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L'ITALIA MERIDIONALE DAL 1800 ALLA CADUTA DI NAPOLEONE

Storia



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L'ITALIA MERIDIONALE DAL 1800 ALLA CADUTA DI NAPOLEONE

Con la celebre vittoria di Marengo, Napoleone, Primo Console, divenne padrone dell'Italia e il 26 marzo 1801, con l'intervento della Russia a favore dei Borboni di Na­poli, fu conclusa la pace tra questi e la Francia. In detta pace venne sancito il dovere di Ferdinando IV a reinte­grare nei loro beni gli esuli politici, a liberare quelli che fossero ancora detenuti, a cessare ogni ulteriore persecu­zione. Inoltre re Ferdinando IV rinunciava a quella parte dell'isola d'Elba di sua proprietÀ e allo Stato dei presidi; si impegnava a chiudere i porti del Regno all'Inghilterra, a concedere indennizzi ai cittadini francesi danneggiati durante la guerra e a ricevere guarnigioni francesi negli Abruzzi e in terra d'Otranto fino alla pace generale.



Era in effetti una pace gravosa ma non tanto quanto il Bonaparte avrebbe imposto senza mediazione russa. E ben presto i profughi meridionali riaffluirono alle loro case, le prigioni furono aperte, le persecuzioni cessarono. Il 18 maggio 1804 il popolo di Francia sanzionÃ’ con un plebiscito la decisione presa dal Senato di nominare Napoleone Imperatore dei Francesi.

Il 17 marzo 1805 Napoleone fu proclamato a Parigi

re d'Italia e il 26 maggio, nel Duomo di Milano, si pose in capo la corona ferrea dicendo: « Dio me l'ha data, guai a chi la tocca! » e il 5 luglio nominava Viceré Eugenio Beauharnais, che la moglie, Giuseppina, aveva avuto dalle sue prime nozze.

Nel settembre del 1805 Napoleone acconsentÃŒ a stipu­lare un trattato di neutralitÀ con i Borboni di Napoli. Con tale trattato Re Ferdinando IV si impegnava, tra l'altro, a impedire sbarchi di soldati e a chiudere i propri porti a navi di nazioni nemiche della Francia.

Naturalmente, tali promesse erano semplicemente ri­dicole inquantochÈ per impedire tali cose sarebbe stato indispensabile che Ferdinando avesse a disposizione e-sercito e flotta adeguati. Ma i Borboni tali mezzi non possedevano e tanto meno possedevano la volontÀ di agire nel senso richiesto per l'ovvia ragione che essi conside­ravano Napoleone per quello che era: ossia un prepo­tente tiranno che giocava con popoli e regnanti come i ragazzi giocano con i propri balocchi.

Inoltre era ridicolo supporre che gli Inglesi sapendo come la Francia fosse impegnata in guerra nel Veneto non ne approfittassero per sbarcare nell'Italia meri­dionale.

Era in ballo il possesso del Mediterraneo e per l'In­ghilterra la padronanza di tale mare era ragione di vita. Sbarcarono cosÃŒ a Napoli e a Castellammare undicimila russi, duemila montenegrini e seimila inglesi.

Ma giunta la notizia della vittoria napoleonica di Au-sterlitz, le truppe straniere si reimbarcarono; i russi an­darono a CorfÙ e gli inglesi a Malta.

Il Re Ferdinando IV e la Regina ripararono a Palermo, mentre i figli Leopoldo e Francesco con poche truppe andarono in Calabria con l'intenzione di sollevare i ca­labresi per iniziare una disperata guerriglia contro i francesi.

L'esercito francese, al comando del generale Massena, l'8 febbraio del 1806 passava il Garigliano e, mentre una colonna si dirigeva contro Gaeta, un'altra contro Capua, la terza attraverso l'Abruzzo, si spingeva in Puglia. Ca­pua e Pescara si arresero in pochi giorni; Civitella del Tronto resistette tre mesi e Gaeta cinque. Il trenta mag­gio, per decreto napoleonico, Giuseppe Bonaparte, fra­tello dell'imperatore, veniva nominato Re di Napoli, men­tre i Borboni venivano sconfitti e i superstiti si rifugiavano in Sicilia. Il marchese Rodio che, comandante di bande di partigiani sanfedisti nel 1799, era stato nominato da Re Ferdinando IV generale dei partigiani calabresi, cadde nelle mani degli invasori francesi, processato da un tri­bunale di guerra ed assolto; ma i giacobini protesta­rono e fu processato una seconda volta e condannato a morte e cosÃŒ, come narra lo storico Colletta, « quel mi­sero fu giudicato due volte, assolto e condannato, libero e spento; la inumanitÀ spiacque a tutti e fu grande ed universale il terore ».

Napoleone era quello che spronava il fratello Giuseppe ad essere crudele, scrivendogli, tra l'altro: « se domani io perdessi una battaglia sull'Isonzo voi vedreste il po­polo napoletano sollevarsi gridando morte ai Francesi, morte a Giuseppe, viva Carolina » e nello stesso tempo gli imponeva di far pagare dai meridionali 100.000.000 annui alla Francia come imposte, e 30.000.000 annui per

mantenimento dei quarantamila soldati di Massena. Gli Inglesi si impadronivano dell'isola di Capri e di quella di Ponza, mentre un loro corpo di esercito sbar­cava in Calabria, nel golfo di Sant'Eufemia. La ribellione dei partigiani riprese in pieno e i Fran­cesi iniziarono le loro feroci orrende rappresaglie con­tro quei valorosi che avevano il torto di difendere la Patria. Le commissioni militari francesi giudicavano som­mariamente.

E a tale proposito narra il Colletta quanto segue: «Le sorti per condanne a comando non erano numerate né numerabili: i modi del giustiziare, vari, nuovi, terribili e quasi non bastassero l'archibugio, la mannaia, il capestro, in Monteleone fu appeso al muro un uomo vivente e fatto morire lapidato; in Lagonegro, in Basilicata, un mi­sero fu conficcato al palo con barbaria ottomana. Ufficial­mente quelle morti non erano prescritte dal governo, ma tra gli abusi d'impero, la estrema servitÙ e la paura dei vinti, il giudizio e la fantasia degli agenti francesi ave­vano potenza di legge; e difatti quel martirio del palo fu comandato da un colonnello francese ».



Il 18 luglio Gaeta si arrese e Massena fu spedito in Calabria a soffocarvi la rivolta. Gli Inglesi si ritirarono a Messina; la cittadina di Lauria fu arsa e messa a sacco; i due castelli di Amantea e di Crotone resistettero a lun­go e richiesero prolungato assedio e assalti reiterati. In­fine a Cosenza fu catturato dagli armati francesi, e ucciso in Napoli, il colonnello Michele Pezza, comandante di bande partigiane e passato alla storia come Fra Diavolo.

Da allora la fama degli Abruzzesi e dei Calabresi si sparse dappertutto, come insuperabili combattenti indi­viduali per forza, coraggio, ferocia, pertinacia; i piÙ ter­ribili d'Europa nelle guerriglie.

Ma quei partigiani, a differenza di quelli spagnoli che altrettanto valorosamente combattevano contro Napoleo­ne, non ebbero un grande pittore come Goya che immor­talasse le loro gesta con i suoi capolavori e, a differenza dei Russi, non ebbero un grande scrittore come Tolstoi che ne esaltasse le eroiche imprese. Ebbero viceversa l'incomprensione di tutti gli Italiani delle altre regioni che, male informati o volutamente ingannati a scopo di propaganda antiborbonica, ripetevano pappagallescamente i giudizi volutamente errati emessi a danno delle popola­zioni meridionali, le quali furono le uniche capaci di resistere con tenacia, valore, disprezzo della vita, ai soldati francesi invasori della Patria.

Gli Italiani del Nord intanto assaporavano quale era il dispotismo di Napoleone, e basta ricordare come il gior­nalista Lattanzi, che aveva avuto il grave torto di scrivere sul « Corriere delle dame » che « i destini d'Etruria sta­vano per giungere al loro punto di maturitÀ », rinchiuso per ordine dell'Imperatore in un manicomio e trattato come matto, per poco non impazzÃŒ veramente.

Ma la crudeltÀ del regno di re Giuseppe non si mani­festÃ’ solamente contro le bande partigiane della provin­cia. Nella stessa Napoli, capitale del regno, si ebbero epi­sodi di efferata ferocia. Luigi La Giorgi, ricco e nobile, fu straziato in carcere ed ivi morÃŒ; il duca Filomarino ebbe mozzato il capo; il colonnello marchese Palmieri fu appiccato alla forca e mentre l'infelice saliva la scala del palco si levÃ’ nel popolo la voce di salvezza che generÃ’ tumulti infruttuosi a quel misero, ma esiziali ad altri, puniti con la morte il giorno seguente.

In prigione languivano il capitano generale Pignatelli, il principe Ruffo Spinoso, il maresciallo di campo Mi-cheroux, i conti Bartolazzi e Gaetani e donne patrizie come Luisa de Medici e Ma tilde Calvez; e donne di one­sta fama, preti e frati in gran numero, col vescovo di Sessa monsignor de Felice. E furono giudicate in pub­blico monache di clausura; fu giudicato e giustiziato con orribili pompe nella Piazza del Mercato un tale Agostino Mosca che voleva attentare alla vita di Re Giuseppe. Per reazione a tanti orrori, nella notte del gennaio 1808, dai cospiratori fu fatto saltare il palazzo abitato dal ministro di polizia Saliceti, oriundo della Corsica e celebre per la sua crudeltÀ.

Nell'agosto del 1808 re Giuseppe venne trasferito sul trono di Spagna e sul trono di Napoli gli successe il cognato Gioacchino Murat, il quale riuscÌ a togliere alle

truppe inglesi il possesso dell'isola di Capri, ma non riu­scÃŒ a conquistare la Sicilia dove erano in esilio i Borboni di Napoli.

Sia i soldati siciliani che le navi inglesi facevano buo­na guardia e re Gioacchino rinunciÃ’ per sempre a tale conquista.

Il Re la Regina e tutta la casa regnante vivevano a Palermo sotto la protezione degli Inglesi, i quali in realtÀ la facevano da padroni poiché erano enormemente inte­ressati al possesso di tale isola, sia per i suoi numerosi ottimi porti, sia per le naturali ricchezze che vi si trova­vano, e prima tra esse lo zolfo. Sotto la guida degli Inglesi, dopo la convocazione del­l'antico Parlamento siciliano, fu emanata nel 1812 una nuova costituzione piÙ democratica di quella inglese; il nuovo Parlamento che concentrava in sé il potere legisla­tivo era formato da due Camere, una dei Pari e una dei Comuni; il potere esecutivo era rappresentato dal Re; il potere giudiziario da un corpo di magistrati inamovibili; ai Comuni era riservato il diritto di votare i tributi, con facoltÀ ai Pari di approvarli o disapprovarli, senza modi­ficazioni di sorta.

La Sicilia ebbe garantita la propria autonomia. La feu­dalitÀ, abolita nei diritti e nei privilegi, perdurÃ’ nei pos­sessi. Ma tutte le guarantigie della civiltÀ moderna fu­rono contemplate nella nuova legge fondamentale.

Tutti gli Italiani, di qualsiasi regione, guardarono alla Costituzione siciliana con invidia, desiderio e speranza. Il che dimostra come per giungere in Europa ad una mo­derna concezione di governo non era affatto necessario passare attraverso gli orrendi massacri dell'esercito fran­cese, permanentemente in convulsioni di grandezza e di incontentabilitÀ.



Dopo la disfatta della grande armata napoleonica in terra russa, Re Gioacchino, che era il generale piÙ elevato in grado entrato per primo a Mosca, abbandonÃ’ il comando che aveva ricevuto da Napoleone e lo trasferÃŒ al Viceré Eugenio e se ne tornÃ’ a Napoli dove la moglie, sorella di Napoleone, in qualitÀ di Reggente, lo aveva sostituito durante la di lui assenza.

Giunto a Napoli re Gioacchino tentÃ’ di mettersi d'ac­cordo con Lord Bentinck; ma tale accordo non fu rag­giunto, nonostante che Lord Bentinck si fosse recato nel­l'isola di Ponza per incontrarsi con un emissario di Gioac­chino. Questi dopo poco ripartiva per raggiungere Na­poleone e sui campi di Alemagna si ricopriva di nuove, quanto inutili, glorie militari.

Intanto a Palermo Ferdinando IV faceva dichiarazioni a Lord Bentinck di fedeltÀ alla Costituzione siciliana e dietro consiglio del suddetto Lord, per la pace della Si­cilia, convinceva la propria moglie Regina Carolina ad andare a Vienna dove giungeva il 2 febbraio 1814 e dove — dopo avere difeso gli interessi dei Borboni di Napoli al celebre Congresso — morÃŒ senza poter ritornare in famiglia.

Sconfitto Napoleone e partito per l'esilio nell'isola d'El­ba, re Gioacchino, tornato sul trono di Napoli, si teneva a contatto con i patriotti italiani di ogni parte della pe­nisola e raccoglieva, presso di sé, quanti sbandati e mi­seri la reazione straniera e quella dei principi italiani ritornati nelle loro capitali costringevano ad abbandonare le loro residenze abituali.

Scomparsi cosÃŒ ad un tratto, in tutta Italia, i nuovi sistemi politici e rimesso in voga il vecchiume attaccato alle dinastie restaurate, unico asilo rimase il Regno di Gioacchino, come dopo il 1849 lo divenne Torino; il conte di Polignac, Pari di Francia dopo la restaurazione, attestava che a Napoli si parlava di UnitÀ d'Italia e che re Gioacchino sosteneva tali « principi nuovissimi ».

Ma i carbonari d'Abruzzo complottavano contro Gioacchino e questi usÃ’ verso i suoi avversari una durezza estrema con condanne al carcere e a morte, queste ultime eseguite spesso a moschettate e senza preventivo giudizio.

Fuggito Napoleone dall'isola d'Elba e sconfÃŒtto defini­tivamente a Waterloo, re Gioacchino si illudeva di poter rimanere Re di Napoli; organizzato un esercito guidato da lui e da valorosi generali quali Carlo Filangieri, Gu­glielmo Pepe, Carrascosa e Colletta, combatteva strenua­mente contro le truppe austriache.

I soldati napoletani si batterono valorosamente in Emilia, nelle Marche e in Abruzzo, ma la sorte di Murat era ormai segnata. Inutile ed impari era la lotta, tanto piÙ che la flotta inglese era entrata nel golfo di Napoli; proveniente dalla Sicilia, pronta a sbarcare in Calabria un esercito anglo-siculo, mentre i montanari, sempre fe­deli ai Borboni, scendevano minacciosamente in campo, dai loro paesi, i generali Carrascosa e Colletta furono incaricati dal re di negoziare con gli Austriaci.

Le condizioni della resa furono le seguenti: garantito il debito pubblico, riconosciute le vendite dei beni nazio­nali, osservata la nuova nobiltÀ accanto all'antica, con­fermati i militari del decennio i quali fossero rimasti vo­lontariamente nell'esercito borbonico prestando giura­mento di fedeltÀ a Ferdinando IV nei diritti acquisiti.

Spontaneamente il negoziatore austriaco fece inserire nel trattato la promessa del perdono di Ferdinando IV per qualunque azione politica compiuta nel periodo di tempo nel quale a Napoli regnarono i due Re francesi e la garanzia dell'Imperatore d'Austria per l'integrale ese­cuzione del trattato. II 13 ottobre 1815, proveniente da Tolone e con po­chi compagni, Gioacchino Murat sbarcÃ’ a Pizzo di Ca­labria, per tentare (tanto era grande la sua illusione da esaltato) la riconquista del trono di Napoli. Pochi contadini e pochi gendarmi lo arrestarono e lo fucilarono. Naturalmente, anche per questo episodio gli pseudostorici, ossia gli storici per partito preso, crearono in odio ai Borboni la leggenda di un tranello nel quale il Murat era stato attirato dal governo borbonico. Leg­genda stolida, creata senza prova, dal cosidetto storico Sassenay, e dimostrata e documentata in modo definitivo come assurda dallo storico Augusto Franchetti.

Ma da piÙ di un secolo, tutto È servito per denigrare e diffamare sia l'Italia meridionale che i suoi governi. Morto Re Gioacchino, nell'Italia meridionale fu restau­rato il trono borbonico e i soldati austriaci entrarono a Napoli per evitare disordini popolari in attesa dell'arrivo del re Ferdinando; cosa che avvenne il giorno 9 giu­gno 1815.





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