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I SUOI DIVERTIMENTI

Storia



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I SUOI DIVERTIMENTI

quando Augusto assunse il potere, il calendario romano conosceva settantasei giorni di festa, press'a poco come oggi; quando il suo ultimo suc­cessore ne decadde, ce n'erano centosettantacinque, cioè era festa un giorno sì e uno no. Esse venivano celebrate coi ludi scenici e coi giuochi atletici.

I ludi scenici non erano più il classico dram­ma, pomposo e solenne, estintosi, dopo una bre­ve stagione, molto più rapidamente di quanto non fosse nato. C'è qualcosa nell'aria non solo di Roma, ma di tutta Italia, che le rende piutto­sto allergiche al teatro. Drammi si continuò a scriverne anche in questo primo secolo d'Impero ma come esercitazioni poetiche che trovavano qualche ascoltatore nei salotti in cui l'autore le leggeva, non spettatori nei teatri e attori per interpretarle. Un pubblico rozzo, composto in buo­na parte di stranieri che conoscevano soltanto un latino elementare, preferiva la pantomima in cui la trama è resa evidente non dalla parola, ma dal gesto e dalla danza. Si formò allora quella tradi­zione del 'gigione', grossolano, volgare, che arro­ta gli occhi, che smorfieggia, gesticoloso, cui an­cora oggi i nostri attori si ispirano. Roma ebbe i suoi Totò e Macario in Esopo e Roscio, le vedettes di quel tempo, che commettevano strava­ganze per farsi pubblicità, mandavano in delirio le platee coi loro sketches scollacciati e pieni di doppi sensi, diventarono i 'cocchi nostri' dei sa­lotti aristocratici, si prendevano per amanti le gentildonne più in vista, guadagnavano fior di milioni e lasciavano in eredità dei miliardi. Essi avevano ora nelle loro compagnie anche delle donne, le girls del tempo, che venendo a causa di questa professione ufficialmente equiparate alle prostitute, non avevano più nulla da perdere in fatto di pudore e contribuivano senza ritegno alla oscenità degli spettacoli.



La libidine dell'applauso spesso portava que­sti interpreti a rappresentare scene colme di al­lusioni politiche in barba alla censura, come sem­pre capita nei regimi di tirannia, quando nessuno osa dir qualcosa, ma tutti vanno in visibilio per chi lo fa. La sera dei funerali di Vespasiano, un attore ne parodiò il cadavere drizzandosi nella bara e chiedendo ai beccamorti: «Quanto costa questo trasporto?». «Dieci milioni di sesterzi». «Be', datemene centomila», rispose il cadavere, «e buttatemi nel Tevere». Che era, bisogna riconoscerlo, un'uscita in tono col carattere del de­funto. All'empio andò bene, perché il successore era Tito. Ma pochi anni prima Caligola aveva fatto bruciar vivo l'autore d'un'allusione molto più timorata.

Mentre il teatro scadeva così nella rivista di varietà, sempre più cresceva la fortuna del Circo. Cartelli murali come quelli che oggi annunziano i film, annunziavano gli spettacoli atletici. Essi costituivano l'argomento del giorno, se ne discu­teva appassionatamente in famiglia, a scuola, nel Foro, alle Terme, in Senato, e perfino il giornale, Acta diurna, ne faceva la presentazione e la re­censione. Il giorno delle gare, folle di centocin­quanta o duecentomila persone si avviavano al Circo Massimo, come oggi allo stadio, recando fazzoletti coi colori della squadra del cuore, e i maschi facendo sosta, prima di entrare, nei bor­delli che si allineavano ai lati degl'ingressi. I dignitari avevano palchi a parte con sedili di mar­mo ornato di bronzo. Gli altri si sistemavano su panche di legno, dopo essere andati a frugare ne­gli escrementi dei cavalli per assicurarsi ch'era­no stati nutriti a dovere, aver impegnato fin la camicia nelle scommesse ed essersi procurati un panino e un cuscino perché lo spettacolo durava tutta la giornata. L'imperatore aveva addirittu­ra, per sé e la famiglia, un appartamento con camere da letto per schiacciarvi un pisolino fra una gara e l'altra, e l'immancabile bagno per le abluzioni e altre comodità.

Come oggi, cavalli e fantini appartenevano a scuderie private, ciascuna con la propria casac­ca di cui le più famose erano le rosse e le verdi. Le corse al galoppo si alternavano con quelle al trotto con due, o tre, o quattro cavalli. Quasi tutti schiavi, i conducenti portavano elmetti di metal­lo, tenendo in una mano le briglie, nell'altra la frusta, e a tracolla un coltello con cui tagliare i finimenti in caso di caduta. Era un caso frequen­te perché la corsa era spericolata, come lo è oggi quella del Palio a Siena. Si dovevano percorrere sette circuiti, cioè altrettanti chilometri, attorno alla ellittica arena, evitando le metae e prenden­do le curve quanto più stretto si poteva. I calessi­ni entravano facilmente in collisione, e bipedi e quadrupedi ruzzolavano giù con stanghe e ruo­te per essere schiacciati dagli equipaggi che so­praggiungevano. Tutto questo in mezzo ai boati degli spettatori che atterrivano i cavalli.

Ma i numeri più attesi erano le lotte gladiato­rie: fra animale e animale, fra animale e uomo, fra uomo e uomo. Il giorno in cui Tito inaugurò il Colosseo, Roma spalancò gli occhi per la me­raviglia.

L'arena poteva essere abbassata e inondata come un bacino lacustre, oppure riemergere di­versamente addobbata, come un pezzo di deserto o un ciuffo di giungla. Una galleria di marmo era riservata agli alti dignitari, e in mezzo si elevava il suggestum, o loggia imperiale, con tutti i suoi accessori, dove imperatore e imperatrice sede­vano su troni d'avorio. Chiunque poteva avvicinarsi al sovrano a impetrare una pensione, un trasferimento, la grazia per un condannato. Ad ogni angolo fontane lanciavano in aria zampilli di acqua profumata; e nei ridotti si preparavano i tavoli per gli spuntini fra un numero e l'altro. Tutto era gratuito: ingresso, sedile, cuscino, ar­rosto, vino.

Il primo numero fu la presentazione di ani­mali esotici, molti dei quali i romani non avevano ancora mai visto. Fra elefanti, tigri, leoni, leopar­di, pantere, orsi, lupi, coccodrilli, ippopotami, giraffe, linci eccetera ne sfilarono diecimila, e molti erano caricaturalmente addobbati per pa­rodiare personaggi della storia o della leggenda. Poi l'arena fu tirata giù e riemerse adattata al combattimento: leoni contro tigri, tigri contro orsi, leopardi contro lupi. Insomma, alla fine dello spettacolo, solo la metà di quelle diecimila povere bestie era viva. L'altra metà era scom­parsa nella loro pancia. Poi di nuovo l'arena fu tirata giù e riemerse addobbata a plaza de toros. La corrida, già praticata dagli etruschi, era stata poi importata a Roma da Cesare che l'aveva vi­sta a Creta. Egli aveva un debole per queste feste, ed era stato il primo a offrire ai suoi concit­tadini un combattimento di leoni. Quello col toro piacque enormemente ai romani che vi si appas­sionarono subito e da allora in poi lo reclamarono sempre. I toreri non conoscevano il mestiere ed erano quindi destinati alla morte. Infatti veni­vano scelti fra gli schiavi e i condannati, come tutti gli altri gladiatori del resto. Molti di essi non combattevano nemmeno. Dovevano rappre­sentare qualche personaggio della mitologia e subirne per davvero la tragica fine. Per ravvi­vare la propaganda patriottica, uno veniva pre­sentato come Muzio Scevola e obbligato a bru­ciarsi la mano sui carboni, un altro come Ercole cremato vivo sulla pira, un altro come Orfeo sbranato mentre suonava la lira. Volevano es­sere insomma degli spettacoli 'edificanti' per la gioventù e come tali essi non erano affatto vie­tati ai minori dì sedici anni, anzi.

Seguivano i combattimenti fra gladiatori, tut­ti condannati a pene capitali per omicidio, ra­pina, sacrilegio o ammutinamento, ch'erano i de­litti per i quali la morte veniva inflitta. Ma quan­do ce n'era carestia, compiacenti tribunali con­dannavano a morte anche per altri motivi molto meno gravi: Roma e i suoi imperatori non po­tevano fare a meno di questa carne umana da macello. Tuttavia c'erano anche i volontari, e non tutti di bassa estrazione, che s'iscrivevano alle apposite scuole per poi combattere nel Cir­co. Erano forse le più serie e rigorose scuole di Roma. Vi sì entrava quasi come in seminario, dopo aver giurato dì essere pronti a farsi 'fru­stare, bruciare e pugnalare'. I gladiatori ave­vano, ad ogni combattimento, una probabilità su due di diventare eroi popolari, cui i poeti de­dicavano i loro carmi, gli scultori le loro statue, gli edili le loro strade e le signore le loro grazie. Prima della gara si offriva loro un pantagruelico banchetto. E, se non vincevano, avevano l'obbligo di morire con irridente indifferenza. Si chia­mavano con vari nomi secondo le armi che usa­vano, e ogni spettacolo contava centinaia di que­sti duelli che potevano anche finire senza il mor­to se il soccombente, essendosi condotto con co­raggio e bravura, veniva graziato dalla folla col gesto del pollice alzato. A uno spettacolo offerto da Augusto e durato otto giorni, diecimila gla­diatori presero parte. Guardiani vestiti da Ca­ronte e da Mercurio pungevano i caduti con for­coni acuminati per vedere se erano morti, i si­mulatori venivano decapitati, schiavi negri appilavano i cadaveri e portavano nuova sabbia per i combattimenti successivi.

Questo modo di divertirsi al sangue e alle torture non sollevava obiezioni nemmeno fra i moralisti più severi. Giovenale, che criticava tut­to, era un tifoso del Circo e lo trovava del tutto legittimo. Tacito ebbe qualche dubbio; ma poi riflette che quello che si versava nell'arena era 'sangue vile' e con questo aggettivo lo giustificò. Perfino Plinio, il più civile e moderno gentiluo­mo di allora, trovò che quei massacri avevano un valore educativo perché abituavano gli spettato­ri allo stoico disprezzo della vita (altrui). Non parliamo di Stazio e Marziale, i due poeti loda­tori di Domiziano, che nel Circo passavano la vita e vi attinsero le loro ispirazioni poetiche. Stazio era un napoletano che si era fatto un bel nome con un brutto poema, La Tebaide, aveva recitato nei teatri, fu invitato a pranzo dall'im­peratore e, per farlo sapere a tutta Napoli, ci scrisse sopra un libro rappresentando Domiziano come un dio e dedicandogli le sue Silvae, che sono le sole poesie leggibili di questo autore. Morì sui cinquant'anni, quando già la sua stella era offuscata da Marziale che cercava le sue ispira­zioni soprattutto nel Circo e nel bordello.

Marziale era uno spagnolo di Bilbao che ven­ne a Roma a ventiquattr'anni e vi godè la pro­tezione dei suoi compatrioti Seneca e Lucano. Perché gli spagnoli allora si aiutavano, come fanno oggi i siciliani. Non fu un gran poeta. Ma anticipò Longanesi nella 'battuta', che lasciava il segno come un morso. «Le mie pagine sanno di uomini», diceva; ed è vero. I suoi personaggi sono di basso rango perché li sceglieva in quegli ambienti malfamati delle prostitute e dei gla­diatori; ma appunto per questo sono vivi nella loro) volgarità e abiezione. Era lui stesso un tipo piuttosto ignobile. Piaggiò Domiziano, ca­lunniò i suoi benefattori, visse nei bassifondi mangiandosi i soldi in vino, dadi e scommesse alle corse. Ma non seppe cosa volesse dire reto­rica, i suoi Epigrammi rimangono il più perfetto monumento del genere, e la testimonianza ch'egli ci ha lasciato di Roma è forse la più autentica. Finì per tornarsene a Bilbao, ch'era allora un paesello, dove visse, tanto per cambiare, alle spalle di un amico che gli regalò una villa, e dove, di Roma, rimpianse una cosa sola: il Circo, non avendo più l'età per rimpiangere anche l'al­tra: i bordelli.

Soltanto Seneca ci ha lasciato una condanna dei giuochi gladiatori che dice di non aver mai frequentato. Egli andò a visitare il Colosseo una volta sola, e rimase sbigottito. 'L'uomo, la cosa all'uomo più sacra, qui viene ucciso per sport e divertimento', scrisse tornando a casa.

Ma il fatto è che questo sport e divertimento era ormai in tono col livello morale di una Roma non ancora cristiana, ma non più neanche pa­gana. L'imperatore che vi presiedeva era anche l'Alto Sacerdote, cioè il papa, di una religione di stato che non trovava nulla da obiettare a simili ignominie per il semplice motivo che non credeva più a niente essa stessa. Celebrava le feste con una liturgia sempre più complicata, in­nalzava templi sempre più fastosi, creava nuovi idoli come Annona e Fortuna. Ma a sorreggerli c'erano soltanto dei capitelli di marmo. La fede,  no. Essa era monopolio di quelle poche centinaia o migliaia di cristiani, soprattutto ebrei, che, in­vece di andare al Circo a tripudiare per la morte degli uomini, si riunivano nelle loro piccole ec­clesiae a pregare per la loro anima.



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