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L'ESERCITO DI FRANCISCHIELLO PARTE PRIMA

Storia



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L'ESERCITO DI FRANCISCHIELLO PARTE PRIMA

Chi scrive tiene a dichiarare di essere orgoglioso di aver fatto parte del piemontese corpo dei bersaglieri e come tale di aver combattuto ad Oslavia, come del resto È orgoglioso di essere stato pilota militare comandante di una squadriglia da caccia. In conseguenza, ha sempre avuto una venerazione per l'esercito italiano e per i re­parti di lontana origine piemontese; e se esporrÀ idee e, soprattutto, fatti in contrasto con quanto la leggenda, spesso malevola, ha raccontato finora, circa l'esercito borbonico; e se metterÀ in evidenza la benemerenza e il valore di quanto di borbonico andÃ’ a far parte della marina e dell'esercito italiano, lo farÀ solo ed esclusiva­mente in omaggio alla veritÀ e alla convinzione che per amarsi e soprattutto per stimarsi reciprocamente, solo alla veritÀ si debba fare ricorso; che solo con la veritÀ si debba e si possa arrivare ad una vera unione, non sol­tanto economica e politica, ma profonda e spontanea; cosa questa che non puÃ’ essere altro che la conseguenza di una reciproca stima. Fatta questa premessa, chi scrive si accinge ad esporre fatti e opinioni nel campo militare, sempre suffragati da documenti, e lo fa per potere finalmente ridimensio­nare veritÀ storiche che spesso non erano né veritÀ, né storiche, ma solamente storielle, frutto di sorpassati stati d'animo che ormai si possono e soprattutto si debbono respingere come prodotti da un puerile provincialismo contrastante col sentimento di unitÀ che ormai, dopo un secolo, dovrebbe essere l'unico sentimento da nutrire nell'animo di tutti gli Italiani a qualsiasi grado di lati­tudine appartengano. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, quando si doveva rimproverare un bersagliere piuttosto « scal­cinato», ossia non eccessivamente efficiente dal punto di vista fisico, gli si diceva: « tu non sei un bersagliere, sei un soldato di Francischiello »; se poi tale « scalci­nato » proveniva da un distretto militare meridionale, il titolo veniva accompagnato anche da quello di « terra matta » o « terra ballerina », dato che l'Italia meridio­nale era il paese del terremoto. I meridionali si vendi­cavano battezzando i camerati del Nord come « cape 'e lignamme » ossia teste di legno 24.



Sorvolando, dato che se ne È parlato esaurientemente, sugli eroici lazzaroni che resistettero a Championnet in­vasore del Regno di Napoli, destando la di lui ammira­zione; sorvolando sui cosidetti briganti che erano — in molti casi — eroici partigiani, che difendevano la loro Patria, le loro case, la loro religione, le loro donne e fecero dire a Napoleone che erano valorosi, che sapevano combattere, dandogli molto filo da torcere; — non si puÃ’ fare a meno di ricordare, ancora una volta, che lo stesso Napoleone I elogiÃ’ i soldati napoletani che in Russia, tra l'altro, gli rimasero fedeli e combattivi anche durante la ritirata, quando in gran numero, soldati di altre nazionalitÀ si erano sbandati. Ricordato poi ancora che l'unico ufficiale italiano che seppe rintuzzare con la spada l'offesa sciocca fatta da Lamartine a tutti gli Italiani, scrivendo che l'Italia era una « terra di morti » fu il generale napoletano Gabriele Pepe, cugino di Guglielmo Pepe comandante di tutte le truppe veneziane durante l'eroica difesa di Venezia nel 1849, passiamo ad esaminare se l'esercito di « Franci-schiello » fosse veramente un esercito di vigliacchi o di incapaci o se fosse vero il contrario.

Essendo giÀ storicamente dimostrato come Ferdinan-do II giunto in prossimitÀ di Roma nel 1849 si ritirÃ’, non perché sconfitto, ma unicamente perché cosÃŒ volle Napoleone III, vediamo quale sia stato il comporta­mento dei soldati borbonici in Sicilia durante l'eroica e gloriosa impresa di Garibaldi con i suoi « Mille ».

La Sicilia da circa un mezzo secolo combatteva contro i Borboni per ragioni che avevano le loro radici profonde in tutte le classi sociali, essendo stata da secoli l'idea di indipendenza sentita e talvolta tradotta in realtÀ dai Siciliani.

Ferdinando II riuscÃŒ, È vero, a debellare la rivolta si­ciliana nel 1849 mediante l'opera del suo generale Filan-geri, ma si trattava di una vittoria momentanea e che non illudeva nemmeno lo stesso Ferdinando II, nono­stante le accoglienze calorose da lui ricevute in seguito da parte della popolazione di alcune cittÀ sicule. In Sicilia lo stato di rivolta era sempre rimasto laten­te e covava come fuoco nascosto, alimentato dallo spirito d'indipendenza dei Siciliani, dalla loro antipatia per la polizia e la burocrazia napoletane e, negli ultimi anni, alimentato anche dal desiderio di riavere la loro speciale Costituzione del 1812, elargita da Ferdinando IV duran­te il suo esilio in Palermo sotto la protezione della flotta di Nelson e sotto la guida di Lord Bentinck rap­presentante della Inghilterra in quell'isola. E l'Inghil­terra aveva tutto l'interesse di sottrarre quelle popola­zioni all'influenza napoleonica. Tra la fine del 1859 e i primi mesi del 1860, i pa-triotti siciliani ebbero la fortuna di essere guidati nella loro attivitÀ da un ardito combattente quale Rosalino Pilo e da un esule di grande ingegno che facendo la spola tra Malta, il Piemonte, la Francia e l'Inghilterra, aveva anche il fegato di rientrare in incognito nella Si­cilia stessa per coordinare le file delle congiure. Tale esule, divenuto poi un grande uomo di stato, si chiamava Francesco Crispi, e se a Garibaldi È dovuta la gloria di avere osato e portato al trionfo l'invasione dell'isola, a Francesco Crispi È dovuta quella di avere preparato tale invasione con un lavoro tenace e rischioso, e soprattutto di avere, col suo ingegno e con la sua convincente dia­lettica, deciso il duce dei « Mille » ad osare quello che ai piÙ sembrava una pazzia.

Sbarcato Garibaldi a Marsala, Crispi si trovava nel suo ambiente e, avendo la preparazione culturale e l'in­gegno adatto, fu il suo braccio destro politico: mentre La Masa, valoroso combattente di tutte le rivolte sici­liane, immediatamente si adoprava a far sollevare la popolazione delle varie provincie e a far affluire popo­lani, borghesi ed anche nobili, in aiuto dei garibaldini, ai quali non mancÃ’ nemmeno l'entusiastico concorso di frati e di preti patriottici.

Il primo scontro, tra i « Mille » e i borbonici, avven­ne a Calatafimi. E a proposito di questa gloriosa e com-battutissima battaglia, chi scrive si attiene al racconto del garibaldino giornalista toscano Giuseppe Bandi te­nente dell'esercito piemontese nel 1859 e poi maggiore nella guerra del 1866.

Giuseppe Bandi, lasciato il servizio militare, fu giorna­lista di valore e fondÃ’ «II Telegrafo» di Livorno; morÃŒ ucciso da un pazzo, il 10 luglio 1894. Giuseppe Bandi persona seria, modesta ed equilibrata, ha lasciato un aureo libro storico intitolato «I Mille da Genova a Capua».

GiÀ aiutante di Garibaldi nello sbarco a Marsala, fu l'estensore del primo proclama ai Siciliani emanato dal Condottiere a Salemi e, dopo cruento combattimento, fu ferito a CalatafÌmi.

Dal racconto di Giuseppe Bandi si apprende come i borbonici, soldati, sottoufficiali e ufficiali inferiori, com­batterono valorosamente, mentre generali e ammiragli avevano giÀ deciso di tradire il proprio Re. E il lettore diligente puÃ’ leggere particolari molto interessanti di quel combattimento decisivo per l'intera campagna, nella nota in appendice 25.

Bandi inoltre dice, e dice il vero, che lo stesso reggi­mento di cacciatori borbonici combattente a Calatafimi, a Montanara e a Curtatone nel 1848, aveva fatto prodigi di valore, e afferma che i sergenti borbonici che passa­rono nelle file garibaldine furono molti, tanto che un intero battaglione, comandato dal capitano Ferrandina, ex borbonico anche lui, aveva quasi tutti gli ufficiali ex sergenti di Francischiello. Questa È la prova che Garibaldi li ritenne, per le loro capacitÀ tecniche, degni della promozione ad uffi­ciale; e per valore uguagliavano almeno quelli che com­batterono davanti a Mantova, nel 1848, unitamente ai battaglioni toscani; tantoché per usare le parole del Bandi, i sottotenenti, ex sottufficiali borbonici, Caccavale e Certosini a Milazzo « parvero due leoni » e uno, il Certosini, davanti a Capua « morÃŒ da valoroso » con la fronte spaccata da una scheggia di granata.

E allora, ci si domanda, cosa era mai questo depre­cato esercito di Francischiello? E perché fu possibile per Garibaldi raggiungere Napoli con una marcia cosÃŒ rapida?

La prima ragione del successo sta nel fatto che Gari­baldi era Garibaldi, ossia un condottiero nel vero senso della parola. Magari non si occupava troppo delle buf­fetterie e aveva curiose idee sui fucili e asseriva che a Calatafimi si vinse perché i fucili erano catenacci inser­vibili per fare fuoco e si dovettero usare solo per andare all'assalto alla baionetta, sgominando, con un cosÃŒ im­prevedibile modo di combattere, truppe che avevano un'incontestabile superioritÀ di tiro e che, secondo Ga­ribaldi, erano truppe valorose. Inoltre Garibaldi era pre­ceduto dalla fama di buon condottiere da almeno venti anni, ed aveva voce ed occhi affascinatori; era aiutato da tipi come Bixio, TÙrr, Sirtori, Medici e cento altri, che in fatto di coraggio ne avevano da vendere.

Ma oltre a tutte queste ragioni e a quella, basilare, che gli alti comandi borbonici erano da tempo influen­zati dalle idee di UnitÀ italiana, ce ne fu un'altra, fonda­mentale, dovuta al modo di pensare di tutto il popolo siciliano. Il popolo siciliano era stato indipendente per secoli e da cinquanta anni voleva essere indipendente dal governo napoletano. Nel 1812 aveva avuto il primo Go­verno parlamentare e veramente democratico con una camera dei Comuni e una camera dei Pari.

Da cinquanta anni i siciliani passavano da una rivolta ad una rivoluzione, da una congiura ad una sommossa, ed erano in maggioranza popolo delle cittÀ, contadini e anche frati, monache, preti, baroni e principi, pronti ad aiutare e a partecipare, con guerra, guerriglie, imboscate, tranelli, ostruzionismi, alla guerra di liberazione.

Sbarcato Garibaldi a Marsala, dopo pochi giorni, per opera di La Masa e di altri nobili e borghesi patriotti come lui, accorrevano volontari a centinaia, i telegrafi furono danneggiati e se il Castelcicala, comandante mi­litare a Palermo non poteva mandare nessun corriere ad altre cittÀ, era perché detto corriere misteriosamente spariva; se i soldati borbonici (anche quelli che si ritira­rono da Calatafimi) venivano sorpresi da imboscate, se le stesse donne li assalivano e li seviziavano, se non trovava­no un bicchiere d'acqua o una mano soccorritrice, se in-

somma non potevano avere un momento di requie, altro che ritirandosi nei loro alloggiamenti, questo era effetto del concorde atteggiamento di tutto il popolo siciliano26.

Garibaldi aveva vinto non la battaglia di Calatafimi, ma la battaglia per la conquista di tutta la Sicilia. Ai Siciliani era stato detto, da parte borbonica, che il Garibaldi sbarcato a Marsala non era il famoso gene­rale, ma un brigante che aveva lo stesso nome, e che i suoi compagni erano un'accozzaglia di briganti! Ma quando sentirono le trombe dei «Mille», videro la ban­diera, e li videro avanzare in regolari file agli ordini dei loro comandanti e li videro combattere e vincere, allora si persuasero che l'ora della liberazione era realmente arrivata e tutta la isola ne fu rapidamente messa al cor­rente. E soprattutto ne fu informata la cittÀ di Palermo.

Accorrevano ad offrirsi a Garibaldi a centinaia i vo-lontari « picciotti », ossia i giovani siciliani; e mentre tutta la popolazione era esultante, le forze borboniche si avvilivano vedendo accrescere le ostilitÀ intorno a loro e vedendo la popolaritÀ di Garibaldi aumentare come fuoco di lava prorompente in ogni dove. Dalla Sicilia l'entusia­smo per l'unificazione della Patria, dopo aver percorso rapidamente tutto il territorio siculo, passÃ’ lo Stretto, mise fuoco negli animi calabresi e lucani e raggiunse il territorio napoletano in un tempo cosÃŒ breve che parve un miracolo agli stessi protagonisti dello sbarco a Marsala.

Avevano vinto Garibaldi e i garibaldini, ma con loro avevano vinto tutti i patriotti siciliani vivi e morti che da mezzo secolo, con la mente e con le armi, avevano iniziato la rivoluzione che portÃ’ all'UnitÀ d'Italia, auspi­cata da pochi sognatori repubblicani e messa in ridicolo fino a pochi mesi prima del trionfo garibaldino perfino da uomini politici della statura di Cavour.

I comandanti militari borbonici inviati in Sicilia erano vecchi e scoraggiati; capivano che i tempi stavano cambiando e che era inutile tentare di camminare a ritroso nella storia e non avevano l'entusiasmo necessario per seguitare a combattere. Ma i soldati si comportavano da eroi tanto È vero che lo stesso Garibaldi in una lettera scritta da Alcamo al «Comitato per il milione di fucili» a Milano, informava il detto Comitato che « i Napoletani si battono come leoni e certamente non ho avuto in Ita­lia combattimento cosÃŒ accanito e avversari cosÃŒ prodi ».

E quando l'esercito borbonico ebbe l'ordine da Fran­cesco II di lasciare Palermo e rimbarcarsi, evitando cosÃŒ la distruzione della cittÀ, cosa che sarebbe stata inevita­bile con un rinnovato bombardamento, i soldati napole­tani partirono a malincuore e il loro scontento lo comu­nicavano ad alta voce anche ai loro ufficiali, non poten­dosi rendere conto come in tanti e bene armati, si potesse cedere senza combattere. Ma i vecchi ufficiali non combat­tevano con convinzione e le decine di legni mercantili di tutti gli Stati stranieri, anche americani, che erano ancora­ti nel porto, avevano gli equipaggi e i loro stati maggiori che si dichiaravano apertamente favorevoli ai palermitani e ai loro liberatori, e contrari al governo di Napoli.

Era l'idea che decideva delle fortune militari e non la forza dei battaglioni, e l'idea in un porto dell'impor­tanza di quello di Palermo, aveva propagandisti in tutte le lingue che spontaneamente acclamavano i garibaldini e si mostravano ostili verso i soldati borbonici in mille modi e facevano, cosÃŒ, logicamente supporre un'ostilitÀ politica da parte dei governi, europei o americani, delle varie nazioni cui appartenevano le imbarcazioni.

Quando Garibaldi, contro la volontÀ della Francia e del governo Piemontese, sbarcÒ in Calabria, stranamente sfuggendo alla sorveglianza della flotta napoletana, un generale brigadiere borbonico si arrese a pochi ufficiali garibaldini col suo reggimento quasi intatto; i soldati borbonici, non comprendendo tale contegno, lo uccisero.

I soldati non potevano capire le nuove idee, capivano solo che bisognava combattere e non arrendersi, perché cosÃŒ era stato loro insegnato e per loro era inconcepibile un cambiamento cosÃŒ radicale del senso del dovere e del­l'onore militare; e segno era, tutto questo, che si trat­tava di soldati di fegato e che non potevano di colpo cambiare di opinione come si cambia di camicia.

Cavour, accortosi che Garibaldi marciava verso Na­poli, mentre tutte le popolazioni accorrevano a rendergli omaggio, ebbe una sola preoccupazione, quella di fare accorrere a Napoli un corpo d'esercito piemontese in modo che la monarchia non ricevesse mezza Italia « in dono dall'avventuriero Garibaldi ». E corse ai ripari an­che tentando di far sollevare Napoli prima che vi arri­vassero le schiere garibaldine.

E come arma principale per ottenere tale risultato adoprÃ’ la corruzione e mandÃ’ suoi emissari a Napoli affinchÈ manovrassero in tale senso; e soprattutto mandÃ’ denari in quantitÀ a Persano che con le sue navi stava ancorato nel golfo partenopeo. Il denaro È sempre stato usato come arma di guerra, ma È un sistema che non da certo gloria a chi lo impiega e che rende antipatici e mette su uno stesso piano sia quelli che si fanno cor­rompere che quelli che corrompono.

Francesco II, convintosi che ormai Garibaldi sarebbe divenuto il padrone di Napoli, per evitare che uno scon­tro, (tra Garibaldi e popolo da una parte e le truppe ri­maste fedeli dall'altra) producesse danni irreparabili alla cittÀ e alla popolazione tutta, prese la stessa decisione che aveva preso per salvare Palermo dalla distruzione; si ritirÃ’ per combattere altrove. E con truppe rimastegli fedeli, dopo aver rivolto alla popolazione un addio di­gnitoso, che venne affisso sui muri della cittÀ, si ritirÃ’ oltre il Voi turno.

Addio di Francesco II ai Napoletani

« Fra i doveri prescritti ai Re, quelli dei giorni di sventura sono i piÙ grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi. A tale scopo rivolgo ancora una volta, la mia voce al popolo di questa metropoli da cui debbo ora allontanarmi con dolore.

Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti, ha invaso i miei Stati, nonostante che io fossi in pace con le Potenze europee.

I mutati ordinamenti governativi, la mia adesione ai grandi principi nazionali ed italiani non valsero ad al­lontanarla, che anzi la necessitÀ di difendere l'integritÀ dello Stato trascinÃ’ seco avvenimenti che ho sempre deplorati. Onde io protesto solennemente contro queste inqualificabili ostilitÀ, sulle quali pronunzierÀ il suo se­vero giudizio l'etÀ presente e futura.

II corpo diplomatico residente presso la mia persona seppe, fin da principio di questa inaudita invasione, da quali sentimenti era compreso l'animo mio per tutti i miei popoli, e per questa illustre cittÀ, cioÈ garantirla dalle rovine e dalla guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietÀ, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni di arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltÀ e della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future È superiore alle passioni di un tempo.

Questa parola È giunta ormai l'ora di compierla. La guerra si avvicina alle mura della cittÀ e con dolore inef­fabile io mi allontano, con una parte dell'Esercito, traspor­tandomi lÀ dove la difesa dei miei diritti mi chiama. L'altra parte di esso resta per contribuire in concorso con l'onorevole Guardia Nazionale, all'inviolabilitÀ ed incolumitÀ della Capitale, che come in palladio sacro raccomando allo zelo del Ministero. E chieggo all'onore ed al civismo del Sindaco di Napoli e del Comandante della stessa Guardia cittadina di risparmiare a questa Patria carissima gli orrori dei disordini interni ed i di­sastri della guerra civile; al quale uopo concedo a questi ultimi tutte le necessarie e piÙ estese facoltÀ. Discendente da una Dinastia che per ben 126 anni regnÃ’ in queste contrade continentali, dopo averle sal­vate dagli orrori di un lungo governo vicereale, i miei affetti sono qui.

Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatriotti. Qualunque sarÀ il mio destino, prospero od avverso, serberÃ’ sempre per essi forti ed amorevoli rimembran­ze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santitÀ dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia Corona non diventi fonte di turbolenza. Sia che per le sorti della presente guerra io ritorni in breve tra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerÀ alla giustizia di Dio restituirmi al Trono dei miei maggiori, fatto piÙ splendido dalle libere isti­tuzioni di cui l'ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora È di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici ».

FRANCESCO

L'addio di Francesco II ai Napoletani È un addio no­bile che certamente fa onore a chi lo ha scritto.

Chi lo ha scritto era, per forza di cose ineluttabili e fatali, dalla parte perdente.

Ma È d'uopo riconoscere che seppe perdere con nobiltÀ.



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