀ. Infine, i benefici sono anche cognitivi; questi bambini riescono a concentrarsi meglio degli altri, e pertanto sono allievi piÙ capaci. A paritÀ di Q.I., i bambini i cui genitori erano bravi “allenatori” avevano un migliore rendimento in aritmetica e nella lettura, una volta arrivati in terza elementare (il che costituirebbe un potente argomento a favore dell'insegnamento delle abilitÀ emozionali per preparare i bambini non solo alla vita, ma anche all'apprendimento). Pertanto, il beneficio di cui godono i bambini di genitori capaci È una sorprendente - quasi eccezionale - gamma di vantaggi che interessano tutto lo spettro dell'intelligenza emotiva e si spingono anche al di lÀ di essa.

- “Heart start”.

L'impatto del comportamento dei genitori sulla competenza dei figli nella sfera emotiva comincia dalla culla. T. Berry Brazelton, l'insigne pediatra di Harvard, si serve di un semplice test diagnostico per valutare l'atteggiamento di un bambino nei confronti della vita. Egli offre due pezzi di un gioco di costruzioni a una bambina di diciotto mesi e poi le mostra come vuole che vengano assemblati. Secondo Brazelton, una bambina con un atteggiamento pieno di speranza verso la vita, che ha fiducia nelle proprie capacitÀ,

'prenderÀ uno dei pezzi, se lo metterÀ in bocca, lo strofinerÀ sui capelli, lo lascerÀ cadere sul lato del tavolo, stando a vedere se glielo raccogliete. Se lo fate, completerÀ il compito richiestole - metterÀ insieme i due pezzi. Poi vi guarderÀ con occhi luminosi pieni di aspettativa, come se dicesse: “Dimmi quanto sono stata brava!”' (4).

Nella loro vita, bambini come questa hanno avuto una buona dose di approvazione e incoraggiamento da parte degli adulti, e si aspettano di riuscire nelle piccole imprese in cui si imbattono. Al contrario, bambini che provengono da famiglie troppo tetre, caotiche o trascurate affronteranno lo stesso piccolo compito in un modo che rivela all'osservatore la loro aspettativa di fallimento. Non È che questi bambini non riescano a mettere insieme i due pezzi del gioco di costruzioni; essi comprendono benissimo le istruzioni e hanno la coordinazione necessaria per attenervisi. Ma anche quando lo fanno, racconta Brazelton, hanno un'aria da “cane bastonato”, un aspetto che pare dire: “Non sono bravo. Vedi, non ci riesco”. E' probabile che questi bambini affrontino la vita con una prospettiva disfattista, senza aspettarsi alcun incoraggiamento o interesse da parte degli insegnanti; per loro la scuola sarÀ un luogo senza gioia, e forse finiranno per abbandonarla.

La differenza fra le due prospettive - quella dei bambini fiduciosi e ottimisti e quella dei loro coetanei che si aspettano di fallire - comincia a prendere forma nei primissimi anni di vita. Brazelton sostiene che i genitori “devono comprendere come le loro azioni possano contribuire a generare fiducia, curiositÀ, piacere nell'apprendimento e nella comprensione dei limiti” - tutte cose che aiutano i bambini a riuscire nella vita. Il suo consiglio si basa su dati, sempre piÙ numerosi, che dimostrano come il successo scolastico dipenda in misura sorprendente dalle caratteristiche emotive formatesi negli anni precedenti all'ingresso del bambino nella scuola. Come abbiamo visto nel capitolo 6, ad esempio, la capacitÀ dei bambini di quattro anni di controllare l'impulso di afferrare una caramella consentiva di prevedere che di lÃŒ a quattordici anni essi avrebbero conseguito punteggi Sat mediamente superiori di 210 punti a quelli degli altri individui. La prima opportunitÀ di dar forma ai germi dell'intelligenza emotiva si presenta nei primissimi anni di vita, sebbene tali capacitÀ continuino a formarsi anche negli anni della scuola. Le capacitÀ che i bambini acquisiscono piÙ tardi, nella vita, vanno ad aggiungersi a quelle apprese nella prima infanzia. E queste abilitÀ, come abbiamo visto nel capitolo 6, costituiscono una base essenziale per tutto l'apprendimento. Un rapporto del National Center for Clinical Infant Programs afferma che spie efficaci del successo scolastico non sono il patrimonio nozionistico o l'abilitÀ precoce nella lettura, quanto piuttosto la misura di capacitÀ emotive e sociali - essere sicuri di sé e interessati; sapere quale tipo di comportamento ci si aspetta da noi e come trattenersi dall'impulso di comportarsi male; essere capaci di aspettare, di seguire istruzioni e di rivolgersi agli insegnanti per chiedere aiuto; ed esprimere le proprie esigenze pur andando d'accordo con altri bambini (5).

Quasi tutti gli studenti che vanno male a scuola, afferma il rapporto, mancano in uno o piÙ di questi elementi dell'intelligenza emotiva (indipendentemente dal fatto che abbiano anche difficoltÀ cognitive quali, ad esempio, un'incapacitÀ di apprendimento). Le dimensioni del problema non sono di poco conto; in alcuni stati, quasi un bambino su cinque deve ripetere la prima elementare, e con il passare degli anni resta sempre piÙ indietro rispetto ai suoi coetanei, accumulando un senso di scoraggiamento, risentimento e disorganizzazione.

Il fatto che un bambino sia piÙ o meno pronto per la scuola dipende dalla piÙ fondamentale di tutte le conoscenze, ossia quella di come imparare. Il rapporto elenca i sette ingredienti fondamentali di questa capacitÀ importantissima - tutti collegati all'intelligenza emotiva (6).

1. 'Fiducia'. Un senso di controllo e padronanza sul proprio corpo, sul proprio comportamento e sul proprio mondo; la sensazione, da parte del bambino, di avere maggiori probabilitÀ di riuscire in ciÒ che intraprende di quante non ne abbia invece di fallire, e che comunque gli adulti lo aiuteranno.

2. 'CuriositÀ'. La sensazione che la scoperta sia un'attivitÀ positiva e fonte di piacere.

3. 'IntenzionalitÀ'. Il desiderio e la capacitÀ di essere influenti e perseveranti. Questa capacitÀ È collegata al senso di competenza, alla sensazione di essere efficaci.

4. 'Autocontrollo'. La capacitÀ di modulare e di controllare le proprie azioni in modo appropriato all'etÀ; un senso di controllo interiore.

5. 'Connessione'. La capacitÀ di impegnarsi con gli altri, basata sulla sensazione di essere compresi e di comprendere gli altri.

6. 'CapacitÀ di comunicare'. Il desiderio e la capacitÀ di scambiare verbalmente idee, sentimenti e concetti con gli altri. Questa abilitÀ È legata a una sensazione di fiducia negli altri e di piacere nell'impegnarsi con loro, adulti compresi.

7. 'CapacitÀ di cooperare'. L'abilitÀ di equilibrare le proprie esigenze con quelle degli altri in un'attivitÀ di gruppo.

Il fatto che un bambino arrivi al suo primo giorno di scuola con queste capacitÀ dipende moltissimo dal fatto che i suoi genitori gli abbiano dato o meno quel tipo di attenzioni che equivalgono a un “Heart Start” - l'equivalente, nella sfera emotiva, dei programmi “Head Start”.

- L'abbecedario dell'intelligenza emotiva.

Supponiamo che una bambina di due mesi si svegli alle tre di notte e cominci a piangere. La madre va da lei e, per la mezz'ora successiva, allatta la piccola tenendola fra le braccia, guardandola con affetto e raccontandole quanto sia felice di vederla, sia pure nel bel mezzo della notte. La bambina, soddisfatta dell'amore della madre, risprofonda nel sonno.

Ora immaginiamo un altro bambino di due mesi, che si svegli anche lui piangendo nel cuore della notte, ma che si scontri invece con una madre tesa e irritabile, che si era addormentata solo un'ora prima dopo aver litigato con il marito. Il bambino comincia a entrare in tensione nel momento stesso in cui la madre lo prende bruscamente in braccio dicendogli “Sta' buono - Ci mancava solo questa! Andiamo, facciamola finita”. Mentre allatta il bambino, la madre È come pietrificata: non lo guarda in faccia, ripensa al litigio con il marito e diventa sempre piÙ agitata via via che rimugina sull'accaduto. Il bambino, percependo la sua tensione, si dimena, si irrigidisce e smette di succhiare. “Tutta qui la tua gran fame?!” dice la madre. “E allora basta!” Con lo stesso fare brusco, lo rimette nella culla ed esce dalla stanza lasciandolo piangere finché quello, esausto, non si riaddormenta.

Le due scene sono presentate nel rapporto del National Center for Clinical Infant Programs come esempi di interazioni che, se ripetute all'infinito, istillano in un bambino sentimenti molto diversi riguardo a se stesso e alle sue relazioni piÙ strette (7). La bambina del primo esempio sta imparando che puÃ’ confidare nel fatto che gli altri si accorgano delle sue esigenze, che puÃ’ contare su di loro per essere aiutata e che sa ottenere l'aiuto che le serve; il secondo bambino, invece, sta scoprendo che a nessuno importa molto di lui, che non si puÃ’ contare sugli altri, e che i suoi sforzi per ottenere conforto sono destinati a scontrarsi con il fallimento. Naturalmente, la maggior parte dei bambini ha almeno un assaggio di entrambi i tipi di interazione. Ma nella misura in cui una o l'altra È tipica del modo con cui i genitori trattano il proprio figlio nell'arco di anni, tutto questo finirÀ per impartire al bambino alcuni fondamentali insegnamenti su quanto egli debba sentirsi sicuro e capace nel mondo e su quanto possa fidarsi del prossimo. Secondo Erik Erikson, questo impatto con i genitori determina se un bambino arriverÀ a nutrire un sentimento di fondamentale “fiducia” o “sfiducia”.

Questo apprendimento emozionale comincia nei primi istanti di vita, e continua per tutta l'infanzia. Tutti i piccoli scambi fra genitori e bambino hanno un fondo emozionale, e nella ripetizione di questi messaggi per anni, i bambini si formano un nucleo di prospettive e capacitÀ emotive. Immaginiamo una bambina che trovi frustrante un puzzle e chieda alla madre, molto occupata, di darle una mano; il messaggio sarÀ ben diverso se la risposta È l'evidente piacere della madre alla richiesta della piccola, o se È un brusco: “Non mi seccare - devo fare un lavoro importante”. Quando questi scambi fra genitore e bambino diventano la regola, finiscono per forgiare le aspettative del piccolo riguardanti le relazioni con gli altri e creano prospettive che daranno sapore, nel bene e nel male, alle sue prestazioni in tutti i campi della vita.

I rischi sono maggiori nel caso di quei bambini i cui genitori sono grossolanamente incapaci - individui immaturi, che fanno uso di droghe, depressi o cronicamente in collera - oppure semplicemente persone senza scopo che conducono vite caotiche. E' assai improbabile che genitori di questo tipo prestino un'attenzione adeguata alle esigenze emozionali del proprio bambino - meno che mai, poi, ci si puÒ aspettare che siano in sintonia con lui. E' stato scoperto che la semplice trascuratezza puÒ essere piÙ dannosa dei maltrattamenti veri e propri (8). In un'inchiesta sui bambini maltrattati È stato accertato che quelli trascurati se la passavano peggio di tutti: erano i piÙ ansiosi e apatici, incapaci di prestare attenzione, a volte aggressivi e chiusi in se stessi. In questo gruppo di bambini, il 65 per cento dei soggetti ripeteva la prima elementare.

I primi tre o quattro anni di vita sono un periodo nel quale il cervello del bambino cresce per arrivare a circa due terzi delle dimensioni definitive, e si evolve in complessitÀ a una velocitÀ di gran lunga superiore a quella che caratterizzerÀ lo sviluppo successivo. Durante questo periodo, alcuni tipi fondamentali di apprendimento hanno luogo piÙ facilmente che nella vita successiva - fra di essi, in primo piano È proprio l'apprendimento emozionale. In questa fase, uno stress grave puÒ compromettere i centri dell'apprendimento cerebrale (e quindi puÒ avere effetti dannosi sull'intelletto). Sebbene, come vedremo, le esperienze successive possano in parte rimediare a tali danni, l'impatto di questo apprendimento precoce È profondo. Come È stato detto, l'insegnamento emozionale fondamentale dei primi quattro anni di vita ha importantissime conseguenze durature:

'Un bambino che non È in grado di concentrare la propria attenzione, che invece di essere fiducioso È sospettoso, invece di essere ottimista È triste o collerico, invece di avere un atteggiamento rispettoso È distruttivo e sopraffatto dall'ansia, preoccupato da fantasie spaventose e generalmente infelice di se stesso - ecco, un bambino come questo ha in assoluto pochissime, certo non pari, opportunitÀ di considerare alla propria portata le possibilitÀ offerte dal mondo' (9).

- Come allevare un prepotente.

Studi longitudinali come quello effettuato su 870 bambini della parte settentrionale dello stato di New York, che vennero seguiti dall'etÀ di otto anni fino a quella di trenta, possono insegnarci moltissimo sull'effetto a lungo termine di genitori inadeguati - soprattutto ai fini dell'aggressivitÀ (10). I bambini piÙ bellicosi - quelli piÙ pronti allo scontro fisico e che solitamente ricorrono alla forza per fare a modo loro - erano quelli con le maggiori probabilitÀ di abbandonare la scuola e, raggiunti i trent'anni, di avere un passato segnato dal crimine e dalla violenza. Sembrava inoltre che essi avessero la capacitÀ di trasmettere alla discendenza la loro propensione alla violenza: i loro figli si distinguevano, alle elementari, per gli stessi comportamenti rissosi e attaccabrighe che, a suo tempo, avevano caratterizzato i genitori.

Il passaggio dell'aggressivitÀ da una generazione all'altra deve far riflettere. A parte eventuali propensioni ereditarie, i tipi rissosi, da adulti, si comportavano in modo da trasformare la famiglia in una vera e propria scuola di aggressivitÀ. Da bambini, i tipi rissosi avevano genitori che li punivano con severitÀ spietata e arbitraria; una volta divenuti genitori, non facevano che attenersi a quel modello. Questo valeva indipendentemente dal fatto che il genitore altamente aggressivo fosse stato il padre o la madre. Le bambine aggressive crescevano e diventavano madri arbitrarie e duramente punitive, proprio come accadeva alle loro controparti maschili. E sebbene questi genitori punissero i loro figli con particolare severitÀ, per altri versi si interessavano pochissimo alla loro vita, ignorandoli per gran parte della giornata Allo stesso tempo, questi genitori offrivano ai propri figli un esempio di aggressivitÀ violenta, un modello che i bambini si portavano poi dietro a scuola e al campo giochi, e che non avrebbero mancato di seguire per tutta la vita. Questi genitori non erano necessariamente dei tipi spregevoli, né si puÃ’ negare che desiderassero il meglio per i propri figli; piuttosto, sembravano semplicemente ricalcare lo stile di rapporto genitore/figlio del quale i loro stessi genitori erano stati un modello.

In questo clima di violenza, i bambini venivano puniti in modo arbitrario: se i genitori erano di cattivo umore, sarebbero stati puniti severamente; altrimenti l'avrebbero fatta franca. Pertanto la punizione non dipendeva dall'azione del bambino, ma dallo stato d'animo del genitore in quel particolare momento. Questa È una buona ricetta per scatenare sentimenti di inutilitÀ e impotenza, insieme alla convinzione che le minacce siano in agguato ovunque e possano colpirci in qualunque momento. Visto alla luce della vita familiare che lo genera, l'atteggiamento combattivo e provocatorio di questi bambini nei confronti del mondo in senso lato ha una sua logica, sia pur infelice. Quel che È scoraggiante È constatare quanto presto queste lezioni deprimenti possano essere apprese e quanto spietato possa essere il loro costo per la vita emotiva del bambino.

- Maltrattamento: l'estinzione dell'empatia.

'Nei giochi turbolenti dell'asilo nido, Martin, di soli due anni e mezzo, sfiora passando una bambina piccola che, inesplicabilmente, scoppia a piangere. Martin allunga la mano per prendere quella della bambina, ma quando quella, in lacrime, si ritrae, le dÀ un ceffone sul braccio.

Poiché il pianto continua, Martin distoglie lo sguardo e grida “Finiscila! FINISCILA!”, ripetendo l'ordine all'infinito, ogni volta piÙ velocemente e a voce piÙ alta.

Quando Martin fa un altro tentativo di accarezzare la bambina, quella resiste ancora. Stavolta Martin scopre i denti come un cane ringhioso, sibilando all'indirizzo della piccola, che continua a singhiozzare.

Martin ricomincia ad accarezzare la bambina che piange, ma i buffetti affettuosi sulla schiena di lei si tramutano ben presto in colpi piÙ forti, ed egli va avanti a tempestare di pugni la povera piccola, a dispetto delle sue grida'.

Questo scontro, cosÌ turbolento, testimonia come i maltrattamenti - in particolare l'essere ripetutamente percossi secondo il capriccio di un genitore - distorcano la naturale inclinazione all'empatia tipica del bambino (11). La risposta bizzarra e quasi brutale di Martin al disagio della sua compagna di gioco È tipica dei bambini come lui, che sono stati essi stessi vittime di percosse e altri maltrattamenti fin dalla piÙ tenera etÀ. La risposta È in nettissimo contrasto con i tentativi di consolare i compagni, dettati dalla simpatia, che solitamente si osservano nei bambini piccoli e dei quali abbiamo parlato nel capitolo 7. E' probabile che la risposta violenta di Martin rispecchi fedelmente gli insegnamenti che egli ha ricevuto in famiglia per quanto riguarda lacrime e angoscia: la prima risposta al pianto È un gesto di consolazione offerto in modo perentorio; se le lacrime non si fermano, perÒ, si passa alle occhiatacce e alle grida, per arrivare infine ai ceffoni e alle vere e proprie percosse. Fatto forse piÙ negativo, Martin sembra giÀ mancare del tipo piÙ primitivo di empatia, l'istinto di interrompere l'aggressione contro qualcuno che sta male. A due anni e mezzo egli mostra, in germe, gli impulsi morali di un bruto sadico e crudele.

Lo squallore morale mostrato da Martin in luogo dell'empatia È tipico di altri bambini come lui, che portano giÀ, alla loro tenera etÀ, le cicatrici di gravi maltrattamenti, fisici e psicologici, inferti loro in famiglia. Martin faceva parte di un gruppo di nove di questi bambini, di etÀ compresa fra uno e tre anni, tenuti in osservazione per un periodo di due ore presso l'asilo nido. I bambini maltrattati venivano confrontati con altri nove piccini che frequentavano il nido e che, provenendo anch'essi da ambienti familiari meschini e caratterizzati da alta tensione, non venivano perÃ’ maltrattati fisicamente. Il modo in cui i bambini appartenenti ai due gruppi reagivano quando un loro compagno si faceva male o era turbato era completamente diverso. Nel corso di ventitré di tali episodi, cinque bambini su nove, nel gruppo di quelli non maltrattati, risposero alla sofferenza di un compagno mostrando preoccupazione, tristezza o empatia. Ma nei ventisette casi in cui i bambini maltrattati avrebbero potuto fare altrettanto, nessuno di loro mostrÃ’ la minima preoccupazione; piuttosto, essi reagirono al pianto del loro coetaneo con espressioni di paura, con la collera o, come Martin, con l'attacco fisico.



Una bambina maltrattata, ad esempio, assunse un'espressione feroce di minaccia verso un'altra che era scoppiata a piangere. Thomas, un bambino di un anno, che faceva parte anche lui del gruppo dei piccoli maltrattati, restÃ’ paralizzato dal terrore quando sentÃŒ un bambino che piangeva nella stanza; sedette completamente immobile, la paura dipinta sul volto, la schiena rigida e dritta, sempre piÙ teso via via che il pianto continuava - come se stesse affrontando lui stesso un attacco. Kate, di ventotto mesi, anch'essa maltrattata, era quasi sadica: cercando di attaccar briga con Joey, un bambino piÙ piccolo, lo fece inciampare col piede e mentre quello era sul pavimento lungo disteso, lo guardÃ’ teneramente e cominciÃ’ a carezzarlo con dolcezza sulla schiena - ma le carezze si fecero via via piÙ intense fino a diventar percosse sempre piÙ violente, nella piÙ completa indifferenza per la sofferenza di Joey. Kate continuÃ’ a farlo cadere per poi chinarsi su di lui a picchiarlo altre sei o sette volte, finché il bimbetto non decise di andarsene via carponi.

Questi bambini maltrattati, naturalmente, trattano gli altri come sono stati trattati essi stessi. La loro durezza È semplicemente una versione piÙ estrema di quella osservata nei bambini con genitori troppo critici, minacciosi e severi nelle loro punizioni. Essi hanno anche la tendenza a non preoccuparsi quando i loro compagni di gioco si fanno male o piangono; sembrano rappresentare l'estremo di un continuum di freddezza che ha il suo picco nella brutalitÀ dei bambini maltrattati. Nella vita, questi soggetti hanno, come gruppo, una maggiore probabilitÀ di avere difficoltÀ cognitive nell'apprendimento, di essere aggressivi e di non incontrare le simpatie dei loro coetanei (il che non dovrebbe meravigliare, se la durezza che mostrano ai tempi dell'asilo È un segno premonitore del loro carattere futuro); questi soggetti sono anche piÙ vulnerabili alla depressione, e, da adulti, hanno maggiori probabilitÀ di avere problemi con la legge e di commettere crimini violenti (12).

A volte, per non dire spesso, questa mancanza di empatia si ripresenta da una generazione all'altra, in una catena nella quale genitori brutali sono stati essi stessi, da bambini, brutalizzati dai propri genitori (13). Questa situazione È in netto contrasto con l'empatia solitamente mostrata dai bambini di genitori che educano i propri figli incoraggiandoli a mostrare preoccupazione per il prossimo e a comprendere come la loro meschinitÀ possa far star male gli altri. Non avendo ricevuto tali insegnamenti sull'empatia, i bambini maltrattati sembrano non apprenderla affatto.

Il dato forse piÙ negativo riguardo ai bambini maltrattati È la grande precocitÀ con cui imparano a comportarsi come vere e proprie copie in miniatura dei genitori violenti. Data la loro dieta quotidiana a base di percosse, gli insegnamenti emozionali che possono trarne sono fin troppo chiari. Il lettore ricorderÀ che È proprio nei momenti in cui le passioni sono piÙ intense o quando una crisi incombe su di noi, che le inclinazioni primitive dei centri del sistema limbico assumono un ruolo preponderante. In quei momenti, le inclinazioni che il cervello emozionale ha ripetutamente appreso diventeranno, nel bene o nel male, dominanti.

L'osservazione di come lo stesso cervello venga plasmato dalla brutalitÀ - o dall'amore - indica che l'infanzia rappresenta un'occasione importante da cogliere per impartire ai bambini gli insegnamenti emozionali. I bambini maltrattati sono stati nutriti fin dalla piÙ tenera etÀ, e con grande costanza, con una dieta a base di traumi. Forse il modello piÙ istruttivo per comprendere l'insegnamento emozionale impartito a questi piccini sta nel constatare come il trauma possa lasciare un segno duraturo sul cervello - e come anche queste cicatrici possano essere curate.

13. EMOZIONI E SUPERAMENTO DEI TRAUMI.

Quando i suoi figli - rispettivamente di sei, nove e undici anni le chiesero di comprar loro un A.K.-47 giocattolo, Som Chit, una rifugiata cambogiana, rifiutÃ’ di accontentarli. Le armi giocattolo servivano per fare un gioco chiamato “Purdy” con gli altri bambini della scuola. In questo gioco, Purdy, il cattivo, usa un fucile mitragliatore per massacrare un gruppo di bambini, poi lo rivolge contro se stesso. A volte, perÃ’, i bambini modificano il finale: sono loro a uccidere Purdy.

“Purdy” era la macabra messa in scena, effettuata da alcuni dei sopravvissuti, dei catastrofici eventi che ebbero luogo il 17 febbraio 1989, alla Cleveland Elementary School di Stockton, in California. Nella tarda mattinata, durante la ricreazione dei bambini delle prime, seconde e terze classi, Patrick Purdy - che circa vent'anni prima aveva frequentato la stessa scuola - si appostÃ’ al margine del campo giochi e, una raffica dopo l'altra, fece fuoco sparando proiettili da 7.22 millimetri sulle centinaia di bambini intenti al gioco. Per sette minuti Purdy seminÃ’ proiettili sul campo giochi, poi si puntÃ’ una pistola alla testa e sparÃ’. Quando arrivÃ’ la polizia, a terra c'erano cinque bambini morenti e ventinove feriti.

Nei mesi successivi, “Purdy” fece spontaneamente la sua comparsa nei giochi degli alunni, maschi e femmine, della Cleveland Elementary: un segno - uno dei molti - che quei sette minuti, e le loro conseguenze, erano rimasti impressi nella loro memoria come un marchio a fuoco. Quando visitai la scuola, non molto distante dalla zona dove ero cresciuto io stesso, nei dintorni della University of the Pacific, erano passati cinque mesi da quando Purdy aveva trasformato quella ricreazione in un incubo. La sua presenza era ancora palpabile, anche se le tracce piÙ orrende della sparatoria - fori di proiettili a sciami, pozze di sangue, brandelli di carne, pelle e capelli - erano giÀ stati fatti sparire la mattina stessa del fatto, e tutto era stato lavato e riverniciato.

Ma le ferite piÙ profonde, alla Cleveland Elementary, non erano certo quelle inferte all'edificio, bensÌ quelle aperte nella psiche dei bambini e dei dipendenti dell'istituto - che stavano tutti cercando di riprendere la loro vita normale (1). CiÒ che colpiva di piÙ, forse, era il modo in cui qualsiasi dettaglio avesse anche la minima somiglianza con un particolare di quel giorno, riuscisse a ravvivare il ricordo di quei pochi istanti. Ad esempio, un'insegnante mi raccontÒ di come un'onda di terrore pervase la scolaresca all'annuncio che il giorno di Saint Patrick era imminente; alcuni bambini si erano fatta in qualche modo l'idea che la giornata fosse in onore del killer - Patrick Purdy, appunto.

“Ogni volta che sentiamo un'ambulanza correre a sirene spiegate diretta alla casa di riposo in fondo alla strada, tutto si blocca” mi spiegÃ’ un'altra insegnante. “I bambini tendono l'orecchio per capire se si fermerÀ qui da noi, o proseguirÀ.” Per diverse settimane molti bambini erano terrorizzati dagli specchi dei bagni; nella scuola correva la voce che vi si annidasse in agguato la “Bloody Virgin Mary”, una sorta di mostro fantastico. A distanza di settimane dalla sparatoria, una bambina si precipitÃ’ di corsa, come impazzita, dalla direttrice della scuola, Pat Busher, gridando: “Sento degli spari! Sento degli spari!”. Il suono era quello di una catena che dondolava e sbatteva contro un palo.

Molti bambini divennero ipervigilanti, come se stessero continuamente in guardia, aspettandosi una replica della tragedia; alcuni alunni, durante la ricreazione, gironzolavano nei pressi della porta della classe, senza osare avventurarsi all'aria aperta, nel campo giochi dove aveva avuto luogo il massacro. Altri giocavano solo in piccoli gruppi, assegnando a qualcuno il ruolo di sentinella. Per mesi, molti bambini continuarono a evitare le aree “maledette” dove erano morti i loro compagni.

I ricordi sopravvissero anche nella forma di sogni importuni, che si insinuavano nella mente dei bambini quando, dormendo, abbassavano la guardia. Oltre ad avere incubi che in qualche modo ripetevano la scena della sparatoria, i bambini erano travolti da sogni angosciosi dai quali emergevano con il terrore che la loro morte fosse imminente. Alcuni bambini cercarono di dormire con gli occhi aperti per sfuggire ai sogni.

Tutte queste reazioni sono ben note agli psichiatri, in quanto rappresentano i sintomi fondamentali del disturbo da stress posttraumatico, o P.T.S.D. Al centro del problema, spiega Spencer Eth, uno psichiatria specializzato nella cura di bambini con P.T.S.D., È il “ricordo, invadente e molesto, dell'azione violenta: il colpo finale, sferrato con un pugno; un coltello che affonda; il bagliore di un'arma da fuoco. I ricordi sono esperienze percettive intense - la vista, il suono e l'odore pungente dello sparo; le urla o l'improvviso silenzio della vittima; gli spruzzi di sangue; le sirene della polizia”.

Oggi i neuroscienziati affermano che questi momenti cosÌ intensi e terrificanti diventano ricordi incastonati nei circuiti del cervello emozionale. I sintomi del P.T.S.D., in effetti, tradiscono un'iperattivitÀ dell'amigdala che incalza questi intensi ricordi del trauma costringendoli a varcare la soglia della consapevolezza. In quanto tale, il ricordo del trauma diventa un sensibilissimo meccanismo scatenante una sorta di grilletto neurale - pronto a far scattare un allarme al minimo indizio dell'imminente ripresentarsi dell'evento tanto paventato. Questo fenomeno È caratteristico di tutti i traumi emotivi, compresi quelli derivanti dai ripetuti maltrattamenti fisici durante l'infanzia.

Ogni evento traumatizzante puÃ’ imprimere nell'amigdala questi ricordi innescanti: puÃ’ trattarsi di un incendio o di un incidente automobilistico, di una catastrofe naturale come un terremoto o un uragano, di una violenza o un'aggressione. Ogni anno, centinaia di migliaia di persone si trovano a dover sopportare tali disastri, e molte di esse, forse la maggior parte, ne escono con ferite psicologiche che lasciano il segno sul loro cervello.

Gli atti violenti sono piÙ pericolosi di catastrofi naturali come un uragano, perché, a differenza delle vittime di un disastro naturale, quelle della violenza umana sentono di essere state prescelte come bersaglio di un intenzionale atto malvagio. Questa sensazione manda in frantumi tutti gli assunti sulla fidatezza delle persone e sulla sicurezza delle relazioni interpersonali, assunti che le catastrofi naturali lasciano invece intatti. Nel giro di un istante, il mondo, inteso come luogo sociale, diventa pericoloso, popolato com'È di persone che rappresentano potenziali minacce alla sicurezza.

La memoria delle vittime della crudeltÀ umana resta in qualche modo segnata ed esse considerano con paura qualunque elemento ricordi loro anche solo vagamente l'assalto subito. Un tale che era stato colpito alla nuca, e non aveva mai visto in faccia il suo aggressore, era talmente spaventato che cercava di camminare sempre davanti a un'anziana signora, in modo da sentirsi sicuro di non essere colpito di nuovo (2). Una donna, precedentemente aggredita da un uomo che, salito con lei su un ascensore, l'aveva costretta a scendere a un piano disabitato dell'edificio, per settimane continuÒ a sprofondare nel terrore non solo quando doveva salire su un ascensore, ma anche se si recava in metropolitana o in qualunque altro spazio chiuso dove avrebbe potuto sentirsi in trappola; un giorno, in banca, vide un uomo infilarsi la mano nella giacca come aveva fatto il suo aggressore, e scappÒ via.

Uno studio condotto sui sopravvissuti all'Olocausto ha messo in evidenza che i segni lasciati nella memoria dall'orrore, e l'ipervigilanza che ne deriva, possono durare una vita intera. A distanza di quasi cinquant'anni dai tempi in cui avevano patito la fame e assistito al macello dei loro cari vivendo nel costante terrore dei campi di concentramento nazisti, i ricordi tormentosi di questi sopravvissuti erano ancora ben vivi nella loro memoria. Un terzo di essi disse di sentirsi in genere pauroso. Quasi tre quarti raccontarono di cadere ancora preda dell'ansia in presenza di qualcosa che ricordasse loro le persecuzioni naziste, ad esempio alla vista di un'uniforme, al suono di un colpo battuto alla porta, all'abbaiare dei cani o alla vista del fumo che si leva da un camino. Circa il 60 per cento di questi soggetti disse di pensare all'Olocausto quasi tutti i giorni, anche a distanza di mezzo secolo; fra coloro che mostravano sintomi attivi, circa otto su dieci soffrivano ancora di ripetuti incubi notturni. Come disse un sopravvissuto: “Se sei stato ad Auschwitz e non hai incubi, allora non sei normale”.

- L'orrore cristallizzato nella memoria.

Ecco le parole di un veterano del Vietnam, oggi quarantottenne, circa ventiquattro anni dopo aver vissuto un momento spaventoso in una terra lontana:

'Non riesco a levarmi questi ricordi dalla mente! Le immagini tornano come un'onda, vivide, richiamate dalle cose piÙ irrilevanti, come lo sbattere di una porta, la vista di una donna dai tratti orientali, la sensazione che si prova a toccare una stuoia di bambÙ, o il profumo del maiale fritto. Ieri notte sono andato a letto, e tanto per cambiare mi stavo facendo una bella dormita. Poi, nelle prime ore del mattino, passÒ da queste parti il fronte di una burrasca e fu tutto un fragore di tuoni. Mi svegliai immediatamente, raggelato dalla paura. Ecco, sono di nuovo in Vietnam, nel bel mezzo della stagione dei monsoni, al mio posto di guardia. Sono sicuro che alla prossima scarica mi colpiranno e sono convinto che morirÒ. Ho le mani gelate, e tutto il corpo fradicio di sudore. Sento drizzarmisi ogni pelo sul collo. Non riesco a prendere fiato, e il cuore mi batte forte. Sento il mio odore - un tanfo di zolfo bagnato. All'improvviso vedo quel che resta del mio amico Troy su un piatto di bambÙ, rispeditoci al campo dai Vietcong Il bagliore del lampo e il fragore del tuono successivo mi fanno sobbalzare al punto che cado dal letto' (3).

Questo ricordo orribile, intenso e particolareggiato nonostante risalga a piÙ di vent'anni prima, ha ancora il potere di scatenare nell'ex soldato la stessa paura provata quel giorno fatidico. Il P.T.S.D. comporta un pericoloso abbassamento della soglia neurale che fa scattare l'allarme; l'individuo reagisce quindi ai normali eventi della vita come se si trattasse di emergenze. Il circuito responsabile del “sequestro” neurale, discusso nel capitolo 2, sembra avere un ruolo fondamentale nell'imprimere questo marchio a fuoco nella memoria; quanto piÙ gli eventi che scatenano il “sequestro” da parte dell'amigdala sono orrendi, brutali e scioccanti, tanto piÙ indelebile È il loro ricordo. La base neurale di questi ricordi sembra risiedere in un'estesa alterazione nella chimica del cervello, messa in moto da un'unica esperienza di insostenibile terrore (4). Sebbene il P.T.S.D. insorga solitamente a causa dell'impatto di un singolo episodio, risultati simili possono aversi anche in seguito a crudeltÀ inflitte nell'arco di anni, come avviene nel caso dei bambini maltrattati o violentati dal punto di vista fisico, sessuale o psicologico.

Lo studio piÙ dettagliato su queste modificazioni a livello cerebrale È quello in corso presso il National Center for Post-Traumatic Stress Disorder, che coordina una serie di centri di ricerca con sede presso gli ospedali della Veterans' Administration; in questi luoghi sono ospitati molti veterani del Vietnam e di altre guerre sofferenti di P.T.S.D. E' proprio a studi su veterani come questi che dobbiamo gran parte delle nostre conoscenze sul disturbo da stress posttraumatico. Le conoscenze cosÌ acquisite, tuttavia, si applicano anche ai bambini vittime di gravi traumi psicologici, ad esempio quelli della Cleveland Elementary.

“Le vittime di traumi devastanti non saranno mai piÙ le stesse dal punto di vista biologico” mi disse Dennis Charney (5). Psichiatra di Yale, Charney È primario di neuroscienze cliniche al National Center. “Non importa se il trauma sia stato il terrore incessante del combattimento, della tortura, o i ripetuti maltrattamenti patiti durante l'infanzia, o ancora l'esperienza di un singolo evento, come l'essere intrappolati da un uragano o scampare alla morte per miracolo in un incidente d'auto. Tutti gli stress incontrollabili hanno lo stesso impatto biologico.”

La parola chiave, qui, È proprio 'incontrollabile'. Se in una situazione catastrofica un individuo pensa di poter far qualcosa, di poter esercitare un certo controllo, non importa se limitato, sta psicologicamente meglio di chi si sente del tutto impotente. E' l'impotenza che ci fa sentire 'soggettivamente' sopraffatti da un particolare evento. Come mi disse John Krystal, direttore del Laboratory of Clinical Psychopharmacology del National Center, “immaginiamo che una persona aggredita con un coltello sappia come difendersi e reagisca, mentre un'altra, nella stessa difficile situazione, pensi 'sono spacciato'. L'individuo che si sente impotente È quello piÙ vulnerabile al P.T.S.D. Il cervello comincia ad alterarsi proprio nel momento in cui hai la sensazione che la tua vita sia in pericolo e sai 'che non puoi far nulla per salvarti'“.

Il fatto che la sensazione di essere impotenti sia una sorta di jolly che scatena il P.T.S.D. È stato dimostrato nel corso di decine di studi effettuati su coppie di ratti; gli animali venivano alloggiati ciascuno in una gabbia diversa, dove ognuno di essi subiva un'identica scarica elettrica: una stimolazione leggera, ma molto stressante per l'animale. In ogni coppia, solo uno dei due ratti aveva, nella gabbia, una leva; spingendola, l'animale poteva bloccare la somministrazione dello shock a se stesso e al partner. Con il passare dei giorni e delle settimane, entrambi i ratti ricevevano esattamente lo stesso numero di scariche elettriche. Ma il ratto che aveva la possibilitÀ di evitare lo shock usciva dall'esperimento senza mostrare segni permanenti di stress, che comparivano solo nell'animale messo in condizioni di impotenza (6). Per un bambino fatto bersaglio di una sparatoria durante l'ora di ricreazione, la vista dei compagni sanguinanti e morenti - o nel caso di un insegnante, l'impossibilitÀ di metter fine al massacro - questa sensazione di impotenza deve essere stata palpabile.

- Il P.T.S.D. come disturbo del sistema limbico.

Erano passati quattro mesi da quando un violento terremoto l'aveva scaraventata giÙ dal letto urlante di paura a cercare il suo bambino di quattro anni nella casa immersa nel buio. Stettero per ore nel freddo della notte di Los Angeles, stipati insieme ad altra gente al riparo di un portone, inchiodati lÌ senza cibo, acqua o luce mentre le scosse di assestamento, una dopo l'altra, scuotevano la terra sotto i loro piedi. Ora, mesi dopo, la donna si era in gran parte ripresa dalla tendenza agli attacchi di panico che l'avevano tenuta in scacco i primi giorni dopo la catastrofe, quando bastava lo sbattere di una porta per farla rabbrividire di paura. Il solo sintomo restio a scomparire era l'insonnia, un problema che la tormentava solo nelle notti in cui il marito era fuori casa - proprio come la notte del terremoto.

I principali sintomi di questa paura appresa - compresi quelli piÙ intensi, ossia il P.T.S.D. - si spiegano considerando le alterazioni che hanno luogo nei circuiti del sistema limbico concentrati in modo particolare nell'amigdala (7). Alcune delle alterazioni piÙ importanti hanno luogo nel locus ceruleus, una struttura che regola la secrezione cerebrale delle 'catecolamine', ossia dell'adrenalina e della noradrenalina. Questi due neurotrasmettitori mobilitano l'organismo preparandolo all'emergenza; queste stesse sostanze fanno sÌ che i ricordi si imprimano nella memoria con particolare intensitÀ. Nei pazienti con P.T.S.D. questo sistema diventa iperreattivo, secernendo dosi eccezionalmente elevate di catecolamine in risposta a situazioni che in realtÀ comportano minacce insignificanti - o addirittura inesistenti - ma che in qualche modo ricordano il trauma originale; questo era proprio ciÒ che accadeva quando i bambini della Cleveland Elementary School cadevano in preda al panico al suono della sirena di un'ambulanza simile a quelle che avevano udito subito dopo la sparatoria.

Il locus ceruleus e l'amigdala sono in stretto collegamento fra loro e con altre strutture del sistema limbico, come l'ippocampo e l'ipotalamo; i circuiti catecolaminergici si estendono poi nella corteccia. Si ritiene che alla base dei sintomi del P.T.S.D. - che comprendono ansia, paura, ipervigilanza, inclinazione al turbamento e a uno stato di attivazione, prontezza al combattimento o alla fuga e l'indelebile memoria di intensi ricordi carichi di emotivitÀ - ci siano alcune alterazioni di questi circuiti (8). In uno studio È stato scoperto che i veterani del Vietnam affetti da P.T.S.D. avevano una quantitÀ di recettori bloccanti le catecolamine (alfa-2) inferiore del 40 per cento rispetto a uomini che non presentavano i sintomi del P.T.S.D.; ciÒ indicava che il cervello dei soggetti con P.T.S.D. era andato incontro ad alterazioni permanenti caratterizzate da uno scarso controllo sulla secrezione di catecolamine (9).

Altre modificazioni hanno luogo nel circuito che collega il sistema limbico alla ghiandola pituitaria, una struttura che regola la liberazione del C.R.F., ossia del principale ormone dello stress secreto dall'organismo per innescare la risposta di combattimento o fuga. Le alterazioni della pituitaria portano a un'ipersecrezione di questo ormone - soprattutto nell'amigdala, nell'ippocampo e nel locus ceruleus che mette l'organismo in uno stato di allerta scatenato da un'emergenza che in realtÀ non esiste (10).

Come mi disse Charles Nemeroff, uno psichiatra della Duke University, “troppo C.R.F. ti rende iperreattivo. Ad esempio, se sei un veterano del Vietnam con P.T.S.D. e nel parcheggio di un centro commerciale vedi un'auto andare a fuoco, È l'innesco della secrezione del C.R.F. che ti inonda con gli stessi sentimenti che provasti al momento del trauma originale: cominci a sudare, sei terrorizzato, tremi e rabbrividisci, forse hai dei flashback. Le persone con ipersecrezione di C.R.F. hanno un'eccessiva tendenza a trasalire. Ad esempio, se ti nascondi dietro a qualcuno e all'improvviso batti le mani, la prima volta vedrai sussultare l'altro per la sorpresa; questo non accadrÀ piÙ, perÃ’, alla terza o alla quarta ripetizione. Ma le persone con livelli troppo alti di C.R.F. non si abituano: rispondono al quarto stimolo esattamente come hanno reagito al primo” (11).

Una terza serie di alterazioni avviene a livello del sistema degli oppiacei, ossia nelle strutture che secernono le endorfine per attutire la sensazione del dolore: anch'esso diventa iperreattivo. L'amigdala partecipa anche a questo circuito neurale, stavolta insieme a una regione della corteccia cerebrale. Gli oppiacei sono sostanze chimiche che generano torpore, proprio come l'oppio e gli altri narcotici chimicamente affini. Quando l'individuo ha un elevato livello di oppiacei (“la morfina del cervello”) presenta un'aumentata tolleranza al dolore, un effetto riscontrato dai chirurghi che operavano sui campi di battaglia, che notarono come i soldati con ferite gravissime avessero bisogno di dosi di anestetici inferiori rispetto a quelle necessarie per i civili con ferite molto meno gravi.

Qualcosa di simile sembra accadere nei pazienti con P.T.S.D. (12). Le alterazioni dei livelli di endorfine aggiungono una nuova dimensione al cocktail neurale scatenato dalla riesposizione al trauma, e cioÈ l''ottundimento' di certi sentimenti. Questo sembra spiegare una serie di sintomi psicologici “negativi” da lungo tempo osservati nel P.T.S.D.: l'anedonia (ossia l'incapacitÀ di provare piacere), un generale torpore emozionale, la sensazione di essere tagliati fuori dalla vita e di non provare interesse per i sentimenti degli altri. Chi sta vicino a questi pazienti puÃ’ sperimentare la loro indifferenza come una mancanza di empatia. Un altro effetto possibile puÃ’ essere la dissociazione, compresa l'incapacitÀ di ricordare fasi cruciali dell'evento traumatico, della durata di minuti, ore o perfino giorni.

Le alterazioni neurali che hanno luogo nel P.T.S.D. sembrano anche rendere l'individuo piÙ suscettibile a ulteriori traumi. Numerosi studi effettuati sull'animale hanno messo in evidenza che quando essi venivano esposti a stress anche 'leggeri' da giovani, diventavano molto piÙ vulnerabili, rispetto agli animali di controllo, alle alterazioni cerebrali indotte dai traumi (il che indica la necessitÀ urgente di curare i bambini affetti da P.T.S.D.). Questo sembra spiegare anche come mai una persona sviluppi il P.T.S.D. e un'altra no, pur essendo entrambe esposte alla stessa catastrofe: l'amigdala, infatti, È programmata per individuare il pericolo, e quando gli eventi della vita la mettono nuovamente di fronte a un rischio reale, il suo allarme suona piÙ forte.

Tutte queste alterazioni neurali offrono vantaggi a breve termine per affrontare le emergenze atroci e spietate che ne sono la causa. Nelle situazioni difficili, essere altamente vigilanti, attivati, disposti a tutto, resistenti al dolore, con il corpo pronto a sforzi fisici prolungati e - per il momento - indifferente a quelli che in altre circostanze potrebbero rappresentare eventi notevolmente spiacevoli, ha un evidente valore adattativo. Questi vantaggi immediati, perÃ’, sul lungo termine possono diventare veri e propri problemi se il cervello si altera al punto da fare di essi delle predisposizioni - come una macchina con il cambio perennemente bloccato in quarta. Quando, nel corso di un evento intensamente traumatico, l'amigdala e le regioni del cervello ad essa connesse vengono per cosÃŒ dire ritarate, questa alterazione dell'eccitabilitÀ - questo potenziamento della tendenza a scatenare “sequestri” neurali - comporta che tutta la vita sia sempre sull'orlo dell'emergenza, e che anche un evento neutrale possa scatenare un'esplosione di terrore.

- Ri-apprendere reazioni emotive normali.

Questi ricordi traumatici sembrano restare radicati nella funzione cerebrale, in quanto interferiscono con il successivo apprendimento - anzi, piÙ precisamente, con il ri-apprendimento di una risposta piÙ normale agli eventi traumatizzanti. Quando la paura È acquisita, come accade nel P.T.S.D., i meccanismi dell'apprendimento e della memoria si sono inceppati; anche in questo caso, È l'amigdala, fra tutte le regioni cerebrali coinvolte, ad avere un ruolo fondamentale. Per vincere la paura acquisita, perÒ, È fondamentale la neocorteccia.

'Condizionamento della paura': questa È l'espressione che gli psicologi usano per indicare il processo grazie al quale una cosa assolutamente innocua finisce per essere temuta in quanto viene associata, nella mente del soggetto, a qualcosa di spaventoso. Quando queste paure vengono indotte negli animali di laboratorio, osserva Charney, possono durare per anni (13). Nel cervello, la struttura chiave che apprende, memorizza e mette in atto queste risposte di paura È il circuito che connette il talamo, l'amigdala e il lobo prefrontale - quello stesso circuito responsabile dei “sequestri” neurali.

Di solito, quando si impara a temere qualcosa attraverso il condizionamento, la paura con il tempo svanisce. Questo fenomeno sembra dovuto a un ri-apprendimento naturale, che ha luogo quando il soggetto si ri-imbatte nell'oggetto temuto, in assenza di alcunché di veramente spaventoso. Ad esempio, una bambina che abbia acquisito la paura dei cani perché inseguita da un pastore tedesco ringhiante, a poco a poco e spontaneamente si libererÀ di quella paura se, ad esempio, il suo vicino di casa possiede un cane affettuoso e la bimba passa il suo tempo a giocare con lui.

Nel P.T.S.D. questo ri-apprendimento spontaneo non ha luogo. Charney ipotizza che ciÃ’ sia dovuto al fatto che le alterazioni cerebrali tipiche del P.T.S.D. sono talmente forti che l'amigdala puÃ’ scatenare un “sequestro” ogni qualvolta si presenti qualcosa di anche solo vagamente simile al trauma originale, rafforzando cosÃŒ la via neurale della paura. Questo significa che l'oggetto della paura non viene mai associato a un sentimento di calma - l'amigdala non ri-apprende piÙ una reazione smorzata. “L'estinzione” della paura, osserva Charney, “sembra implicare un processo di apprendimento attivo” che negli individui con P.T.S.D. È compromesso, il che “porta cosÃŒ all'anormale persistenza dei ricordi carichi di valenze emotive” (14).

Ma se si offrono all'individuo le esperienze giuste, anche il P.T.S.D. puÒ allentare la sua morsa; con il tempo, gli intensi ricordi emozionali, e i pensieri e le reazioni che essi scatenano, 'possono' modificarsi. Questo ri-apprendimento, ipotizza Charney, È di natura corticale. La paura originale, che ha messo profonde radici nell'amigdala, non sparisce mai del tutto; piuttosto, la corteccia prefrontale sopprime attivamente i segnali che l'amigdala invia al resto del cervello per innescare la risposta di paura.

“Il vero problema È: quanto ci vuole per liberarsi della paura appresa?” si chiede Richard Davidson, lo psicologo della Wisconsin University che scoprÃŒ il ruolo della corteccia prefrontale sinistra come ammortizzatore della sofferenza. In un esperimento di laboratorio, i soggetti apprendevano un'avversione nei confronti di un forte rumore; questa reazione serviva da modello della paura appresa e come parallelo in chiave minore del P.T.S.D.; Davidson scoprÃŒ che gli individui con una maggiore attivitÀ a livello della corteccia prefrontale sinistra superavano piÙ velocemente questa paura acquisita, il che suggeriva ancora una volta che la corteccia avesse una funzione nel liberare l'individuo dalla sofferenza appresa (15).

- Rieducare i circuiti delle emozioni.

Una delle scoperte piÙ incoraggianti sul P.T.S.D. È emersa da uno studio compiuto sui sopravvissuti all'Olocausto, in circa tre quarti dei quali, a distanza di mezzo secolo, vennero riscontrati sintomi attivi di P.T.S.D. La scoperta positiva fu che un quarto dei sopravvissuti, un tempo tormentati da tali sintomi, ora non ne avevano piÙ; in qualche modo, gli eventi naturali della vita avevano antagonizzato il problema. Gli individui che ancora presentavano i sintomi mostravano le tipiche alterazioni del sistema catecolaminergico che si riscontrano nel P.T.S.D. - ma quelli che si erano ripresi non presentavano modificazioni di sorta (16). Questa scoperta, e altre come questa, lasciano intendere che le alterazioni cerebrali caratteristiche del P.T.S.D. non siano irreversibili e che gli individui possano riprendersi anche dal piÙ tremendo 'imprinting' emotivo - in breve, indicano la possibilitÀ di rieducare i circuiti neurali che elaborano le emozioni. Il dato confortante, dunque, È che anche traumi profondi come quelli che causano il P.T.S.D. possono guarire e che la via che porta a tale guarigione passa attraverso il riapprendimento.



Almeno nei bambini, una delle vie che portano a questo risanamento psicologico spontaneo passa proprio attraverso giochi come “Purdy” che, ripetuti molte volte, consentono di rivivere il trauma in modo sicuro - come un gioco, appunto. Questo apre due vie alla guarigione: da un lato, il ricordo si ripete in un contesto caratterizzato da un basso livello di ansia, tale da portare a una desensibilizzazione e da permettere l'associazione con risposte non traumatizzate. Un'altra via per la guarigione È quella che consente ai bambini, almeno nella loro mente, come per magia, di dare alla tragedia un altro finale, migliore: a volte, giocando a “Purdy”, i bambini lo uccidono, il che aumenta il loro senso di padronanza su quel traumatico momento di impotenza.

Giochi come “Purdy” sono prevedibili nei bambini piÙ piccoli che abbiano sperimentato atti di violenza cosÃŒ tremendi. Nei bambini traumatizzati, questi giochi macabri vennero notati per la prima volta da Lenore Terr, una psichiatra infantile di San Francisco (17). Ella li osservÃ’ nei bambini di Chowchilla (California) - cittadina della Central Valley a poco piÙ di un'ora da Stockton, teatro dello scempio di Purdy - che nel 1973 furono rapiti su un autobus che li riportava a casa da una giornata passata al campeggio estivo. I rapitori nascosero l'autobus seppellendolo con i bambini e tutto il resto, in quello che fu un tormento durato ventisette ore.

Cinque anni dopo, Terr scoprÃŒ che le vittime, nei loro giochi, mettevano ancora in scena il rapimento. Le bambine, ad esempio, facevano giochi in cui le loro Barbie erano vittime di rapimenti simbolici. Una bambina era rimasta particolarmente nauseata dalla sensazione, sulla propria pelle, dell'urina dei suoi compagni di sventura, terrorizzati e ammassati insieme a lei durante il rapimento; in seguito, continuava a lavare e rilavare la sua Barbie. Un'altra piccola giocava a “Traveling Barbie”; in questo gioco Barbie va da qualche parte - non importa dove - e ritorna sana e salva, il che È ciÃ’ che veramente conta. Il gioco preferito di un'altra bambina si svolgeva in uno scenario in cui la bambola restava bloccata in una buca e soffocava.

Mentre gli adulti che hanno attraversato traumi tremendi possono andare incontro a un intorpidimento psichico, nel quale escludono ricordi o sentimenti relativi alla catastrofe, la psiche dei bambini spesso gestisce il trauma in modo diverso. Poiché si servono della fantasia, del gioco e dei sogni a occhi aperti per richiamare e ripercorrere mentalmente i propri tormenti, secondo Terr i bambini diventano insensibili al trauma meno spesso degli adulti. Questo rimettere volontariamente in scena il trauma sembra bloccare la necessitÀ di arginarlo sotto forma di ricordi vividissimi che piÙ tardi possono esplodere come flashback. Se il trauma È di entitÀ minore, come quello di andare dal dentista per farsi otturare una carie, potrÀ bastare rimetterlo in scena una o due volte. Ma se si tratta di un trauma spaventoso, il bambino dovrÀ ripeterlo infinite volte, seguendo un rituale tetro e monotono.

Un modo per arrivare alla scena rimasta congelata nell'amigdala È attraverso l'arte, che di per se stessa È un mezzo dell'inconscio. Il cervello emozionale È in sintonia con i significati simbolici e con la modalitÀ che Freud chiamava il “processo primario” - in altre parole, con i messaggi della metafora, della storia, del mito, dell'arte. Spesso, per trattare i bambini traumatizzati, si ricorre a questa via. A volte l'arte puÃ’ consentire ai bambini di parlare di un momento di orrore al quale non oserebbero accennare altrimenti.

Spencer Eth, lo psichiatra infantile di Los Angeles che È specializzato nel trattare questi casi, racconta di un bambino di cinque anni che era stato rapito insieme alla madre dall'ex amante di lei. L'uomo li portÒ nella stanza di un motel, dove ordinÒ al bambino di nascondersi sotto una coperta mentre egli batteva a morte la madre. Comprensibilmente, il piccolo era riluttante a parlare con Eth del massacro che aveva visto e udito da sotto la coperta. PerciÒ Eth gli chiese di fare un disegno - un disegno qualunque.

Il disegno rappresentava un pilota di un'auto da corsa con un paio di occhi enormi. Eth ritiene che essi facessero riferimento all'audacia del bambino mentre sbirciava il killer da sotto la coperta. Nella produzione artistica dei bambini traumatizzati non mancano quasi mai questi riferimenti nascosti alla scena traumatica; quando ha a che fare con bambini come questi, la prima mossa di Eth sta proprio nell'esortarli a fare un disegno. I ricordi prepotenti che assillano il bambino si insinuano nella sua produzione artistica proprio come nei suoi pensieri. Al di lÀ di questo, l'atto stesso del disegnare È terapeutico, in quanto dÀ inizio al processo nel corso del quale il bambino arriva a dominare il trauma.

- Ri-apprendimento e guarigione.

'Irene si era recata a un appuntamento che era finito in un tentativo di violenza carnale. Sebbene ella si fosse liberata dell'aggressore difendendosi, quello continuava a tormentarla: la molestava con telefonate oscene, la minacciava di violenza, la chiamava nel mezzo della notte, la pedinava e osservava ogni sua mossa. Una volta, quando cercÃ’ di farsi aiutare dalla polizia, questa donna sentÃŒ liquidare il suo problema come una cosa banale, dal momento che “in realtÀ non era accaduto nulla”. Quando iniziÃ’ la terapia, Irene aveva ormai i sintomi del P.T.S.D., aveva rinunciato completamente alla vita sociale e si sentiva prigioniera in casa sua'.

Il caso di Irene viene citato da Judith Lewis Herman, una psichiatra di Harvard la cui ricerca pionieristica ha indicato i passaggi principali nella guarigione da un trauma. Herman riconosce tre stadi: la conquista di un senso di sicurezza, il ricordo dei dettagli del trauma e il dolore per la perdita che esso ha comportato, e infine il ripristino di una vita normale. Nella sequenza di questi stadi, come vedremo, c'È una logica biologica: essa sembra riflettere il modo in cui il cervello emozionale ri-apprende che la vita non deve essere considerata come un'emergenza incombente.

Il primo passo, che si traduce nel riacquisire il senso di sicurezza, presumibilmente consiste nel trovare il modo di calmare i circuiti neurali generalmente iperreattivi e troppo inclini alla paura, al punto da consentire loro di ri-apprendere reazioni piÙ normali (18). Per ottenere questo, spesso si comincia aiutando i pazienti a comprendere che la loro eccitabilitÀ e i loro incubi notturni, l'ipervigilanza e il panico, sono parte dei sintomi del P.T.S.D. - una consapevolezza che basta a rendere quegli stessi sintomi meno spaventosi. Un altro passo iniziale È quello di aiutare i pazienti a riacquistare un certo senso di controllo sugli eventi della vita, ossia a dimenticare la lezione di impotenza che il trauma aveva impartito loro. Irene, ad esempio, mobilitÃ’ i propri amici e i propri familiari affinché costruissero un cordone di isolamento fra lei e il suo pedinatore, e riuscÃŒ a ottenere l'intervento della polizia.

L'“insicurezza” dei pazienti di P.T.S.D. va ben oltre la paura che il pericolo sia in agguato intorno a loro; essa ha origini piÙ intime, nella sensazione di non avere alcun controllo su quello che sta accadendo al proprio corpo e alle proprie emozioni. Questo È comprensibile, dato che ipersensibilizzando i circuiti dell'amigdala, il P.T.S.D. crea un sensibile meccanismo di innesco dei “sequestri” neurali.

Il trattamento farmacologico rappresenta uno dei modi per ripristinare nei pazienti la convinzione che non sia affatto inevitabile essere alla mercé degli allarmi neurali che li “inondano” con un'ansia inesplicabile, li tengono insonni, o popolano il loro sonno di incubi. I farmacologi sperano un giorno di confezionare farmaci su misura in grado di colpire con precisione gli effetti del P.T.S.D. sull'amigdala e sui circuiti neurali ad essa collegati. Per adesso, tuttavia, ci sono farmaci che antagonizzano solo alcune di tali alterazioni: in particolare, gli antidepressivi agiscono sul sistema serotoninergico, e i beta-bloccanti come il propanololo bloccano l'attivazione del sistema nervoso simpatico. I pazienti possono anche apprendere tecniche di rilassamento con le quali opporsi efficacemente alla tensione e al nervosismo. L'ottenimento di uno stato di calma fisiologica consente ai circuiti emozionali traumatizzati di riscoprire che la vita non È una minaccia e permette ai pazienti di riacquisire parte della sicurezza che avevano prima del trauma.

Nella guarigione, il passo successivo comporta poi il ri-raccontare e il ri-costruire la storia del trauma al riparo della sicurezza appena riacquisita, permettendo ai circuiti neurali che elaborano le emozioni di comprendere il ricordo del trauma e di reagire ad esso e ai fattori che lo scatenano in modo nuovo e piÙ realistico. Quando i pazienti raccontano gli orribili dettagli del trauma, il ricordo comincia a trasformarsi, sia nel suo significato psicologico che nei suoi effetti sul cervello emozionale. Il ritmo di questo ri-raccontare È una questione delicata; in linea teorica, esso imita quello naturale che si osserva negli individui in grado di riprendersi da soli dal trauma senza andare incontro al P.T.S.D. In questi casi sembra spesso esserci una sorta di orologio interno che fa rivivere il trauma all'individuo “somministrandogli” i ricordi tormentosi, intervallandoli con periodi di settimane o mesi durante i quali essi non hanno praticamente ricordo alcuno dei terribili eventi traumatici (19).

Questa alternanza di immersioni e di tregue sembra permettere una riconsiderazione spontanea del trauma e un ri-apprendimento della reazione emozionale ad esso. Nel caso dei pazienti con P.T.S.D. piÙ grave, secondo Herman, ri-raccontare la storia del trauma puÒ a volte scatenare paure sconvolgenti; in tal caso il terapeuta dovrebbe allentare il ritmo in modo da mantenere le reazioni del paziente in un ambito sopportabile, che non abbiano un effetto distruttivo sul ri-apprendimento.

Il terapeuta incoraggia il paziente a ri-raccontare gli eventi traumatici nel modo piÙ intenso possibile, come in un film dell'orrore, ricordando tutti i dettagli sordidi. CiÒ comporta non solo la narrazione, nei particolari, di ciÒ che i pazienti hanno visto, udito, odorato e sentito, ma anche le loro reazioni: il terrore, il disgusto, la nausea. L'obiettivo qui È di trasporre l'intero ricordo in parole, catturando cioÈ le parti eventualmente dissociate e pertanto assenti dal ricordo cosciente. Esprimendo a parole sentimenti e sensazioni fisiche, probabilmente i ricordi vengono riportati sotto il controllo della neocorteccia, dove le reazioni che essi scatenano possono essere piÙ comprensibili e pertanto piÙ facilmente gestibili. A questo punto, il ri-apprendimento emozionale viene effettuato in larga misura rivivendo gli eventi e le emozioni ad essi legate, ma stavolta in un ambiente sicuro, in compagnia del terapeuta di fiducia. In questo modo si comincia a insegnare qualcosa di significativo ai circuiti emozionali - e cioÈ che insieme al ricordo del trauma È possibile sperimentare una sensazione di sicurezza, e non solo terrore senza pace.

Il bambino di cinque anni che, dopo aver assistito all'orrendo assassinio della propria madre, aveva disegnato gli occhi giganteschi, non fece altri disegni dopo quel primo; egli fece invece dei giochi con il suo terapeuta, Spencer Eth, creando cosÃŒ un legame con lui. Solo lentamente, poi, il piccolo cominciÃ’ a ri-raccontare la storia dell'omicidio, dal principio in modo stereotipato, recitando ogni particolare sempre esattamente nello stesso modo. Gradualmente, perÃ’, la sua narrazione divenne piÙ aperta e libera, e mentre raccontava il suo corpo era meno teso. Allo stesso tempo gli incubi notturni, nei quali rivedeva la scena, si presentarono meno spesso - un'indicazione, secondo Eth, di un certo “controllo del trauma”. Gradualmente i discorsi del bambino e del terapeuta si spostarono dalle paure lasciate in lui dal trauma, per soffermarsi di piÙ sugli eventi della vita quotidiana, dopo che si era trasferito in una nuova casa con il padre. E infine, via via che la morsa del trauma si allentava, il piccolo fu in grado di parlare solo della sua vita quotidiana.

Infine, Herman pensa che i pazienti debbano esprimere il proprio dolore per la perdita che il trauma ha comportato - si tratti di una ferita, della morte di una persona cara, della rottura di una relazione, del rimorso per non aver fatto qualcosa per salvare qualcuno, o anche solo dell'infrangersi della convinzione che gli altri meritino la nostra fiducia. Il dolore che segue il racconto degli eventi dolorosi ha una funzione cruciale: segna la capacitÀ di lasciar fuoriuscire, in una certa misura, il trauma. Significa che invece di essere costantemente prigionieri di quel tragico momento del passato, i pazienti possono cominciare a guardare avanti, perfino a sperare e a ricostruirsi una nuova vita, libera dalla morsa del trauma. E' come se, per i circuiti emozionali, il costante riciclare e rivivere il terrore del trauma fosse un incantesimo che infine puÃ’ essere infranto. Non È necessario che il suono di ogni sirena ci travolga con un'ondata di paura; né che il minimo rumore nella notte scateni un flashback di terrore.

Spesso, le conseguenze del trauma o un'occasionale ricorrenza dei sintomi persistono, afferma Herman; tuttavia, ci sono prove specifiche del fatto che esso, in larga misura, È stato superato. Questi segni comprendono la riduzione dei sintomi fisiologici a un livello accettabile e la capacitÀ di sopportare i sentimenti legati al ricordo. Soprattutto, È significativo che i ricordi del trauma non erompano piÙ in momenti incontrollabili: l'individuo È adesso in grado di rivisitarli e - cosa forse piÙ importante - di metterli da parte volontariamente, proprio come accade per tutti gli altri ricordi. Infine, ciÒ implica il dare spazio a una nuova vita, con relazioni forti e fidate e un sistema di convinzioni capace di trovare significati anche in un mondo in cui possono accadere grandi ingiustizie (20). Tutte queste non sono che testimonianze del successo nella rieducazione del cervello emozionale.

- La psicoterapia come guida.

Fortunatamente, nel corso della vita di ciascuno di noi, i momenti catastrofici nei quali i ricordi traumatici vengono impressi nella psiche sono rari. Tuttavia, gli stessi circuiti che fissano cosÌ marcatamente i ricordi traumatici sono presumibilmente all'opera anche nei momenti piÙ tranquilli della vita. Le sofferenze piÙ comuni dell'infanzia, ad esempio l'essere costantemente ignorati e deprivati dell'attenzione o della tenerezza da parte di un genitore, l'abbandono o la perdita, o ancora l'essere respinti socialmente, possono non raggiungere mai il livello del trauma, ma sicuramente lasciano il segno sul cervello emozionale, creando distorsioni - lacrime e collera - nelle successive relazioni intime dell'individuo. Se È possibile guarire il P.T.S.D., altrettanto si puÒ dire delle cicatrici psicologiche meno appariscenti che moltissimi di noi si portano dentro; questo È proprio il compito della psicoterapia. In generale, l'intelligenza emotiva entra in gioco proprio nel momento in cui si deve apprendere a gestire abilmente queste reazioni cariche di valenze psicologiche.

L'interazione dinamica fra l'amigdala da una parte e le reazioni piÙ completamente informate della corteccia prefrontale dall'altra puÃ’ offrirci un modello neuroanatomico per spiegare in che modo la psicoterapia riplasmi modelli emotivi radicati ma ormai privi di valore adattativo. Come ipotizza Joseph LeDoux, il neuroscienziato che ha scoperto il ruolo chiave dell'amigdala come sensibile sistema di innesco nelle esplosioni emotive: “Una volta che il tuo sistema emozionale impara qualcosa, sembra che non la dimentichi piÙ. Quel che la terapia riesce a insegnarti È come controllarlo - insegna alla neocorteccia come inibire l'amigdala. L'inclinazione all'atto viene cosÃŒ soppressa, mentre l'emozione fondamentale rimane in forma attenuata”.

Data l'architettura cerebrale alla base del ri-apprendimento emozionale, quel che sembra restare, anche dopo una psicoterapia coronata dal successo, È una reazione vestigiale, un residuo della sensibilitÀ o della paura originale alla base di una problematica reattivitÀ emotiva (21). La corteccia prefrontale puÒ perfezionare gli impulsi provenienti dall'amigdala oppure frenarli, ma non puÒ impedirle di reagire. PerciÒ, sebbene non possiamo decidere quando avere un'esplosione emozionale, possiamo controllare meglio la sua durata. Un tempo di ripresa piÙ breve, dopo tali esplosioni, puÒ essere un segno di maturitÀ emotiva.

Nel corso della terapia, nel complesso, ciÒ che sembra cambiare sono le risposte dell'individuo una volta che È stata scatenata una reazione emotiva - tuttavia, la tendenza ad avere una reazione immediata non scompare completamente. Le prove di ciÒ provengono da una serie di studi di psicoterapia condotti da Lester Luboorsky e colleghi presso l'UniversitÀ della Pennsylvania. Essi analizzarono i principali conflitti di relazione che portavano decine di pazienti a ricorrere alla psicoterapia - problemi come il desiderio profondo di essere accettati o di trovare intimitÀ, o la paura di fallire, o di essere eccessivamente dipendenti. Essi quindi analizzarono attentamente le tipiche risposte (sempre autofrustranti) che i pazienti presentavano quando tali desideri e paure venivano attivati nelle loro relazioni - ad esempio, l'essere troppo esigenti, che crea una sfavorevole reazione di irritazione o freddezza nell'altra persona; oppure l'arroccarsi sulla difensiva anticipando una mancanza di premura da parte dell'altro, a sua volta offeso dall'apparente rifiuto. Durante queste sfortunate interazioni, i pazienti, comprensibilmente, si sentivano in preda a sentimenti negativi - mancanza di speranza e tristezza, risentimento e collera, tensione e paura, senso di colpa e autoaccusa, e cosÌ via. Quale che fosse il particolare modello di ciascun paziente, esso sembrava ripresentarsi nella maggior parte delle sue relazioni importanti: con il coniuge o con l'amante, con un figlio o un genitore, o ancora con i colleghi e i superiori nell'ambiente di lavoro.

Nel corso di una terapia a lungo termine, tuttavia, questi pazienti andavano incontro a due tipi di cambiamenti: la loro reazione emotiva agli eventi scatenanti diveniva meno dolorosa, facendosi addirittura calma o confusa, e le loro risposte esplicite diventavano sempre piÙ efficaci nel far loro ottenere ciÒ che realmente desideravano dalla relazione. Quello che non cambiava, tuttavia, era il loro desiderio o la loro paura di base, e il dolore iniziale. Quando ai pazienti rimanevano ormai poche sedute di terapia, le interazioni delle quali parlavano, dimostravano che essi avevano ormai solo la metÀ delle reazioni negative che esibivano quando avevano appena cominciato la cura, e avevano una probabilitÀ doppia di ottenere dall'altro la risposta positiva che desideravano profondamente. Ma quello che non cambiava affatto era la particolare sensibilitÀ alla base di tali esigenze.

In termini cerebrali, possiamo ipotizzare che il sistema limbico continui a inviare segnali di allarme in risposta alle avvisaglie di un evento temuto, mentre la corteccia prefrontale e le zone ad essa collegate hanno appreso una risposta nuova, piÙ sana. In breve, le reazioni emotive apprese - anche quelle piÙ radicate perché acquisite durante l'infanzia - possono essere riplasmate. Questo tipo di apprendimento dura tutta la vita.

14. IL TEMPERAMENTO NON E' DESTINO.

Abbiamo dunque visto quanto sia difficile alterare le reazioni emotive apprese. Ma che dire di quelle risposte scolpite nel nostro patrimonio genetico - che dire, ad esempio, sulla possibilitÀ di modificare le reazioni abituali di chi per sua natura È molto incostante o spaventosamente timido? Queste sfumature emotive fanno parte del temperamento - un rumore di fondo tipico del nostro carattere. Possiamo definire il temperamento in termini di stati d'animo che caratterizzano la vita emotiva. In una certa misura, ciascuno di noi dispone di una gamma di sfumature emotive preferita; il temperamento È un tratto innato - un elemento di quella sorta di roulette genetica che ha un impatto cosÃŒ irresistibile sulla nostra vita. Ogni genitore sa benissimo che, fin dalla nascita, un bambino puÃ’ essere calmo e placido, o irritabile e difficile. Il problema, qui, È quello di stabilire se questa configurazione emotiva determinata dalla biologia possa essere modificata dall'esperienza. Ma allora, per quanto riguarda la vita emotiva, la nostra biologia ci impone un destino, oppure anche un bambino per natura timido crescendo puÃ’ diventare un adulto piÙ sicuro di sé?

La risposta piÙ chiara a questa domanda proviene dal lavoro di Jerome Kagan, l'insigne studioso di psicologia infantile della Harvard University (1). Kagan postula che esistano almeno quattro tipi fondamentali di temperamento - quello timido, quello spavaldo, quello allegro e quello malinconico - e che ciascuno di essi sia riconducibile a un diverso tipo di attivitÀ cerebrale. Probabilmente, esistono infinite differenze nel temperamento di ognuno di noi, ciascuna a sua volta basata su differenze innate nei circuiti emozionali; gli individui possono differire per la facilitÀ con la quale ogni data emozione viene scatenata, per la sua durata e per l'intensitÀ che puÒ raggiungere. Il lavoro di Kagan si concentra su una di queste dimensioni del temperamento, e precisamente su quella che va dalla spavalderia alla timidezza.

Per decenni alcune madri hanno portato i propri bambini - piccini di pochi mesi o che sapevano al massimo muovere qualche passo - al Laboratory for Child Development di Kagan, situato al quattordicesimo piano della William James Hall di Harvard, dove essi prendevano parte agli studi dello psicologo sullo sviluppo del bambino. Fu lÀ che Kagan e i suoi colleghi ricercatori osservarono i primi segni di timidezza in un gruppo di bambini di ventun mesi portati per l'osservazione sperimentale. Nel gioco libero con i coetanei, alcuni bambini erano effervescenti e spontanei, e giocavano con gli altri senza la minima esitazione. Altri, invece, erano incerti e titubanti, esitavano aggrappati alle madri, e se ne stavano tranquilli a osservare gli altri giocare. Quasi quattro anni dopo, il gruppo di Kagan rintracciÒ e osservÒ nuovamente questi stessi bambini, che ormai si preparavano a fare il loro ingresso a scuola. In quei quattro anni intercorsi dalla prima osservazione, nessun bambino estroverso era diventato timido, mentre due terzi dei soggetti timidi mostravano ancora un comportamento reticente.

Kagan ritiene che i bambini eccessivamente sensibili e timorosi diventino adulti timidi e paurosi; per usare una sua espressione, alla nascita, circa il 15-20 per cento dei bambini È “inibito dal punto di vista comportamentale”. Nei primi mesi di vita, questi bambini sono intimiditi da tutto quanto non gli È familiare. CiÃ’ li rende schizzinosi e recalcitranti quando assaggiano cibi nuovi, riluttanti ad avvicinarsi ad animali mai visti o a entrare in luoghi sconosciuti, e timidi con gli estranei. Tutto questo si traduce anche in un altro tipo di sensibilitÀ: questi bambini sono inclini ai sensi di colpa e ai rimorsi. Si tratta di soggetti che diventano cosÃŒ ansiosi nelle situazioni sociali da rimanere come paralizzati; questo accade in classe, al campo giochi o quando incontrano nuove persone - insomma, ogni qualvolta si sentano sotto il riflettore. Da adulti, questi soggetti hanno la tendenza a diventar tipi da tappezzeria, e hanno una paura morbosa di dover tenere un discorso in pubblico o di esibirsi in altro modo.

Tom, uno dei bambini che avevano partecipato allo studio di Kagan, era il classico tipo timido. Ogni volta che venne osservato durante l'infanzia - e precisamente a due, cinque e sette anni - venne classificato fra i bambini piÙ timidi. Quando fu intervistato a tredici anni, Tom era teso e rigido, si mordeva le labbra e si torceva le mani, con la faccia impassibile che si apriva appena in un sorriso solo quando parlava della “fidanzata”; le sue risposte erano brevi, i modi sottomessi (2). Tom ricordava di essere stato spaventosamente timido fino all'etÀ di undici anni - ad esempio cominciava a sudare ogni volta che doveva avvicinare i compagni di gioco. Era anche tormentato da grandi paure: temeva che la sua casa fosse rasa al suolo da un incendio, o di doversi tuffare in piscina o, ancora, di restare da solo al buio. Nei suoi frequenti incubi notturni era attaccato da mostri. Sebbene negli ultimi due anni avesse cominciato a sentirsi un po' meno timido, era ancora ansioso nelle relazioni con altri bambini, e le sue preoccupazioni erano adesso incentrate sul profitto scolastico, nonostante rientrasse nel 5 per cento dei migliori allievi della classe. Figlio di uno scienziato, Tom riteneva attraente una carriera in quel campo, perché la relativa solitudine dello studioso si confaceva alla sua innata introversione.

Ralph, al contrario, era stato a tutte le etÀ uno dei bambini piÙ spavaldi ed estroversi. Sempre rilassato e loquace, a tredici anni sedeva appoggiandosi allo schienale e mettendosi a proprio agio sulla sedia, senza mostrare manierismi imputabili al nervosismo, e parlava con fare fiducioso e amichevole come se l'intervistatore fosse stato un suo coetaneo - c'era in realtÀ una differenza di venticinque anni. Durante l'infanzia egli aveva avuto solo due paure, quella dei cani e quella del volo, entrambe di breve durata; la prima era comparsa dopo che un grosso cane gli era saltato addosso quando aveva tre anni, e la seconda quando sentÌ, all'etÀ di sette anni, i resoconti di alcuni disastri aerei. Socievole e simpatico agli altri, Ralph non aveva mai pensato a se stesso come a un tipo timido.

I bambini timidi sembrano venire al mondo con un circuito neurale che li rende iperreattivi perfino nei confronti degli stress leggeri - fin dalla nascita, in risposta a situazioni strane o nuove, il loro cuore batte piÙ velocemente di quello degli altri bambini. A ventun mesi, quando i bambini reticenti esitavano a buttarsi nel gioco, la loro frequenza cardiaca tradiva un cuore troppo frettoloso, incalzato dall'ansia. Quest'ultima, che veniva suscitata tanto facilmente, sembrava essere alla base della loro timidezza per tutta la vita: essi trattavano ogni persona o situazione nuova come una potenziale minaccia. Forse per questo, quando le si confronta con coetanee piÙ estroverse, le donne di mezza etÀ che ricordano di essere state particolarmente timide da bambine, tendono ad avere una vita piÙ fittamente costellata di paure, preoccupazioni e sensi di colpa, e a soffrire di piÙ per problemi legati allo stress, quali i mal di testa emicranici, il colon irritabile, e altri disturbi di interesse gastroenterico (3).

- La neurochimica della timidezza.

Secondo Kagan, la differenza fra Tom il prudente e Ralph lo spavaldo, sta nell'eccitabilitÀ di un circuito neurale che ha come centro l'amigdala. Egli ipotizza che persone come Tom, tanto soggette alla paura, siano nate con una neurochimica che rende facilmente attivabile il circuito corrispondente; ciÒ li porta a evitare quanto È poco familiare, a ritrarsi intimiditi dalle situazioni incerte e a soffrire d'ansia. Coloro che, come Ralph, hanno un sistema nervoso calibrato in modo che la soglia per il risveglio dell'amigdala sia molto piÙ alta, si spaventano meno facilmente, sono per loro natura piÙ estroversi e desiderosi di esplorare nuovi luoghi e di conoscere nuove persone.

Un indizio precoce, che permette di capire a quale dei due modelli - Tom o Ralph - assomigli un bambino, È la misura del suo nervosismo e della sua irritabilitÀ a pochi mesi di vita, come pure il disagio che prova di fronte a qualcosa o qualcuno non familiare. Mentre circa un bambino su cinque È compreso nella categoria dei timidi, due su cinque - per lo meno alla nascita - hanno un temperamento spavaldo.

Parte dei dati di Kagan provengono da osservazioni compiute su gatti insolitamente timidi. Nei gatti domestici, circa un animale su sette presenta questo stile timoroso, simile a quello dei bambini timidi: essi si ritraggono dalle novitÀ (invece di mostrare la proverbiale curiositÀ dei felini) e sono riluttanti a esplorare nuovi territori. Non solo: questi gatti timidi attaccano solo i roditori piÙ piccoli, essendo troppo paurosi per prendersela con quelli piÙ grossi, che i loro colleghi piÙ coraggiosi inseguirebbero ben volentieri. L'esame del cervello di questi gatti timidi ha dimostrato la presenza di porzioni dell'amigdala insolitamente eccitabili, soprattutto quando, ad esempio, odono l'urlo minaccioso emesso da un altro gatto.

La timidezza dei gatti si sviluppa intorno a un mese di etÀ, e cioÈ quando l'amigdala raggiunge un livello di maturazione sufficiente per controllare i circuiti cerebrali responsabili di comportamenti quali l'affrontare o l'evitare determinate situazioni. Nella maturazione del cervello del gattino, un mese equivale a otto nella specie umana; ed È proprio a otto-nove mesi, osserva Kagan, che nei bambini fa la sua comparsa la paura dell'“estraneo”; ad esempio, se la mamma lascia la stanza ed È presente uno sconosciuto, il piccolo scoppia in lacrime. I bambini timidi, ipotizza Kagan, hanno probabilmente ereditato livelli cronicamente elevati di noradrenalina o di altri neurotrasmettitori cerebrali che attivano l'amigdala e che - facilitandone l'innesco - creano pertanto una bassa soglia di eccitabilitÀ.

Un segno di questa aumentata sensibilitÀ si osserva, ad esempio quando soggetti giovani di entrambi i sessi, tutti molto timidi da bambini, vengono monitorati in laboratorio mentre sono esposti a stress particolari, come un odore sgradevole; in tali condizioni la loro frequenza cardiaca resta elevata piÙ a lungo di quanto si osserva invece nei coetanei piÙ estroversi - un segno del fatto che la noradrenalina eccita l'amigdala e, attraverso i circuiti neurali connessi, mantiene il sistema nervoso simpatico in uno stato di attivazione (4). Kagan ha scoperto che il maggior livello di reattivitÀ dei bambini timidi emerge da tutti i parametri del sistema nervoso simpatico; questi soggetti presentano ad esempio un valore superiore della pressione ematica a riposo, una maggiore dilatazione delle pupille, e concentrazioni urinarie superiori dei marker della noradrenalina.



Il silenzio È un altro metro della timidezza. Ogni volta che il gruppo di Kagan osservava i bambini - timidi o spavaldi che fossero - in un ambiente naturale (ad esempio all'asilo, con altri bambini che non conoscevano o a colloquio con un intervistatore) i tipi timidi erano quelli che parlavano meno. Se interpellato da un compagno, a cinque anni un bambino timido taceva e passava la maggior parte della giornata semplicemente guardando gli altri giocare. Kagan ipotizza che un timido silenzio di fronte alla novitÀ o alla percezione di una minaccia segnali l'attivitÀ di un circuito neurale che collega il proencefalo, l'amigdala e le strutture del sistema limbico che controllano la vocalizzazione (questo stesso circuito È quello che ci fa “restare senza fiato” quando siamo sotto stress).

Quando frequenteranno la sesta o la settima classe, questi bambini sensibili saranno soggetti ad alto rischio per disturbi legati all'ansia, come gli attacchi di panico. In uno studio su 754 bambini di entrambi i sessi che frequentavano quelle classi, emerse che 44 di essi avevano giÀ avuto un episodio di panico, o almeno dei sintomi preliminari. Questi episodi d'ansia erano solitamente scatenati dai comuni allarmi della prima adolescenza, ad esempio dal primo appuntamento, o da un esame importante - tutte situazioni che la maggior parte dei bambini gestisce senza andare incontro a problemi piÙ seri. Ma gli adolescenti timidi per natura e insolitamente spaventati per una nuova situazione mostravano i sintomi del panico (ad esempio palpitazioni cardiache, respiro corto, una sensazione di soffocamento, e il presagio che gli stesse per accadere qualcosa di orribile, come impazzire o morire). Sebbene gli episodi non fossero abbastanza significativi per formulare la diagnosi psichiatrica di “disturbo da panico”, i ricercatori ritenevano che essi segnalassero tuttavia come questi giovanissimi fossero soggetti da ritenersi ad alto rischio negli anni successivi; molti adulti che soffrono di attacchi di panico affermano che essi cominciarono a presentarsi all'inizio dell'adolescenza (5).

L'insorgere degli attacchi d'ansia era strettamente legata alla pubertÀ. Le bambine con scarsi segni di pubertÀ non avevano tali attacchi, ma l'8 per cento di quelle che ne avevano giÀ varcata la soglia affermÒ di averli sperimentati. Una volta avuto un primo attacco, esse tendevano a sviluppare quel terrore anticipatorio che spinge chi soffre di questi disturbi a ritrarsi dalla vita.

- Nulla mi turba: il temperamento allegro.

Quando era giovane, negli anni Venti, mia zia June lasciÃ’ la sua casa di Kansas City e si avventurÃ’ a Shangai - un viaggio pericoloso, in quegli anni, per una donna sola. In quel centro internazionale di traffici e intrighi, zia June incontrÃ’ e sposÃ’ un detective inglese della polizia coloniale. Quando i giapponesi presero Shangai, al principio della seconda guerra mondiale, mia zia e suo marito vennero internati in un campo di prigionia - lo stesso descritto nel libro 'L'impero del sole' e nel film che ne fu tratto. Dopo essere sopravvissuti a cinque anni spaventosi nel campo di prigionia, lei e il marito avevano, letteralmente, perso tutto. Senza un penny, vennero rimpatriati nella Columbia Britannica.

Ricordo, da bambino, quando incontrai per la prima volta zia June, un'esuberante donna anziana la cui vita aveva avuto un corso eccezionale. Negli ultimi anni della sua vita, ebbe un ictus che la lasciÃ’ in parte paralizzata; dopo una convalescenza lunga e difficile, riacquisÃŒ la capacitÀ di camminare, sebbene zoppicando. In quegli anni, ricordo di essere andato a fare una passeggiata con zia June, che allora era sulla settantina. In qualche modo, ella si staccÃ’ dal gruppo e dopo diversi minuti sentii un lamento flebile - era lei, che essendo caduta e non riuscendo a rialzarsi da sola, chiedeva aiuto. Mi precipitai ad aiutarla e quando lo feci, invece di lamentarsi o di compiangersi, June rise della sua difficile condizione. Il suo solo commento fu un allegro “Beh, almeno riesco ancora a camminare!”.

Per natura, le emozioni di alcune persone, come nel caso di mia zia, sembrano gravitare verso il polo positivo; queste persone sono spontaneamente allegre e bonarie, mentre le altre sono cupe e malinconiche. Questa dimensione del temperamento - l'esuberanza a un estremo e la malinconia all'altro - sembra essere legata al rapporto fra l'attivitÀ delle aree prefrontali destra e sinistra, i centri superiori del cervello emozionale. Questa intuizione È emersa in larga misura dalle ricerche di Richard Davidson, uno psicologo della University of Wisconsin. Egli scoprÃŒ che le persone con una maggiore attivitÀ del lobo frontale sinistro sono allegre per temperamento; esse solitamente traggono piacere dal contatto umano e da ciÃ’ che la vita offre loro, e si riprendono dai rovesci proprio come fece mia zia June. Gli individui con un'attivitÀ maggiore a livello del lobo frontale destro, invece, sono propensi alla negativitÀ e all'umor nero, e vengono facilmente turbati dalle difficoltÀ della vita; in un certo senso, le loro sofferenze sembrano dovute all'impossibilitÀ di “spegnere” i circuiti delle preoccupazioni e della depressione.

In uno degli esperimenti di Davidson, i volontari con l'attivitÀ piÙ pronunciata a livello delle aree frontali sinistre vennero confrontati con quindici soggetti che presentavano una maggiore attivitÀ a destra. Questi ultimi, se sottoposti a un test sulla personalitÀ, presentavano alcuni tratti negativi ben definiti: erano i classici tipi messi in caricatura dai personaggi di Woody Allen - l'allarmista che vede la catastrofe anche nelle inezie, soggetto a paure e a instabilitÀ di umore, sospettoso nei confronti di un mondo ritenuto pieno di difficoltÀ schiaccianti e pericoli in agguato. In netto contrasto con le loro controparti malinconiche, gli individui con un'attivitÀ frontale piÙ intensa a sinistra, vedevano il mondo in modo molto diverso. Socievoli e allegri, avevano una grande fiducia in se stessi, e si sentivano coinvolti nella vita in maniera gratificante. I loro punteggi nei test psicologici suggerivano un minor rischio di depressione e altri disturbi emozionali.

Rispetto a chi non era mai stato depresso, gli individui con una storia di depressione clinica, scoprÌ Davidson, presentavano un livello di attivitÀ rispettivamente inferiore nel lobo frontale sinistro, e superiore a destra. Egli scoprÌ la stessa situazione in pazienti ai quali era stata appena diagnosticata la depressione. Davidson ipotizza che gli individui che superano la depressione abbiano imparato ad aumentare il livello di attivitÀ nel lobo prefrontale sinistro, un'ipotesi che È in attesa di conferma sperimentale.

Sebbene la ricerca di Davidson riguardi quel 30 per cento o pressappoco di individui che si trovano agli estremi del continuum, in pratica chiunque puÃ’ essere classificato come piÙ tendente verso l'uno o l'altro tipo, in base alle proprie onde cerebrali. Il contrasto fra il temperamento del tipo “musone” e di quello allegro si manifesta in molti modi, piÙ o meno appariscenti. Ad esempio, in un esperimento i volontari guardavano dei brevi filmati. Alcuni erano divertenti - un gorilla che faceva il bagno, un cucciolo che giocava. Altri, come un film didattico per infermiere che mostrava spaventosi dettagli della chirurgia, erano assolutamente sconvolgenti. I tipi tristi con prevalenza dell'attivitÀ nell'emisfero destro, trovavano il filmato allegro appena divertente, mentre provavano paura e disgusto estremi alla vista del sangue nel documentario sull'operazione chirurgica. Il gruppo caratterizzato dal temperamento allegro presentava invece reazioni minime al filmato didattico: le reazioni piÙ forti di questi soggetti erano quelle di piacere alla vista dei filmati allegri.

Sembra pertanto che il temperamento ci spinga a rispondere alla vita esibendo un registro emozionale negativo o positivo. La tendenza a un temperamento malinconico o allegro - come anche verso la timidezza o la spavalderia - emerge nell'arco del primo anno di vita, il che indica in modo convincente la possibilitÀ che anch'esso sia determinato geneticamente. Come la maggior parte del cervello, nei primi mesi di vita i lobi frontali stanno ancora maturando e pertanto la loro attivitÀ non puÃ’ essere misurata in modo attendibile fino a circa dieci mesi. Tuttavia, in bambini tanto piccoli, Davidson trovÃ’ che il livello di attivitÀ dei lobi frontali consentiva di prevedere se essi avrebbero pianto nel caso in cui la loro madre avesse lasciato la stanza. La correlazione era pressoché del 100 per cento: su decine di bambini sottoposti al test, tutti quelli che piangevano presentavano una maggiore attivitÀ cerebrale sul lato destro, mentre tutti quelli che non piangevano avevano un emisfero sinistro piÙ attivo.

CiÒ nondimeno, quand'anche questa dimensione fondamentale del temperamento venisse stabilita fin dalla nascita, o subito dopo, non È detto che chi si ritrova, per cosÌ dire, con la configurazione malinconica sia condannato a vivere immerso nei pensieri tristi e in uno stato di irritabilitÀ. Gli insegnamenti emozionali impartiti durante l'infanzia possono avere un impatto profondo sul temperamento, amplificando o mettendo a tacere una predisposizione innata. La grande plasticitÀ del cervello durante l'infanzia implica che le esperienze fatte durante quegli anni possano avere un impatto duraturo sulla formazione delle vie neurali. Forse, la migliore spiegazione del tipo di esperienze che possono modificare il temperamento in senso positivo È un'osservazione emersa nella ricerca di Kagan sui bambini timidi.

- Calmare un'amigdala ipereccitabile.

L'incoraggiante conclusione prospettata dagli studi di Kagan È che non tutti i bambini pieni di paure crescano esitando e ritraendosi di fronte alla vita - in altre parole, il temperamento non È destino. Con le esperienze adatte, È possibile calmare un'amigdala ipereccitabile. CiÒ che fa davvero la differenza sono le risposte emotive che i bambini apprendono mentre crescono. Per il bambino timido, ciÒ che conta, al principio, È il modo in cui viene trattato dai genitori, e quindi il modo in cui impara a gestire la propria naturale timidezza. I genitori che escogitano per i propri figli graduali esperienze incoraggianti offrono loro quello che puÒ considerarsi un duraturo rimedio per le loro paure.

Un anno prima di fare il suo ingresso alla scuola dell'obbligo, circa un bambino su tre, fra quelli venuti al mondo con tutti i segni di un'amigdala ipereccitabile, si È ormai liberato della propria timidezza (7). Osservando questi soggetti un tempo paurosi nel loro ambiente domestico, È chiaro che i genitori, e soprattutto le madri, hanno un ruolo fondamentale nel determinare se un bambino per natura timido con il tempo diventerÀ piÙ spavaldo o continuerÀ ad esitare ritraendosi dalle novitÀ e turbandosi di fronte agli stimoli. Il gruppo di ricerca di Kagan ha scoperto che alcune madri credevano di dover proteggere i propri bambini timidi da qualunque cosa potesse turbarli; altre, invece, pensavano che fosse piÙ importante aiutare il figlio, incline alla timidezza, a imparare a far fronte a questi momenti difficili, e quindi ad adattarsi alle piccole lotte della vita. La convinzione protettiva sembrava favorire le paure dei bambini, probabilmente privandoli dell'opportunitÀ di imparare a superare i propri timori. La filosofia dell'“imparare ad adattarsi”, invece, sembrava aiutare i bambini paurosi a farsi coraggio.

Le osservazioni compiute nelle case quando i bambini avevano circa sei mesi di etÀ misero in evidenza che le madri protettive, cercando di tranquillizzare i propri piccini, li prendevano in braccio quando erano nervosi o piangevano, tenendoli piÙ a lungo di quanto facessero le madri che cercavano di aiutare i figli a superare da sé i momenti difficili. Il rapporto fra le volte che i bambini venivano tenuti in braccio mentre erano calmi e mentre erano turbati dimostrava che le madri protettive li tenevano in braccio molto piÙ a lungo quando erano turbati.

Un'altra differenza emerse quando i piccini raggiunsero circa un anno di etÀ: se i bambini facevano qualcosa di potenzialmente pericoloso, ad esempio si mettevano in bocca un oggetto che avrebbero potuto ingoiare, le madri protettive erano piÙ indulgenti e indirette nello stabilire i limiti. Le altre madri, invece, erano enfatiche, stabilivano limiti fermi, davano comandi diretti e bloccavano le azioni del bambino insistendo per essere obbedite.

Perché mai la fermezza dovrebbe portare a una riduzione della paura? Kagan ipotizza che quando un bambino vede interrompere la propria marcia carponi verso un oggetto interessante (ma potenzialmente pericoloso) dall'ammonimento della madre - “Via di lÃŒ!” - impara una lezione, essendo improvvisamente costretto a far fronte a una leggera incertezza. La ripetizione di questa situazione per centinaia e centinaia di volte nel corso del primo anno di vita permette al bambino di ripassare continuamente l'impatto con l'inatteso, prendendolo a piccole dosi. Questo È proprio il tipo di esperienza che i bambini paurosi devono imparare a dominare, e gli assaggi a piccole dosi sono l'ideale per assimilare la lezione. Quando l'incontro del bambino con l'incertezza avviene sotto la guida di genitori che, per quanto affettuosi, non si precipitano a prendere in braccio il figlio e a consolarlo a ogni minimo turbamento, il bambino gradualmente impara a controllare da sé queste situazioni. All'etÀ di due anni, quando questi bambini un tempo paurosi venivano riportati al laboratorio di Kagan, era molto meno probabile che scoppiassero in lacrime quando un estraneo li guardava aggrottando le sopracciglia, o se uno sperimentatore si accingeva a misurar loro la pressione.

Secondo Kagan, allora, “sembra che le madri che proteggono i loro bambini altamente reattivi dalla frustrazione e dall'ansia nella speranza di ottenere un buon risultato in realtÀ esacerbino l'incertezza del bambino e producano l'effetto contrario” (8). In altre parole, la strategia protettiva fallisce privando i bambini timidi dell'opportunitÀ di imparare a calmarsi di fronte a ciÃ’ che non È familiare e impedendo loro di acquisire quindi un certo controllo sulle proprie paure. A livello neurologico, presumibilmente, ciÃ’ significa che i circuiti prefrontali di questi soggetti perdono l'opportunitÀ di imparare reazioni alternative alla loro paura riflessa; invece, la loro tendenza alla paura incontrollata puÃ’ uscire rafforzata dalla semplice ripetizione.

Kagan mi disse che invece “i genitori dei bambini diventati meno timidi verso i cinque anni sembravano aver esercitato su di loro una delicata pressione spingendoli ad essere piÙ estroversi. Sebbene questo tratto del temperamento sembri un poco piÙ difficile degli altri da modificare - probabilmente a causa della sua base fisiologica - nessuna qualitÀ umana È completamente refrattaria al cambiamento”.

Nell'arco dell'infanzia, alcuni bambini timidi diventano via via piÙ spavaldi, in quanto l'esperienza continua a plasmare e riplasmare i loro circuiti neurali. Uno dei segni dai quali si puÒ prevedere che un bambino timido ha buone probabilitÀ di superare la propria naturale inibizione È il suo eventuale elevato livello di competenza sociale: in altre parole, la sua capacitÀ di cooperare e di andare d'accordo con gli altri bambini; di essere empatico, premuroso, disposto a dare e a condividere; infine, la sua capacitÀ di costruirsi delle solide amicizie. Questi tratti distinguevano effettivamente un gruppo di bambini che, identificati a quattro anni per il loro temperamento timido, all'etÀ di dieci se ne erano ormai liberati (9).

Al contrario, i bambini che a quattro anni erano timidi e che nei sei anni successivi non andarono incontro a modificazioni importanti del temperamento, tendevano ad essere meno abili nella sfera emotiva; sotto stress, ad esempio, era piÙ facile vederli piangere o crollare; erano emotivamente inadeguati; avevano paura, erano imbronciati e inclini al pianto; reagivano a lievi frustrazioni con una collera esagerata; non riuscivano a rinviare le gratificazioni; erano eccessivamente sensibili alle critiche, o sospettosi. Naturalmente, questi problemi della sfera emotiva significano che probabilmente i rapporti di questi bambini con i loro coetanei saranno difficili - sempre che essi riescano a superare la loro iniziale riluttanza a impegnarsi in una relazione.

Invece, È facile comprendere come mai i bambini piÙ competenti dal punto di vista emotivo - per quanto possano essere timidi per temperamento - riescano a superare il proprio limite. Essendo piÙ abili socialmente, hanno maggiori probabilitÀ di sperimentare una successione di esperienze positive nelle loro relazioni con gli altri bambini. Tanto per fare un esempio, per quanto fossero esitanti a parlare con un nuovo compagno di giochi, questi soggetti, una volta rotto il ghiaccio, riuscivano a brillare socialmente. La regolare ripetizione, per molti anni, di questi successi sociali tende naturalmente a rassicurare i tipi timidi.

Questi progressi verso la baldanza sono incoraggianti: essi suggeriscono che perfino le inclinazioni emotive innate possano, in una certa misura, essere modificate. Un bambino venuto al mondo con la predisposizione a spaventarsi facilmente, puÃ’ imparare ad essere piÙ calmo - addirittura estroverso - di fronte a ciÃ’ che non gli È familiare. L'inclinazione alla paura - o qualunque altro tipo di temperamento - puÃ’ essere una delle basi innate della nostra vita emotiva; ciÃ’ nonostante, noi non siamo necessariamente costretti ad attenerci a un repertorio emozionale specifico impostoci dai nostri tratti ereditari. Anche all'interno dei vincoli genetici esiste tutta una gamma di possibilitÀ. Come spiegano i genetisti, i geni da soli non bastano a codificare il comportamento; il modo in cui una predisposizione del temperamento si esprime nella vita È determinato dal nostro ambiente, soprattutto da ciÃ’ che sperimentiamo e apprendiamo mentre cresciamo. Le nostre capacitÀ emotive innate non sono definitive, ma possono essere migliorate con l'apprendimento, purché ci vengano impartite le lezioni giuste. CiÃ’ si spiega tenendo presenti le modalitÀ di maturazione del cervello umano.

- Infanzia, una finestra di opportunitÀ.

Alla nascita, il cervello umano È ben lontano dall'essere completamente formato. Sebbene lo sviluppo piÙ intenso avvenga durante l'infanzia, il cervello continua comunque a forgiarsi per tutta la vita. I bambini vengono al mondo con molti piÙ neuroni di quelli che resteranno poi nel loro cervello maturo; grazie a un processo noto come “pruning” (“potatura”) il cervello perde effettivamente le connessioni neuronali meno usate, formandone di molto forti in quei circuiti sinaptici rivelatisi i piÙ usati. Questo processo, eliminando le sinapsi irrilevanti, migliora il rapporto segnale-rumore rimuovendo la causa del “rumore”; si tratta di un processo costante e veloce, in quanto le connessioni sinaptiche possono formarsi nel giro di ore o giorni. L'esperienza, soprattutto nell'infanzia, scolpisce il cervello.

La dimostrazione, divenuta ormai classica, dell'impatto dell'esperienza sullo sviluppo del cervello venne effettuata dai neuroscienziati Thorsten Wiesel e David Hubel, entrambi vincitori del Premio Nobel (10). Essi dimostrarono che nel gatto e nella scimmia c'È un periodo critico, nei primissimi mesi di vita, per lo sviluppo delle sinapsi che trasportano i segnali provenienti dall'occhio alla corteccia visiva, dove vengono poi interpretati. Se durante quel periodo si chiude chirurgicamente un occhio dell'animale, il numero di sinapsi che portano i segnali da quell'occhio alla corteccia visiva diminuisce, mentre vanno moltiplicandosi quelle dell'altro occhio (aperto). Se, terminato il periodo critico, l'occhio viene riaperto, esso resta comunque funzionalmente cieco. Sebbene l'organo non abbia niente in sé che non funzioni, i circuiti diretti da quell'occhio alla corteccia visiva sono troppo pochi perché i segnali possano essere interpretati.

Negli esseri umani il periodo critico corrispondente, per la visione, si estende durante i primi sei mesi di vita. In questo periodo una normale attivitÀ visiva stimola la formazione di circuiti neurali sempre piÙ complessi che originano dall'occhio e terminano nella corteccia visiva. Se l'occhio di un bambino viene tenuto chiuso anche solo per poche settimane, ciÒ produce nella sua capacitÀ visiva un deficit misurabile. Se l'occhio viene tenuto chiuso per diversi mesi, e viene riaperto solo una volta superato il periodo critico, la visione del dettaglio resterÀ compromessa.

Gli studi sui ratti allevati in ambienti “ricchi” o “poveri” forniscono un'efficace dimostrazione dell'impatto dell'esperienza sul cervello in via di sviluppo (11). I ratti allevati in ambienti “ricchi” vivevano in piccoli gruppi in gabbie attrezzate con moltissimi passatempi, ad esempio scale a pioli e ruote. I ratti stabulati in ambienti “poveri”, invece, vivevano in gabbie simili ma prive di stimoli e di passatempi. Nell'arco di alcuni mesi, la neocorteccia dei ratti “ricchi” sviluppÃ’ reti di circuiti sinaptici di gran lunga piÙ complesse; al confronto, i circuiti neuronali dei ratti “poveri” erano scarsi. La differenza era talmente significativa che i cervelli dei ratti “ricchi” erano piÙ pesanti e questi animali erano molto piÙ abili dei loro colleghi “poveri” a districarsi dai labirinti - il che forse non ci deve sorprendere. Esperimenti simili, effettuati con le scimmie, hanno confermato queste differenze fra gli animali con esperienze “ricche” e “povere”, e sicuramente lo stesso effetto si verifica anche negli esseri umani.

La psicoterapia - ossia il ri-apprendimento sistematico di emozioni normali - mostra in che modo l'esperienza possa modificare le inclinazioni emotive innate e forgiare il cervello. La dimostrazione piÙ impressionante proviene da uno studio effettuato su persone in cura per O.C.D. (disturbo ossessivo-compulsivo) (12). Una delle compulsioni piÙ comuni È quella di lavarsi le mani, un atto che in questi pazienti puÒ essere ripetuto talmente spesso - addirittura centinaia di volte al giorno - che la pelle finisce per spaccarsi. Studi di scansione con la P.E.T. (tomografia a emissione di positroni) dimostrano che i soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo presentano nei lobi prefrontali un'attivitÀ superiore alla norma (13).

MetÀ dei pazienti dello studio erano in cura con il trattamento farmacologico standard, la fluoxetina, e metÀ erano sottoposti a terapia del comportamento. I soggetti di questo secondo gruppo erano sistematicamente esposti all'oggetto della loro ossessione o compulsione, senza perÒ avere la possibilitÀ di compiere l'atto; ad esempio, i pazienti con la compulsione di lavarsi le mani venivano messi di fronte a un lavandino, ma si vietava loro di lavarsi. Allo stesso tempo, essi imparavano a mettere in discussione le paure e i timori che li spingevano alla compulsione - ad esempio il timore che se non si fossero lavati si sarebbero ammalati e sarebbero morti. Gradualmente, dopo mesi di queste sedute, le compulsioni diminuirono, proprio come venne riscontrato nel gruppo di pazienti ai quali era stato somministrato il farmaco.

Il risultato eccezionale, perÒ, era che le scansioni P.E.T. mostravano, nei pazienti curati con terapia comportamentale, proprio come in quelli trattati con la fluoxetina, una diminuzione significativa dell'attivitÀ del nucleo caudato, una struttura fondamentale del cervello emozionale. La loro esperienza aveva modificato la funzione cerebrale - e alleviato i sintomi - con la stessa efficacia del trattamento farmacologico!

- Periodi critici.

Il cervello degli esseri umani È quello che impiega di piÙ per maturare completamente. Se È vero che durante l'infanzia ogni area del cervello si sviluppa a velocitÀ diversa, l'inizio della pubertÀ segna, invece, uno dei periodi di piÙ drastica “potatura”. Fra le aree cerebrali piÙ lente a maturare, ce ne sono diverse fondamentali per la vita emotiva. Mentre le aree sensoriali maturano nella prima infanzia, e il sistema limbico entro la pubertÀ, i lobi frontali - sede dell'autocontrollo emotivo, della comprensione e della reazione corticale perfezionata - continuano a svilupparsi fino alla fine dell'adolescenza, a volte fino a un periodo compreso fra i sedici e i diciotto anni di etÀ (14).

Le abitudini di controllo emozionale, che si esprimono moltissime volte durante l'infanzia e gli anni dell'adolescenza, contribuiscono anch'esse a forgiare questi circuiti. CiÃ’ fa dell'infanzia un'opportunitÀ fondamentale per modellare inclinazioni emotive destinate a durare tutta la vita; le abitudini acquisite da bambini vengono installate nella cablatura sinaptica fondamentale dell'architettura neurale, e in seguito sono piÙ difficili da modificare. Data l'importanza dei lobi prefrontali nel controllo delle emozioni, l'esistenza di un periodo critico molto lungo per la “scultura” sinaptica di questa regione puÃ’ benissimo significare che, nel disegno generale del cervello, le esperienze di un bambino possono, nel corso degli anni, forgiare connessioni durature nei circuiti regolatori del cervello emozionale. Come abbiamo visto, le esperienze critiche comprendono il livello di dedizione e di sensibilitÀ che i genitori mostrano nei confronti delle esigenze dei figli, le opportunitÀ e la guida offerte al bambino per imparare a gestire i propri turbamenti e a controllare gli impulsi, e l'esercizio dell'empatia. Per lo stesso motivo, la trascuratezza o i maltrattamenti, la de-sintonizzazione di un genitore troppo egoista o indifferente, o ancora, una brutale disciplina, possono lasciare il segno sui circuiti emozionali (15).

Una delle abilitÀ piÙ essenziali nella sfera emotiva, appresa nella primissima infanzia e poi perfezionata negli anni successivi, È il sapere come calmarsi quando si È sconvolti. Nel caso dei bambini piccolissimi, la funzione consolatoria viene svolta da coloro che se ne prendono cura: quando la madre sente piangere il piccolo, ad esempio, lo prende in braccio, lo stringe e lo culla finché non si È calmato. Questa sintonizzazione biologica, secondo alcuni teorici, aiuta il bambino ad apprendere come ottenere lo stesso risultato da sé (16). Durante un periodo critico, collocabile fra i dieci e i diciotto mesi, l'area orbitofrontale della corteccia prefrontale forma rapidamente le connessioni con il sistema limbico, diventando cosÃŒ un interruttore fondamentale per innescare o disinnescare la sofferenza. Il bambino che va incontro a infiniti episodi di consolazione da parte di altri viene aiutato ad apprendere come calmarsi e, secondo quest'ipotesi, rafforzerÀ le connessioni di questo circuito delegato al controllo della sofferenza; pertanto, nei momenti difficili della vita, egli sarÀ piÙ abile nell'arte dell'auto-conforto.

Sicuramente, quest'arte viene acquisita dopo molti anni, e avvalendosi di molti nuovi mezzi, in quanto la graduale maturazione del cervello offre al bambino strumenti emozionali sempre piÙ sofisticati. Come ricorderete, i lobi frontali, tanto importanti nella regolazione degli impulsi del sistema limbico, maturano nell'adolescenza (17). Un altro circuito fondamentale che continua a forgiarsi per tutta l'infanzia comprende il nervo vago, che non si limita a regolare la funzione del cuore e di altri organi, ma trasmette i segnali provenienti dalle ghiandole surrenali all'amigdala, preparandola a secernere le catecolamine che scatenano la risposta di combattimento o fuga. Un gruppo della University of Washington che studiava l'impatto delle cure parentali sui bambini, scoprÌ che il fatto stesso di avere genitori capaci dal punto di vista emozionale favoriva un miglioramento della funzione vagale.

Come spiega John Gottman, lo psicologo che ha diretto la ricerca: “I genitori modificano il tono vagale dei propri figli,” - una misura della sensibilitÀ del nervo vago agli stimoli - “guidandoli nella loro vita emotiva: parlando ai bambini dei propri sentimenti e spiegando loro come comprenderli, evitando di essere critici e di emettere giudizi, risolvendo i problemi posti da difficili situazioni emotive, guidandoli sul da farsi, mostrando quali siano le alternative allo scontro fisico, o al chiudersi in se stessi quando si È tristi”. Quando i genitori svolgono bene questo compito, i bambini si comportano meglio, in quanto riescono a sopprimere piÙ efficacemente l'attivitÀ vagale che induce l'amigdala a preparare l'organismo al combattimento o alla fuga con una scarica ormonale.

E' ovvio che esiste un periodo critico per ognuna delle abilitÀ fondamentali dell'intelligenza emotiva - periodo che si estende per diversi anni durante l'infanzia. Ognuno di tali periodi rappresenta un'opportunitÀ per fare in modo che il bambino prenda abitudini emozionali positive - oppure, se si perde quest'occasione, per rendere difficilissimo ogni successivo intervento di correzione. La massiccia attivitÀ di formazione e “potatura” dei circuiti neurali che ha luogo durante l'infanzia puÃ’ spiegare come mai i traumi e le sofferenze emotive abbiano effetti tanto duraturi e pervasivi nell'etÀ adulta. Essa puÃ’ anche spiegare perché la psicoterapia spesso impieghi tanto tempo per modificare alcuni di questi comportamenti - e perché, come abbiamo visto, anche dopo la terapia, quei comportamenti tendano comunque a rimanere in forma di propensioni latenti (sebbene con un rivestimento di nuove intuizioni e di risposte ri-apprese).

Sicuramente, il cervello resta plastico per tutta la vita, sebbene non nella misura spettacolare tipica dell'infanzia. Ogni tipo di apprendimento implica una modificazione a livello cerebrale, un rafforzamento di connessioni sinaptiche. Nei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo, le modificazioni cerebrali ottenute con la terapia dimostrano che, con uno sforzo prolungato, le inclinazioni emotive restano malleabili per tutta la vita, anche a livello neurale. CiÒ che accade nel cervello dei pazienti con P.T.S.D. (o anche durante la terapia) È analogo - nel bene o nel male - agli effetti di una qualunque esperienza emotiva ripetuta o molto intensa.

Il bambino riceve alcuni degli insegnamenti emozionali piÙ significativi dai genitori. Essi instillano in lui inclinazioni emotive diversissime a seconda che il loro livello di sintonizzazione indichi il riconoscimento e la soddisfazione delle esigenze emotive del bambino, e un atteggiamento empatico anche nell'imporre la disciplina - o se si tratti di genitori egoisti che ignorano la sofferenza del bambino o lo puniscono arbitrariamente, alzando la voce e percuotendolo. Gran parte della psicoterapia È, in un certo senso, un rimedio per ciÃ’ che in precedenza È stato alterato o completamente trascurato. Ma perché non fare invece tutto ciÃ’ che È in nostro potere per prevenire quel bisogno, dando ai bambini tutta la guida e gli insegnamenti necessari per coltivare fin dall'inizio le loro abilitÀ emozionali essenziali?





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