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IL REGNO DI FERDINANDO II DAL 1844 FINO ALL'EMANAZIONE DELLA COSTITUZIONE (19-1-1848)

Storia



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IL REGNO DI FERDINANDO II DAL 1844 FINO ALL'EMANAZIONE DELLA COSTITUZIONE (19-1-1848)

II regno di Ferdinando II fu caratterizzato da un mo­vimento culturale-politico promosso da uomini nobilmente e tenacemente amanti di patria e di libertÀ.

Al centro di tale movimento trovavasi sempre il nome dei Poerio, famiglia calabrese trapiantata a Napoli, nota ai concittadini per la dignitÀ, la dirittura e la fermezza dei principi dei suoi componenti: Giuseppe, onorato giu­rista di grande sapere; Raffaele, suo fratello, esule in Grecia, Inghilterra e Francia; Alessandro e Carlo, figli di Giuseppe, filosofo e poeta il primo, morto eroicamente alla difesa della repubblica di Venezia, mentre il secondo a lungo patÃŒ il carcere borbonico.



Intorno ai Poerio si radunava la parte migliore di Napoli e fra essi Francesco Paolo Bozzelli, il quale aveva per programma di ottenere il reggimento libero per virtÙ dell'opinione pubblica la quale persuadesse i Borboni e concedere lo Statuto; Matteo de Augustinis che nel 1844, rimproverato da un poliziotto che era an­dato ad arrestarlo gli rispondeva che: « il mio male È incorreggibile perché È amore di patria e di libertÀ »;

Mariano D'Ayala, ufficiale dottissimo nelle discipline mi­litari, lasciato l'esercito, viveva scrivendo libri storici. E ancora: Michele Primicerio, Cosimo e Damiano Assanti, Felice Pierri, Ottavio Graziosi e Cesare de Marini. Il 15 agosto moriva Giuseppe Poerio e Francesco Paolo Bozzelli ne salutÃ’ la salma dicendo: «i veri morti siamo noi che rimaniamo privati della di lui nobile amicizia ».

Nel 1844 gli episodi di Cosenza provocarono l'arresto dei cospiratori napoletani; arresto al quale non fu estra­nea, come al solito, l'opera delle spie, e molti, tra cui Carlo Poerio D'Ayala e de Augustinis vennero rinchiusi nel forte di Sant'Elmo. Ma la loro prigionia fu alleviata da un episodio che rivelÃ’, ancora una volta, la grande saggezza napoletana derivante da almeno tremila anni di alterni movimenti politici e dal susseguirsi di varie ci­viltÀ. Saggezza che sapeva far rientrare nelle giuste pro­porzioni ogni umana azione, rimpicciolendola giudiziosa­mente con la innata capacitÀ di autocritica e di satirica bonomia dei popoli meridionali; ed ecco quanto avvenne.

Il comandante del forte era il generale Michelangelo Ruberti col quale i detenuti strinsero in breve la piÙ schietta amicizia, tanto che taluni di essi, dopo la loro liberazione, divennero frequentatori della casa e commen­sali del loro carceriere di poco prima. Comunque, all'in-fuori della bonomia del generale Ruberti, È certo che il regime carcerario del forte di Sant'Elmo non era intolle­rabile. Il D'Ayala vi continuÃ’ a scrivere le vite dei piÙ celebri capitani e soldati napoletani, visitato assiduamente dalla moglie che si recava lassÙ col loro bambino in brac­cio e accompagnata da Alessandro Poerio; tutti riceve­vano il desinare da casa e potevano passeggiare per un'ora nella piazza d'armi del forte, facevano lettura di canti di Dante seguita da discussioni letterarie e filosofiche, men­tre la sera venivano ricevuti nell'appartamento del gene­rale comandante del forte. Siccome tanto il Graziosi che il de Augustinis avevano lasciato la famiglia senza mezzi di sussistenza, avevano chiesto la libertÀ provvisoria per riprendere le proprie occupazioni abituali, e il Re rispon­deva mandando al generale Ruberti una cambiale di cento ducati il cui importo era da distribuirsi ai piÙ bisognosi. Ma tutti rifiutarono il dono e tornarono a rifiutarlo quan­do la somma fu rimandata al Ruberti, il quale poi la re­stituÃŒ definitivamente al ministro Del Carretto.

Questi liberali, di tendenze moderate, non erano aprio­risticamente avversi al Borbone; alcuni di essi, al pari di Giuseppe Poerio, del quale veneravano l'insegnamento e la memoria, erano rispettosi del Re e fiduciosi di poterlo guadagnare al reggimento costituzionale. Il D'Ayala, che lo aveva conosciuto di persona era persuaso che Ferdi-nando poco colto  ma intelligentissimo, poteva ritenersi suscettibile di avviamento alla comprensione delle idee liberali, mentre Carlo Poerio « metteva in salvo e in alto » la persona del regnante Borbone. Invece Raffaele e Alessandro Poerio erano di diverso parere e guarda­vano con sospetto a quel Re da essi stimato autoritario, bigotto e motteggiatore.

Quando nel settembre del 1845 si riunÃŒ a Napoli il 7° congresso degli scienziati italiani, il Re fu con essi largo di cordiali accoglienze e di entusiasti discorsi uffi­ciali tanto che tra detti scienziati si sparse la convinzione che volesse dimostrare che su lui, piÙ che su Carlo Al­berto, dovessero puntare le speranze dei liberali italiani. In quegli anni la gioventÙ studiosa dell'Italia meridio­nale leggeva con grande interesse le opere del filosofo calabrese Pasquale Galluppi nato a Tropea nel 1770 e morto a Napoli nel 1846. Detto filosofo pubblicÃ’ nel 1807

11 suo primo saggio filosofico « Su l'analisi e su la sin­tassi » e piÙ tardi maturÃ’ una grande opera: il « Saggio filosofico sulla critica della conoscenza » in sei volumi e nel 1827 pubblicÃ’ una storia critica delka filosofia moderna, ossia le « Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia relativamente ai principi delle conoscenze uma­ne da Cartesio a Kant inclusivamente » e poi ancora la « Filosofia di V. Cousin ». Nel 1832 pubblicÃ’ le « Le­zioni di logica e metafisica ad uso dell'UniversitÀ di Na­poli » e nel 1834 la « Filosofia della volontÀ » e nell'Uni­versitÀ di Napoli il Galluppi rese familiare alla gioventÙ napoletana il movimento filosofico della Germania e quin­di gli studiosi appresero la lingua tedesca e lesserÃ’ i testi originali dei filosofi nordici Kant, Fichte, Schelling, Hegel. Tra gli studiosi emergevano i fratelli Bertrando e Silvio Spaventa e il marchese Caracciolo.

Stefano Cusani e C. Aiello tradussero e commentarono tutta l'enciclopedia hegeliana e altri studiosi compresi Angelo de Meis e Stanislao Gatti e tutta questa serie di giovani colti si riuniva giornalmente al « CaffÈ delle Bel­le Arti » e lÀ si discuteva di lettere e di filosofia occu­pandosi anche della questione nazionale, con grave cruc­cio e preoccupazione del ministro Del Carretto.

Un tale Girolamo Corsini, bolognese, aveva aperto a via Toledo un gabinetto di lettura e tra i piÙ assidui frequentatori erano Carlo Poerio e i suoi amici e oltre ad essi frequentava il ritrovo anche il solitario Francesco De Sanctis professore al Reale Collegio Militare dell'Annunziatella.

Nel 1846 giungeva nel Regno delle Due Sicilie la no­tizia dell'elezione del nuovo Papa, ossia Pio IX, nonché delle agitazioni e delle speranze romane.

A Napoli la parte colta della popolazione, educata alle dottrine anticlericali del Giannone e insegnate dalla cat­tedra dal Genovesi, era portata ad apprezzare piÙ che le teorie dell'ex cappellano della corte di Torino, Vincenzo Gioberti, quelle di Giambattista Niccolini il quale dalle rive dell'Arno gridava: « dai preti libertÀ non voglio ». Ciononostante i giovani napoletani, decisi di approfittare di qualunque occasione per avvicinare l'ora della libertÀ, si dettero a ripetere con ammirazione e speranza il no­me di Pio IX. Il governo reagÃŒ ordinando che si organiz­zasse la massima vigilanza affinchÈ le stampe, provenienti da Roma, non entrassero nel regno, mentre un perio-dico gesuitico, dal titolo « Scienza e fede » accusava di settarismo il nuovo Pontefice ed aiutava la polizia bor­bonica affinchÈ venisse impedita l'entrata di ogni libro e di ogni stampato che trattasse di argomenti morali e po­litici, mentre il Governo napoletano si avvicinava all'Au­stria con la quale sentiva di avere identitÀ di paure e solidarietÀ di interessi.

La Sicilia si mostrÃ’ molto sensibile al soffio delle agi­tazioni che fermentavano nella penisola, anche perché una pubblicazione postuma di Nicola Palmieri, intitolata « Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia » con una appendice « Sulla rivoluzione del 1820 » di Michele Amari, esule a Parigi, era venuta ad imprimere una nuova poderosa spinta al movimento di unificazione dell'Italia tutta, facendo germinare nell'isola il pensiero nazionale al di fuori e al di sopra della su­premazia di Napoli e della Corte borbonica.

Il patriota siciliano Giuseppe La Masa partito da Na­poli il 3 gennaio 1848 giunse a Messina il 5 dello stesso mese e l'8 giungeva a Palermo dove si incontrava col barone Vincenzo Errante e con gli amici Peratoner e Scoppa e il 12 gennaio 1848 ebbe luogo la prima dimo­strazione pubblica con coccarde tricolori e grida inneg-gianti alla Costituzione.

Quel giorno si ebbero i primi scontri tra patriotti e polizia e i primi caduti per la causa della libertÀ e primo tra i primi, Pietro Amodeo.

Giuseppe La Masa improvvisata una bandiera trico­lore e seguito da un pugno di audaci, organizzata una colonna di rivoltosi, fece suonare le campane della chiesa

di Santa Orsola e poi quelle del convento della Gancia, mentre la folla accorsa gridava « Viva la Costituzione ». A questo punto i conflitti fra truppa e rivoltosi au­mentarono e si aggravarono, le coccarde tricolori appar­vero in gran numero e nonostante che le truppe ammon­tassero a seimila fanti e settecento cavalieri oltre a nu­merosa artiglieria, le forze armate sentivano crescere in­torno a loro l'ira popolare e la volontÀ pugnace dei com­battenti tricolorati. Si formÃ’ intanto un Comitato prov­visorio del quale È bene ricordare i nomi dei componenti alcuni dei quali, oltre al La Masa ritroveremo tra i Mille quando Garibaldi sbarcherÀ in Sicilia nel 1860. Eccoli: Presidente La Masa, Carlo Ventimiglia, principe di Grammonte, Antonio Jacone, Giulio Carini, Andrea D'Ondes-Reggio, Damiano Lo Cascio, Sebastiano Corteggiani, Giu­seppe Oddo, Guglielmo Velasco, Vito Ragona, Salvatore Castiglia, Rosolino Pilo, Pasquale Moro.

Il La Masa provvedeva intanto a mandare messaggi annunzianti la rivolta di Messina, Napoli, Firenze, Roma e negli Abruzzi e mentre dava alle pattuglie la nuova e spontanea parola d'ordine: «Viva la Sicilia, Viva Pio IX», gruppi di contadini armati arrivavano dai paesi limitrofi. Il 14 gennaio si riunirono nel palazzo municipale molti cittadini tra i piÙ noti per censo e onorevole passato e tra essi il gonfaloniere marchese Spedalotto Ruggero Settimo, l'avvocato Vincenzo Errante, Vito Beltrami, il barone Casimiro Pisani, il conte Tommaso Maurone, il duca di Serra di Falco, il duca di Monteleone, il prin­cipe di Pantelleria, Francesco Trigona di Sant'Elia, i qua­li con il La Masa, Castiglia, il barone Bivana e Ignazio Calena e molti altri, costituirono un'assemblea divisa in quattro comitati: uno per l'annona, uno per le armi e munizioni, presieduto dal principe di Pantelleria, uno per il tesoro, presieduto dal marchese Di RudinÃŒ e l'altro per la propaganda presieduto da Ruggero Settimo. La persona piÙ autorevole era tra tutti, quella di Ruggero Set­timo dei principi di Filatia che nato nel 1778, aveva raggiunto il grado di retroammiraglio nella marina bor­bonica e aveva ricoperto l'incarico di ministro durante il primo governo costituzionale siciliano instaurato nel 1812 durante il periodo nel quale la corte borbonica si era rifugiata in Sicilia protetta dalla flotta di Nelson.

Nel 1820 era stato vicepresidente della giunta provvi­soria di governo durante la rivoluzione siciliana e poi si era ritirato a vita privata.

Era un uomo di grande valore e di grande rettitudine il quale con altri insigni Siciliani, per primi in Italia avevano tradotto in realtÀ di fatto e da ben trentasei anni, un governo costituzionale. Naturalmente con la ca­duta di Napoleone e con la reazione europea a capo della quale fu posta la Santa Alleanza, il governo costituzionale, siciliano fu travolto.

A giudizio del martire piemontese Santorre di Santarosa, la costituzione siciliana del 1812 era da preferirsi a quella promulgata in Spagna che, dopo otto anni, fu presa a modello prima a Napoli durante i moti del 1820 e poi in Piemonte nel 1821.

Il 15 gennaio 1840 giungeva nel porto di Palermo una flotta napoletana composta di cinque fregate a va­pore e di quattro corvette, (comandante era il Conte d'Aquila fratello del Re) che trasportavano cinquemila soldati con adeguata artiglieria. La popolazione, in un primo momento si sgomentÃ’, ma poi sia il La Masa che Mariano Stabile reagirono e trascinarono i ribelli — pri­ma resistendo, poi respingendo l'assalto, delle truppe re­gie. Queste per vendicarsi di alcune fucilate partite dalle finestre del convento dei Benedettini bianchi, l'assalirono uccidendo frati e cittadini.

Tale fatto eccitÃ’ ancor piÙ l'animo dei rivoltosi che occuparono il convento ed uccisero e fecero prigionieri quanti soldati trovarono. Di fronte al fiero contegno dei rivoltosi, il comandante dell'esercito regio entrava in trat­tative con gli insorti, i quali gli comunicarono che essi intendevano riavere la loro costituzione del 1812 e allora il Conte d'Aquila lasciava Palermo e si recava a Napoli per rendere edotto il Re della situazione che si era creata in Sicilia. A Napoli si decise di fare qualche concessione agli insorti, ma questi non se ne accontentarono e rispo­sero che non avrebbero deposto le armi se prima non si desse alla Sicilia la vecchia « costituzione » siciliana. E la lotta fu ripresa. Il 24 gennaio il comitato generale palermitano nominava suo presidente Ruggero Settimo e segretario Mariano Stabile e dopo alterne vicende i sol­dati regi abbandonarono prima il palazzo reale e poi ad­dirittura il castello e Palermo rimase in mano ai patriotti.

Ben presto altri centri siciliani quali CefalÙ, Castrogiovanni (l'odierna Enna), Leonforte, Mazzara, Piazza, Armerina, Acireale, Caltagirone, seguirono l'esempio di Palermo e tutti innalzarono la bandiera tricolore. Lo stes­so avvenne a Messina, dove i ribelli resistevano al bom­bardamento operato dalle truppe regie asserragliate nel forte, dando cosÃŒ esempio di sublime coraggio; e tra gli eroi messinesi va ricordata una povera tosatrice di cani, Rosa Donato, che con un cannoncino trascinato su di un carretto e aiutata da un artigliere, con trentadue colpi bene aggiustati detto molto fastidio ai sordati borbonici che tentavano di fare delle sortite dal forte mentre le loro batterie continuavano a bombardare la cittÀ.

Insorsero poi anche Noto e Siracusa e in tutta la Si­cilia il moto ebbe completo successo, e il 3 febbraio del 1848 giungeva a Palermo la notizia che Ferdinando II aveva concesso un'amnistia e la costituzione.

Le truppe regie si imbarcarono per Napoli e la Sicilia tutta, per merito di dirigenti prodi ed autorevoli, al prez­zo di centinaia di vittime tra nobili, borghesi e popolani

caduti combattendo, aveva riconquistata la propria Co­stituzione, inducendo cosÃŒ, Napoli e poi tutti gli abitanti degli stati e staterelli nei quali era divisa la penisola, a sollevarsi per ottenere altrettanto dai propri governanti. Evacuata la cittÀ di Palermo dalle truppe regie, imbar­catesi sui navigli napoletani, il 5 febbraio il popolo pa­lermitano accorreva alla cattedrale per solennizzare l'av­venimento mentre nell'isola la bandiera regia sventolava ancora sulla cittadella di Messina e sui forti di Siracusa, Augusta e Milazzo.

A questo punto È doveroso ricordare al lettore, per dare il merito a chi ne ha diritto, come non solo la prima Costituzione italiana fu quella elargita in Sicilia nel 1812, ma anche nel 1820 i primi moti italiani, per avere una Costituzione, furono quelli siciliani e napoletani. Ma tutto questo non È mai stato posto in evidenza, arrivando al punto che nei libri di testo tali veritÀ si sono sempre ignorate o esposte di passaggio come secondarie dal punto di vista storico e, È bene ripetere, sottacendo anche come i pensatori, i filosofi, in una parola la cultura meridionale, non solo precedette l'analogo movimento rinnovatore del­le altre regioni italiane, ma precedette anche la stessa opera degli illuministi francesi prima della rivoluzione scoppiata in Francia nel 1789.

Ferdinando II fin dal novembre 1847, in considera­zione delle agitazioni politiche e delle dimostrazioni po­polari che si ripetevano periodicamente nelle varie provincie della penisola, aveva deciso di effettuare dei muta­menti nella compagine ministeriale nominando una Com­missione composta da vari ministri con e senza porta­foglio ed incaricata di studiare i rimedi piÙ adatti a tran­quillizzare la popolazione. Relatore nella Commissione era stato nominato il giurista Nicola Nicolini, il quale presentÃ’ le sue conclusioni che soprattutto riguardavano un miglioramento della pubblica amministrazione. Ma il Consiglio di Stato non gradÃŒ l'opera della Commissione soprattutto per la responsabilitÀ che a tale Consiglio ve­niva attribuita riguardo all'amministrazione in atto.

Il Nicolini, invece, con un'altra relazione in data 4 gen­naio 1848, ribadÃŒ le sue conclusioni.

I liberali intanto facevano ogni giorno di piÙ cono­scere il loro modo di pensare, finché il 13 gennaio giun­sero da Palermo le prime notizie della rivoluzione sici­liana.

Ferdinando li riunito il Consiglio dei ministri, deci­deva di intervenire militarmente nell'isola. Naturalmente, i cospiratori napoletani intensificarono la loro azione sia in cittÀ che nelle varie provincie della penisola, nono­stante che Ferdinando II il 20 gennaio 1848 ordinasse la scarcerazione di quanti fossero in attesa di giudizio per motivi politici e il 23 graziasse i condannati politici come Carlo Poerio, Giannandrea e Stefano Romeo e il Pellicano, arrestati nel 1847 per i tumulti calabresi e siciliani.

Intanto nel Cilento dilagava la sommossa e a Vallo fu costituito un governo provvisorio. Ferdinando II spaven­tato mandÃ’ a chiamare il D'Ayala, liberale, e gli disse che avrebbe volentieri elargita la Costituzione, ma desi­derava che gli fosse richiesta in forma ufficiale.

In seguito a ciÃ’ D'Ayala, Poerio e Bozzelli compila­rono una petizione con la quale si richiedeva il ripristino della Costituzione del 1820.

Il ministro del Carretto cercÃ’, con uno stratagemma, di impedire che la petizione venisse accolta dal Re, il quale informato delle intenzioni di del Carretto, lo fece arrestare dal generale Carlo Filangeri e imbarcare su di una nave e mandato fuori d'Italia e siccome né a Livorno, né a Genova, né a Marsiglia, riuscÃŒ a sbarcare, si rifugiÃ’, in incognito in Provenza.

I liberali napoletani venuti a conoscenza dell'espulsio-

ne di del Carretto e poi anche di quella di Monsignor Code, altro retrogrado, organizzarono una dimostrazione popolare in onore del Re, ma con bandiere tricolori. La Reggia ne fu allarmata, ma sopraggiunse il generale Statella avversario di del Carretto e sia tale generale che il Filangeri, dichiararono al Re che: « proclamando lo Statuto cadrÀ l'impeto dei liberali e Vostra MaestÀ rego­lerÀ i destini d'Italia, giacché sarÀ il primo a pronun­ciare l'affascinante parola ».

Il Re cambiÃ’ subito i componenti del Ministero sosti­tuendoli con persone nuove e non compromesse in pre­cedenti provvedimenti reazionari e il 29 gennaio 1848 fece pubblicare il seguente decreto: « Avendo inteso il voto generale dei Nostri amatissimi sudditi di avere delle garanzie e delle istituzioni conformi all'attuale incivili­mento, dichiariamo di essere Nostra volontÀ di condiscen­dere ai desideri manifestati, concedendo una Costituzione, e perciÃ’ abbiamo incaricato il Nostro Ministero di Stato di presentare non piÙ tardi di dieci giorni un progetto, per essere da Noi approvato, sulle seguenti basi: il potere legislativo sarÀ esercitato da Noi e da due Camere, cioÈ una di Pari e l'altra di Deputati; la prima sarÀ composta di individui da Noi nominati, la seconda sarÀ di Deputati da scegliersi dagli elettori, sulle basi di un censo, che verrÀ fissato; l'unica religione dominante sarÀ la Catto­lica, Apostolica, Romana e non vi sarÀ mai tolleranza di altri culti; la persona del Re sarÀ sempre sacra ed invio­labile; i ministri saranno responsabili di tutti gli atti del Governo; le forze di terra e di mare saranno dipendenti dal Re; la guardia nazionale sarÀ organizzata in modo uniforme in tutto il Regno, analogamente a quella della capitale; la stampa sarÀ libera e soggetta soltanto ad una legge repressiva per tutto ciÃ’ che puÃ’ offendere la morale, l'ordine pubblico, il Re, la Famiglia Reale, i Sovrani esteri e le loro famiglie, nonché l'onore e gli interessi dei particolari. Facciamo nota al pubblico questa Nostra sovrana e libera risoluzione e confidiamo nella lealtÀ e rettitudine dei Nostri popoli, per veder mantenuto l'ordine e il ri­spetto dovuto alle leggi ed alle autoritÀ costituite ».

Si narra che dopo aver firmato tale documento, Ferdi-nando II, col suo fare burlesco, dicesse ai ministri pre­senti: « Don Pio IX e Carlo Alberto hanno voluto get­tarmi un bastone tra le gambe, ed io getto loro questa trave; spassiamoci ora tutti quanti ». Evidentemente si deve trattare di una leggenda che poteva anche non con­siderarsi inversomile dato che sia Pio IX che Carlo Al­berto non avevano, fino ad allora, concesso lo Statuto e, soprattutto, rimasero, sia l'uno che l'altro, fortemente turbati quando arrivÃ’ nei loro Stati la notizia di quanto aveva fatto Ferdinando IL

In Sicilia la notizia dell'avvenuta concessione della Co­stituzione da parte del Re non entusiasmÃ’ i Siciliani perché essi desideravano che fosse elargita la loro Costi­tuzione del 1812 che giudicavano migliore e piÙ consona alla situazione dell'isola.

Per tale ragione sia il Governo di Napoli che i patriotti siciliani si rivolsero a Lord Napier ambasciatore di S.M. britannica a Napoli affinchÈ volesse fare da intermediario tra il Governo provvisorio siciliano e il Governo napo­letano onde raggiungere un accordo. Ma tale accordo si presentava molto difficile in quanto i Siciliani volevano avere un proprio e separato Parlamento e non un unico Parlamento, sia per la parte peninsulare del regno bor­bonico che per la Sicilia. Fu interessato al riguardo anche il Governo francese ma questo non volle occuparsene ben sapendo che la propria influenza, negli affari italiani, era di gran lunga inferiore a quella del Governo britannico.

Lo stesso Giuseppe Mazzini era rimasto molto turbato alla notizia del dissidio tra Siciliani e Napoletani e indi­rizzÃ’ ai Siciliani un messaggio per sanare tale divergenza9.

Intanto Messina, aiutata da Palermo che le aveva in­viato dei cannoni, si impadronÃŒ di alcune fortezze domi­nanti la cittÀ e il 12 marzo anche il forte di Milazzo ca­deva in mano ai patriotti. Ma da Napoli era giunto il maresciallo Pronio con vari vascelli, armati complessiva­mente con trecento cannoni e quindi la bandiera regia tornava a sventolare sulla fortezza di Messina mentre Lord Minto, rappresentante dell'Inghilterra, tentava di far giungere ad un accordo il governo provvisorio di Pa­lermo con quello di Napoli ma le notizie di una rivolu­zione repubblicana scoppiata in Francia turbarono mag­giormente le relazioni tra governo napoletano e siciliani, mentre le popolazioni della Toscana, degli Stati Sardi, degli altri staterelli della Val Padana e tutto il Lombardo-Veneto si mettevano in ebollizione.



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