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1860 « ANNUS MIRABILIS » PARTE SECONDA

Storia



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1860 « ANNUS MIRABILIS » PARTE  SECONDA

La sollevazione del popolo siciliano, ingigantendo a mano a mano che i successi di Garibaldi divenivano sempre piÙ imponenti, portÃ’, come era del resto fatale, ad una serie di dolorosi episodi, nei quali, come sempre avviene e come anche È avvenuto di recente, il sentimen­to politico era spesso oscurato dagli odi personali. Per troncare tali riprovevoli eccessi, Garibaldi, gabellato dai suoi avversari come un avventuriero incolto e impolitico, emanÃ’ da Palermo il 30 giugno 1860 un importante de­creto che viene qui riprodotto, data la sua importanza dal punto di vista morale, politico, ed umano.



ITALIA E VITTORIO EMANUELE

Giuseppe Garibaldi, comandante in capo le forze nazio­nali in Sicilia.

Decreta

Art. 1 - Ogni individuo che, dalla pubblicazione della presente legge, perseguiti o ecciti con parole o scritti il popolo a perseguitare un cittadino qualunque, sotto pre-

testo che costui abbia parteggiato o dato opera colpevole in servizio del cessato governo o dell'aborrita polizia, sarÀ solo per ciÒ punito come reo di omicidio mancato.

SarÀ punito di morte, ove in conseguenza del fatto suo il perseguitato sarÀ ucciso o gravemente percosso o ferito.

Art. 2 - Chiunque sotto lo stesso pretesto avrÀ arre­stato o fatto arrestare un cittadino senza ordine espresso di autoritÀ che ne abbia il diritto, ove non si sia servito dell'eccitamento popolare, sarÀ punito con l'esilio perpe­tuo dallo Stato.

Art. 3 - La competenza di tali reati essendo delle commissioni speciali, queste procederanno sempre in si­mili casi con rito subitaneo.

Il Segretario di Stato di giustizia F. Santocanale

II dittatore G. Garibaldi II Segretario di Stato della Sic. pubblica Luigi La Porta

La rapiditÀ del successo di Garibaldi stupÃŒ tutti, ita­liani e stranieri. Ma il piÙ stupito di tutti fu Cavour, il quale, contro i suoi desideri, vide l'« avventuriero » (come lui lo chiamava) insediarsi a Napoli il 7 settem­bre, osannato e adorato da tutte le popolazioni incontrate nella sua corsa vittoriosa e trionfale da Marsala a Napoli, durata solo quattro mesi nonostante tutti gli ostacoli crea­tigli dal Primo ministro del Re Vittorio Emanuele; prima facendolo partire disarmato o quasi: poi, tentando di ren­derlo inviso ai Siciliani a mezzo del suo inviato La Fa­rina, poi ancora, ostacolandogli il passaggio dello stretto di Messina e infine ( cosa che anche questa non gli riuscÃŒ ) manovrando in modo da fargli trovare una Napoli giÀ conquistata dai suoi emissari e dai soldati piemontesi.

Queste affermazioni probabilmente riusciranno nuove

e incredibili a molti lettori; ma rispondono alla veritÀ. VeritÀ che, prove alla mano, vengono dimostrate come tali, utilizzando tra le tante anche la testimonianza di un autore imparziale perché straniero e al di sopra delle ri­valitÀ di allora e di oggi. Si tratta dello storico Denis Mac Smith autore della magnifica opera « Garibaldi e Cavour nel 1860 » e della « Storia d'Italia 1861-1958 ».

Dal volume « Garibaldi e Cavour nel 1860 » appare come il successo di Garibaldi fu sempre travagliato ed ostacolato dal Piemonte ufficiale e da alcuni profughi si­ciliani amici di Cavour ed avversari di altri profughi col­laboratori di Garibaldi.

Quello di Garibaldi fu un successo difficile che aveva soprattutto il torto di essersi verificato al di fuori della volontÀ di Cavour e nonostante la sua opposizione. Tale continua lotta, sorda e niente affatto cavalieresca, pro­vocÃ’ avvenimenti politici e quindi decisioni politiche er­rate in partenza, giudizi sommari ed errati nei confronti dei meridionali e disposizioni politiche ed amministrative che formarono la base, ahimÈ troppo solida, dell'inferio­ritÀ economica (e non solo economica) nella quale fu confinata l'Italia meridionale, Sicilia compresa.

Il signor Goodwin, agente diplomatico britannico a Pa­lermo, scriveva che i Siciliani intelligenti avrebbero pre­ferito semplicemente di vedersi di nuovo concessa la co­stituzione del 1812 (la piÙ antica del continente europeo), ottenuta sotto i Borboni e che l'invocazione al Piemonte era piuttosto una mossa politica che non un desiderio effettivo.

Naturalmente avevano una grande stima per Garibaldi e lo consideravano, in massa, come un grande uomo; e la massa automaticamente orientava le proprie idee se­condo quello che credeva fosse il desiderio di Gari­baldi. Un uomo che nel 1859 aveva avuto contatti con Garibaldi diceva che « il generale ha idee ampie ed one-

ste, ma che difficilmente si elevano sopra le banalitÀ po­polari; ma proprio per questa ragione, forse, egli eser­cita sui propri ascoltatori un'influenza che un intelletto piÙ raffinato non avrebbe potuto avere ». Garibaldi non desiderava un'annessione immediata della Sicilia al Pie­monte, ma voleva differire la consegna delle sue conquiste almeno fino a quando la rivoluzione si fosse bene affer­mata. E si rafforzÃ’ in tale proposito, quando scoprÃŒ che Cavour aveva segretamente operato per mettere fine alla rivoluzione da lui iniziata in Sicilia contro i Borboni, in modo da costringerlo alla resa. Sia l'ammiraglio Persano, ancorato nel porto di Palermo con le sue navi, che il La Farina, individuo infido e mendace, mandato da Ca­vour in Sicilia nell'interesse del Piemonte, tentarono al­lora e dopo, di dimostrare che Cavour aveva aiutato la spedizione; ma si deve oggi riconoscere il contrario giac­che in realtÀ non diede nessun aiuto, pur illudendo i pa-triotti che tale aiuto potesse giungere da un momento al­l'altro. Cavour si trovava nella condizione in cui sembrare un patriotta era per lui piÙ importante che esserlo. Per lui l'impresa garibaldina era di origine mazziniana e inop­portuna nel tempo e nel modo ed estremamente perico­losa per i suoi possibili effetti, sia nei confronti dei go­verni stranieri, sia per paventati sviluppi interni non or­todossi per i monarchici piemontesi. Per quanto riguar­dava questi ultimi, il galantomismo di Garibaldi, che ini­ziÃ’, e proseguÃŒ sempre, la propria azione col motto Italia e Vittorio Emanuele, veniva continuamente offeso, an­che per colpa dell'arruffone e insincero La Farina, stru­mento di Cavour in Sicilia, per ostacolare l'opera di Ga­ribaldi. Quando Cavour, successivamente e in segreto, dette aiuto a due spedizioni di altri volontari in soccorso di Garibaldi, una in giugno agli ordini di De Medici e una in luglio agli ordini di Cosenz, lo fece soprattutto per impedire che tali volontari venissero utilizzati per

un'invasione dello Stato Pontificio. Altro dato sul quale È bene riflettere È la provenienza regionale dei garibaldini sia nella spedizione dei «mille» che in quelle successive: la maggioranza era data dai lombardi e dai veneti e dai liguri, mentre l'apporto piemontese fu quasi nullo, a cau­sa della propaganda antigaribaldina fatta in Piemonte ne­gli ambienti militari e in quelli politici.

Solo nel mese di giugno quando la Francia, in seguito alle strabilianti vittorie garibaldine, dichiarÃ’ che non si poteva non accettare un libero voto dei Siciliani in favore dell'unione al Piemonte, Cavour decise che il Governo di Torino potesse aiutare attivamente Garibaldi, ma sem­pre in segreto. Intanto anche l'Inghilterra si orientava in favore dell'Italia, ma la salvezza dell'Italia stava per giun­gere non dalla Gran Bretagna, né dalla Francia e neppure da Cavour; essa stava nelle mani di Garibaldi e dei rivo-luzionari.

Accertati da Garibaldi gli sleali maneggi del La Farina questi venne espulso dalla Sicilia e rinviato a Genova su una nave della marina da guerra sarda, usando cosÌ, dello stesso mezzo col quale era arrivato in Sicilia in compagnia di Persano.

A proposito del La Farina, inviso anche a Vittorio Emanuele, l'inglese Hudson fu sempre nettamente con­trario a « quell'intrigante » e dichiarava che « Cavour non ha il dono di saper mettere gli uomini giusti al po­sto giusto, e La Farina È assolutamente fuor di posto in Sicilia». Garibaldi, da uomo di grande buon senso (e il buon senso in politica a volte È preferibile al genio), a chi lo sollecitava a far proclamare l'immediata annes­sione della Sicilia al Piemonte, rispondeva che finché du­rasse la situazione di emergenza e il nemico non fosse stato sconfitto, non c'era possibilitÀ di tenere una libera votazione mentre l'annessione in tali condizioni, cosÃŒ pre­matura, avrebbe potuto dare enormi fastidi al Governo

di Torino da parte della Francia e dell'Austria. E il ten­tativo compiuto da Napoleone III d'impedire all'esercito garibaldino di attraversare lo stretto di Messina, avrebbe potuto non essere neutralizzabile se l'isola fosse giÀ stata formalmente annessa al Piemonte. Inoltre la Sicilia nord­orientale non era ancora completamente in mano a Gari­baldi e per lunghi mesi isolate guarnigioni borboniche continuarono a resistere.

Convincere i Siciliani piÙ colti circa i benefici effetti di un'annessione non era cosa facile: tali Siciliani ben conoscevano lo stato di abbandono e il malgoverno di burocrati che favorivano la decadenza della Sardegna sotto l'amministrazione torinese; e lo stesso esempio della To­scana costituiva per quei Siciliani un'ulteriore prova che l'amministrazione piemontese non portava automatica­mente quell'ordine nella cosa pubblica atteso invano da quella popolazione; tanto che il barone Bettino Ricasoli, che era il numero due, dopo Cavour, nel partito liberale, si spinse a dichiarare che « la stupida pedanteria e la lai­da burocrazia piemontese ci costringerÀ a una nuova ri­voluzione per rigettare quel giogo che ci È piÙ antipatico di quello che fu l'austriaco. Non vogliono capire che noi vogliamo essere italiani ed avere un'anima italiana, e non automi alla maniera loro » ( Ricasoli a Silvestrelli 28 ottobre 1860; carteggio a cura di Nobili e Camerani). Ma parole ancora piÙ roventi Bettino Ricasoli, detto il « barone di ferro », ebbe occasione di pronunciare quan­do gli offersero di andare in Sicilia come « commissario regio » e lui credette che tale offerta gli venisse fatta per allontanarlo dalla Toscana.

La resistenza all'annessione pura e semplice della Si­cilia al Piemonte era anche dovuta, tra le persone colte, alla convinzione che il primo effetto dell'annessione sa­rebbe stato un'elevazione delle imposte per sanare il pau­roso deficit del bilancio piemontese, causato dai debiti

contratti da Torino per le guerre contro l'Austria; se­condo effetto sarebbe stato l'istituzione della coscrizione obbligatoria e, terzo effetto, la fine della protezione fi­scale, nell'ambito nazionale, in favore dei prodotti locali. E non si puÃ’ dire che le previsioni fossero errate.

Si erano intanto verificate tra Cavour e i Siciliani delle divergenze di carattere fondamentale circa la forma dell'annessione. Mentre Cavour voleva imporre il metodo rivoluzionario del plebiscito, i Siciliani, anche i piÙ mo­derati, oltre ai radicali, volevano integrarlo col tradizio­nale istituto siciliano di un'assemblea elettiva di rappre­sentanti. Un'assemblea avrebbe potuto esaminare tutti i possibili sistemi d'unione e portare, con la libera discus­sione, il contributo di menti illuminate sul problema; mentre, per converso, col ridurre semplicisticamente la questione a un « si » o a un « no », cui avrebbe potuto rispondere col voto la moltitudine ignorante, i Siciliani avrebbero potuto dire ben poco sul loro futuro e il vero significato della loro scelta non avrebbe avuto modo di essere chiarito. Inoltre, c'era il fatto che la Toscana e i ducati padani erano stati chiamati a votare sulla stessa questione per mezzo di assemblee elettive e doppiamente offensiva sarebbe apparsa una discriminazione nei con­fronti della Sicilia con l'applicazione di una procedura diversa, nonostante che il sistema rappresentativo di go­verno avesse nell'isola tradizioni assai vive e molto piÙ antiche che altrove, risalenti addirittura al medioevo, ai tempi della dominazione della cas a Sveva e poi di quella d'Aragona.

Le classi colte siciliane erano ben conscie che in una assemblea le loro idee potevano prevalere, mentre in un plebiscito improvvisato, la massa incolta poteva venire manovrata e gabbata a piacere, creando cosÃŒ i presupposti della guerra civile, cosa questa che, dopo pochi anni, pur­troppo si verificÃ’, come era stato previsto.

Cavour non volle nemmeno dare ascolto al maggiore economista del tempo, ossia al suo amico e collega in giornalismo, il siciliano Francesco Ferrara, il quale gli in­viÃ’ un interessante « memorandum » per tentare di con­vincerlo ad abbandonare l'idea dell'annessione pura e semplice della Sicilia, al posto di un ordinamento, almeno in parte, autonomo.

Il Ferrara paventava, da allora, gli effetti deprecabili di un improvviso aumento del debito pubblico, dell'abo­lizione del sistema daziario vigente, della istituzione della coscrizione e dello stesso trasferimento della Corte di Cas­sazione nella lontanissima Torino, e soprattutto paven­tava che la popolazione, svaniti i primi entusiasmi, avreb­be poi dovuto constatare di aver perduto l'autonomia amministrativa goduta sotto i Borboni.

La Farina, agente di Cavour a Palermo era, né piÙ né meno, che un sabotatore di tutto quanto il governo di Garibaldi faceva in Sicilia. La polizia ad un certo mo­mento arrestÃ’ due deplorevoli individui, un certo Gri-scelli e un certo Totti ritenuti sicari al soldo borbonico; risultarono poi agenti di Cavour che, a detta dell'ammi­raglio Persano, erano venuti in Sicilia per compromettere il governo garibaldino.

Il 7 luglio sul « Giornale ufficiale » comparve il se­guente comunicato che È bene sia conosciuto: « Per or­dini speciali del Dittatore, sono stati allontanati dall'isola nostra i signori Giuseppe La Farina, Giacomo Griscelli e Pasquale Totti. I signori Griscelli e Totti, cÃ’rsi di na­scita, son di coloro che trovano modo di arruolarsi negli uffici di tutte le polizie del continente. I tre espulsi erano in Palermo cospirando contro l'attuale ordine di cose.

Il Governo invigila perché la tranquillitÀ pubblica non venga menomamente turbata e non poteva tollerare an­cora la presenza tra di noi di codesti individui venutivi con intenzioni deplorevoli ».

Garibaldi era molto irritato contro Cavour, il quale, secondo le voci correnti, stava discutendo i preliminari di un'alleanza con quello stesso governo contro cui Gari­baldi era impegnato in una lotta mortale ossia il governo borbonico. Mentre il giornale quasi ufficiale del Governo di Torino, « L'Opinione », pubblicava aspri articoli con­tro il governo di Garibaldi, quando l'esercito napoletano teneva ancora sotto il proprio controllo parte della Si­cilia; Cavour, da scaltro manovratore come era, usava figurare una certa politica verso alcuni, e un'altra politica verso altri. Era un gioco pericoloso e non certo compren­dibile per un animo sincero e sognatore come quello di Garibaldi, ed era infine una maniera di operare cosÃŒ sot­tile che inevitabilmente poteva portare ad una diminu­zione di stima anche da parte di uomini di alto valore politico come Palmerston e Russel, i quali, in seguito, affermarono che non si poteva piÙ prestare fede a Cavour dopo le menzogne su Nizza e la Savoia, e anche quando diceva la veritÀ si sospettava in lui doppiezza di mire e di intenti.

Del resto i negoziati condotti da Cavour nel luglio 1860 con il Governo di Napoli sono un chiaro esempio della ambiguitÀ e della slealtÀ della sua politica, incomprensi­bile, ad esempio, per un animo leale e sincero come quello di Massimo d'Azeglio. Tanto energiche erano state le pro­teste cavouriane contro « la piratesca irresponsabilitÀ ga­ribaldina », che il governo borbonico chiese ed ottenne da Cavour il permesso di inviare una speciale ambasceria per discutere i termini di un'alleanza antirivoluzionaria.

Con tale modo di procedere, nel tentativo di mantenere buoni rapporti sia con chi voleva l'UnitÀ d'Italia, sia con la diplomazia borbonica, Cavour si metteva in contrasto con gli uni e con gli altri, ottenendo che Napoli, Parigi, Garibaldi e i patriotti diminuissero la loro stima per il governo piemontese.

Con i suoi contatti con gli emissari borbonici, Cavour finÃŒ col ritardare la maturazione della crisi a Napoli, ri­badendo poi negli animi dei patrioti italiani la convin­zione che lui non volesse affatto l'UnitÀ d'Italia.

Intanto Francesco II aveva concesso la Costituzione a Napoli e i Siciliani temevano che se i liberali napoletani ne fossero rimasti soddisfatti, Cavour si sarebbe messo con i liberali napoletani, seguendo il consiglio della Fran­cia e quindi contro i rivoluzionari siculi.

Comunque sia, verso la metÀ di luglio c'erano uomini politici piemontesi che ritenevano l'alleanza con Napoli, almeno sotto certe condizioni, fosse da preferirsi a quella con Garibaldi. Dal 16 al 31 luglio, Cavour ebbe dodici colloqui con Manna e Winspeare, inviati speciali del go­verno borbonico a Torino per concludere un'alleanza con il Piemonte. Il giorno 2o, Farini, ministro dell'Interno piemontese, disse agli inviati napoletani che una vittoria borbonica su Garibaldi sarebbe stata la salvezza dell'Ita­lia e che lui, Farini, con ventimila uomini avrebbe get­tato a mare Garibaldi e tutta la sua armata. Giunta perÃ’ la notizia della vittoria garibaldina, Cavour divenne meno espansivo con i napoletani, ma dovette salvare le appa­renze e continuare i negoziati, pur non avendo nessuna intenzione seria di arrivare ad un'alleanza. Il 5 settembre Vittorio Emanuele consigliava i Borboni di attaccare Ga­ribaldi senza timore ed esprimeva la speranza che essi riuscissero vincitori ed impiccassero il generale ribelle. La Farina espulso dalla Sicilia, rientrato in Piemonte, si dedicÃ’ ad intorbidare le acque tra Cavour e Garibaldi, inventando, tra le numerose notizie false, quella che la Sicilia era in preda al terrore e che Garibaldi meditava una spedizione per riprendere Nizza e la Savoia. A Pa­lermo l'ammiraglio Persano si preparava ad arrestare i collaboratori di Garibaldi non appena fosse stato possi­bile; mentre Cavour scriveva al suo ambasciatore a Lon-

dra che « Garibaldi si lascia ubbriacare dal successo e invece di fare l'annessione della Sicilia al Piemonte, sogna di conquistare Napoli e di liberare l'Italia, mentre l'an­nessione ci libererebbe da ogni imbarazzo e farebbe rien­trare Garibaldi in una posizione normale »

Insomma per i Piemontesi la conquista di Napoli co­stituiva « un imbarazzo ». Poi naturalmente Cavour si lasciava andare a fare delle confidenze al suo fedele Nigra a cui, tra le varie cose, scriveva che « i maccheroni non sono ancora cotti, ma gli aranci sono giÀ sulla tavola e noi siamo decisi a mangiarli », per significare che l'an­nessione dell'Italia meridionale era una cosa ancora lon­tana, ma la Sicilia era giÀ pronta per incorporarla al Pie­monte. E il chiodo fisso di Cavour era l'annessione imme­diata della Sicilia, perché scriveva: «tale annessione il mezzo per annullare Garibaldi o per lo meno di diminuire la sua influenza in modo da renderla non pericolosa ».

In conclusione Cavour non aveva nessuna conoscenza dei problemi meridionali, stava a sentire quanto il suo emissario La Farina gli raccontava in malafede e quando l'ammiraglio Persano, ancorato con la sua nave a Palermo, gli raccontava anche lui, con la piÙ completa incompe­tenza di uomini e di cose.

Al posto di La Farina, Cavour mandÃ’ a Palermo Ago­stino De Pretis, e comunicando tale invio a Persano gli scrisse che « De Pretis È un uomo debole che si lascerÀ trascinare e quindi avrebbe potuto diventare lo stru­mento della politica piemontese ». Garibaldi nominÃ’ De Pretis prodittatore e gli diede per aiuto Crispi.

In conclusione, Cavour, per merito di Garibaldi, e con­tro la propria volontÀ e le proprie vedute politiche, si trovava a pregustare « gli aranci » ossia il grosso boc­cone della Sicilia e intravedeva anche di poter un giorno divorarsi « i maccheroni » ossia Napoli, ma non cono­sceva né la Sicilia, né Napoli; certamente la Tripolitania

nel 1911 era meglio conosciuta dal governo italiano che non l'Italia meridionale dal Piemonte nel 1860. E dato che l'idea di UnitÀ d'Italia era sempre stata considerata da Cavour come un'utopia di esaltati mazziniani sul tipo di Daniele Manin, Giuseppe Garibaldi, ed altri simili seccatori, Cavour in tale guazzabuglio intravedeva solo una cosa: la conquista di un'enorme fetta di territorio da farsi nel modo piÙ spicciativo, una volta ultimato il compito dei filibustieri garibaldini. Ma come e con quale sistema fosse opportuno arrivare all'unione dell'Italia me­ridionale col Piemonte, e quali fossero gli interessi delle popolazioni meridionali da salvaguardare, Cavour lo igno­rava e non se ne preoccupava nemmeno lontanamente; l'essenziale era di levarsi da torno Garibaldi e salvare la faccia di Vittorio Emanuele facendolo partecipare alla parata conclusiva della conquista.

Espulso La Farina dalla Sicilia, Cavour reagÃŒ dando l'ordine (10 luglio 1860) di impedire la partenza da Ge­nova di altri volontari, mentre l'ammiraglio Persano scri­veva a Cavour di « essere pronto ad arrestare Crispi, Ma­rio e Ferrara appena Garibaldi si fosse tolto dai piedi ».

Quando arrivÃ’ la notizia della vittoria di Milazzo, Ca­vour si convinse che in fondo gli utopisti garibaldini non erano esattamente degli utopisti, ma sapevano bene quello che volevano; ciononostante, anzi proprio per tale vit­toria, Garibaldi e i garibaldini diventavano per Cavour piÙ fastidiosi e pericolosi di prima. E Cavour inviÃ’ a Persano questo preciso ordine: « Conviene impedire ad ogni costo che Garibaldi passi sul continente, da un lato, e, dall'altro, conviene promuovere un moto a Napoli ». E poi dava l'ordine segreto di spingere un certo numero di ufficiali della marina piemontese a disertare e a pas­sare alla flotta di Garibaldi, in modo da poter organiz­zarvi un ammutinamento se e quando Cavour decidesse di aver la forza sufficiente per perseguire apertamente una politica avversa ai rivoluzionari. Persano ebbe inoltre istruzioni di non prestare nessun aiuto, neppure indiretto, a Garibaldi e di tenere le sue navi lontane da ogni com­battimento.

Garibaldi a mezzo di Litta ricevette una lettera di Vit­torio Emanuele con la disapprovazione della spedizione e con le pressioni per una fine immediata della guerra tra Napoli e la Sicilia. La leggenda narrÃ’ a suo tempo di una seconda lettera segreta con la quale Vittorio Emanuele diceva a Garibaldi di passare lo stretto e seguitare a com­battere. Ma di tale lettera nessuno mai trovÃ’ la traccia; solo nel 1909 venne alla luce una lettera non simile alla prima e nemmeno alla ipotetica seconda, ma meno for­male della prima. Ma non È stata inclusa nell'edizione nazionale delle lettere di Cavour insieme alla prima let­tera del Re. Né Garibaldi, né Cavour fecero mai men­zione di un secondo messaggio; al contrario, Garibaldi la cui sinceritÀ È sempre stata ammirata da tutti, ripetÈ piÙ volte, anche per iscritto, che il governo torinese aveva tentato di impedire la traversata dello Stretto 14.

Nel mese di luglio alcuni meridionali esuli a Torino, fra cui Bonghi, Nisco, Mezzacapo e Pisanelli vennero in­viati a Napoli insieme a Ribotti, Zanardelli e Visconti-Venosta, col compito di esplorare il terreno per prepa­rare un'insurrezione che avrebbe dovuto scoppiare prima di un eventuale e deprecato arrivo di Garibaldi; ma il 26 dello stesso mese si venne a sapere che l'Inghilterra si rifiutava di unirsi al piano della Francia e del Piemonte per fermare l'avanzata di Garibaldi e convincere i Bor-boni alla perdita della Sicilia. Fino a quel giorno Napo­leone III aveva sperato che Cavour avrebbe concluso l'al­leanza con Napoli e che le grandi potenze sarebbero in­tervenute per fermare Garibaldi allo stretto. Gli ordini segreti di Cavour a Persano continuavano ad essere quelli di non dare nessun aiuto a Garibaldi e di « ritardarlo per via indiretta il piÙ possibile » e Persano era convinto che per Garibaldi sarebbe stato difficile attraversare lo stretto di Messina senza una scorta navale; ma Garibaldi non era Persano; e passÃ’. PassÃ’ e quando una nave da guerra piemontese com­parve nello stretto e uno dei due trasporti di Garibaldi si incagliÃ’ e dovette venire incendiato, la nave piemon­tese alle richieste di aiuto da parte dei garibaldini, ri­spose con un silenzio di tomba.

La Gran Bretagna si indusse a parteggiare per Gari­baldi contro la Francia, non solo perché Garibaldi le piaceva di piÙ, ma specialmente perché la Francia le pia­ceva meno.

Il 30 luglio Garibaldi scrisse a Bertani e a Ricasoli che entro quindici giorni lui avrebbe invaso la Calabria e quindi sarebbe stata utile un'invasione dal Nord. E men­tre Garibaldi franco e leale esponeva i suoi pensieri, senza scopi reconditi, in Piemonte fu deciso di agire per per­mettere al Re di assumere il controllo della situazione « in nome dell'ordine, dell'umanitÀ, strappando dalle ma­ni di Garibaldi la direzione suprema del movimento ita­liano » e Cavour aggiungeva: « il piano che ho adottato ha dei pericoli ma l'entrata di Garibaldi a Napoli ne ha dei piÙ grandi ancora; se ciÃ’ avvenisse sarebbe lui e non Vittorio Emanuele, il vero Re d'Italia »16.

In tale situazione e con tali preoccupazioni, Cavour iniziÃ’ nei confronti di Napoli una politica caotica, affidata tra l'altro a uomini di scarso valore, quale il Villamarina. Cercava di intrattenere trattative con Francesco II; man­dava 3000 fucili a Napoli a mezzo del Barone Nisco, per indurre uno squinternato zio di Francesco II, ossia il conte di Siracusa, a insorgere contro il nipote; assoldava traditori borbonici e cercava di accaparrarsi le simpatie dei liberali per poi usarli contro Garibaldi. Insomma mentre Garibaldi, circondato da uomini di grande valore politico e militare, quale Cosenz, Medici, Sirtori, TÙrr, Bixio e Crispi, marciava dritto per la sua strada, difficile ed eroica, ma semplice e chiara, Cavour, pur di togliere almeno una parte della gloria al « filibu­stiere Garibaldi », per attribuirla al Re, si agitava senza avere la possibilitÀ di concentrarsi su un'idea netta e precisa, creando cosÃŒ grande confusione e grande perples­sitÀ e soprattutto erigendo basi, financo troppo solide, alla futura, profonda incomprensione tra Italiani del Nord e del Sud.



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