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ROMA EPICUREA

Storia



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ROMA EPICUREA

la roma di questo periodo, che si suol chiamare epicureo, aveva una popolazione che qualcuno valutava a un milione, altri a un milione e mezzo. Essa era divisa nei soliti ordini e classi, l'aristo­crazia era ancora numerosa; ma, a parte quello dei Corneli, i memorialisti del tempo non citano più i grandi nomi di una volta: i Fabi, gli Emili, i Valeri eccetera. Decimate prima dalle guerre cui davano un alto contributo di cadaveri, poi dalle persecuzioni e infine dalle pratiche malthusiane, queste illustri famiglie si erano estinte ed erano state rimpiazzate da altre, con meno ante­nati e più quattrini, che venivano dalla borghesia industriale e mercantile di provincia.



«Oggi, nell'alta società», diceva Giovenale, «l'unico buon affare è una moglie sterile. Tutti ti saranno amici sperando nel testamento. Quella che ti fa un figlio, chi ti dice che non metta alla luce un negro?».

Giovenale calcava un po' la mano, ma il malanno che denunziava era autentico. Il matri­monio, che nell'età stoica era stato un sacramento e lo ridiventerà in quella cristiana, era ora una passeggera avventura; e l'allevamento dei figli, considerato un tempo un dovere verso lo stato e verso gli dèi che promettevano una vita ultrater­rena solo a chi lasciava qualcuno a prendersi cura della sua tomba, ora era considerato una noia, un imbarazzo da evitare. L'infanticidio non era più consentito, ma l'aborto era una pratica comune, e se non riusciva si ricorreva all'abbandono del neonato ai piedi di una colonna lattaria, così chiamata perché ci stavano di fazione delle nu­trici stipendiate apposta dallo stato per allattare i trovatelli.

Sotto l'influsso di questi costumi, la stessa struttura biologica e razziale di Roma era cam­biata. Quale cittadino non aveva nelle sue vene qualche goccia di sangue straniero? Le minoran­ze greche, siriano, israelite facevano, messe in­sieme, maggioranza. Gli ebrei erano già così forti, soprattutto in grazia della loro unione, al tempo di Cesare, che costituirono uno dei principali puntelli del suo regime. C'erano pochi ricchi, tra di loro. Ma nell'insieme costituivano una comu­nità disciplinata, laboriosissima, di sani costumi. Non altrettanto poteva dirsi degli egiziani, dei siriani e di altri orientali, gran maestri soprat­tutto di borsa nera.

La mamma romana che si decideva a mettere al mondo un figlio, se non era proprio povera in canna, se ne sbarazzava subito affidandolo prima a una balia per l'allattamento, poi a una istitutrice greca, che teneva il posto oggi occupato da quelle tedesche o inglesi, e infine a un pedagogo, in genere greco anch'esso, per la sua istruzione. Altrimenti lo mandava a qualcuna delle scuole che oramai erano nate un po' dovunque, ma era­no private, non statali, promiscue e dirette da magistri. Gli allievi frequentavano le elementari fin verso i dodici o i tredici anni. Poi i sessi veni­vano separati. Le femmine completavano la loro istruzione in appositi collegi dove s'insegnava so­prattutto musica e danza. I maschi intraprende­vano le secondarie, tenute da grammatici che, essendo anch'essi per la maggior parte greci, insi­stevano soprattutto sulla lingua, letteratura e filosofia greche, che finirono infatti per sommer­gere la cultura romana. L'università era rappre­sentata dai corsi dei rètori, che non avevano nulla di organico. Non c'erano esami, non c'era tesi di laurea, non c'era dottorato. C'erano soltanto delle conferenze, seguite da discussioni. I corsi costa­vano fino a duemila sesterzi, fra duecento e duecentocinquantamila lire, l'anno. E Petronio la­mentava che non vi s'insegnassero che astrazioni di nessuna utilità per la vita pratica. Ma essi solleticavano il gusto tipicamente romano, per la controversia, la sottigliezza e il cavillo: un vizio ch'è poi trasmigrato nel corpo degl'italiani. Le famiglie più facoltose mandavano i loro ragazzi a perfezionarsi all'estero: a Atene per la filosofia, a Alessandria per la medicina, a Rodi per l'eloquenza. E spendevano tanti quattrini per mantenerveli, che Vespasiano il parsimonioso, per impedire questa emorragia di valuta, preferì reclutare i più illustri docenti di quelle città e trapiantarli a Roma in istituti statali che pagavan loro stipendi di centomila sesterzi l'anno, cioè cinque milioni di lire.

La moralità di questi giovani, per i maschi, non era stata mai granché, neanche ai tempi stoici. Dai sedici anni in su, era sottinteso che il ragazzo frequentasse i lupanari e non si badava molto nemmeno al fatto che corresse qualche avventura non solo con le donne, ma anche con gli uomini. Ma allora tutto questo era allo stato grezzo, i bordelli erano ignobili, e la stagione delle scostumatezze finiva col richiamo alle armi eppoi col matrimonio che inauguravano quella dell'au­sterità. Ora, dal servizio militare i ragazzi si fa­cevano esentare, i bordelli erano diventati di lus­so, le meretrici si sentivano in dovere d'intrat­tenere i clienti non soltanto con le loro grazie, ma anche con la conversazione, con la musica, con la danza, un po' come facevano le geishe in Giap­pone, e i clienti seguitavano a frequentarle anche dopo il matrimonio.

Più severi si era con le ragazze, finché resta­vano ragazze. Ma esse si sposavano in genere prima dei vent'anni perché dopo questo traguar­do erano considerate zitelle, e il matrimonio procurava loro le stesse libertà dei maschi, o poco meno. Seneca considerava fortunato il marito la cui moglie si contentava di due amanti soli. E un epitaffio iscritto su una tomba suona così: 'Ri­mase per quarantun anni fedele alla stessa mo­glie'. Giovenale, Marziale, Stazio ci parlano di donne della borghesia che giostrano nel Circo, girano per le strade di Roma guidando di persona i loro calessini, si fermano a far conversazione sotto i portici e 'offrono al passante', dice Ovidio, 'il delizioso spettacolo delle loro spalle nude'.

Le 'intellettuali' fiorivano. Teofila, l'amica di Marziale, avrebbe vinto di sicuro i cinque milioni a 'Lascia o raddoppia?' in fatto di filo­sofia stoica; Sulpicia scriveva versi, naturalmente d'amore. E c'erano anche le soroptimists che ave­vano organizzato dei clubs femminili, i cosiddetti collegi delle donne, dove si tenevano conferenze sui doveri verso la società, come avviene in tutte le società dove i doveri non sono più osservati.

S'ingrassava. La statuaria di questo periodo, a confrontarla con quella della Roma stoica, tutta di figure secche e angolose, ci mostra un'umanità allentata e arrotondita dall'ozio e dalle indulgen­ze dietetiche. La barba è scomparsa, i tonsores si sono moltipllcati, la prima rasatura è una festa inaugurale nella vita dell'uomo. I capelli, la mag­gioranza li taglia ancora a zero; ma ci sono degli elegantoni che invece li lasciano crescere e poi li annodano in treccine. La toga porporina è diventata monopolio esclusivo dell'imperatore. Tutti gli altri ora portano una tunica o blusa bianca, e i sandali di cuoio 'alla caprese', cioè col laccio infilato fra i diti.

La moda femminile invece si è complicata. La signora di qualche riguardo non impiega la mattina meno di tre ore e di una mezza dozzina di schiave per acconciarsi. Buona parte della let­teratura è dedicata a illustrare quest'arte, e le stanze da bagno sono ingombre di rasoi, forbici, spazzole, spazzolini, creme, ciprie, cosmetici, oli, saponi. Poppea aveva inventato una maschera notturna intrisa di latte per rinfrescare la pelle del viso, ch'era diventata d'uso comune. E il ba­gno nel latte era normale, sicché le riccone viag­giavano seguite da mandrie di mucche per averne sempre di fresco a disposizione. Specialisti alla Hauser predicavano diete, ginnastica, bagni di sole, massaggi contro la cellulite. E ci furono dei tonsores che fecero la loro fortuna inventando qualche originale pettinatura diversa da quella usuale: capelli all'indietro, annodati sulla nuca o graziosamente sostenuti da una rete o da un nastro.

La biancheria era di seta o di lino. E comin­ciava a far la sua comparsa il reggipetto. Le calze non si usavano. Ma le scarpe erano complicate, di cuoio morbido e leggero, col tacco alto per rimediare al difetto delle donne romane, che è anche quello delle italiane: il sedere basso; e con ricami di filigrana d'oro.

D'inverno usavano le pellicce, ch'erano il re­galo dei mariti o degli amanti dislocati nelle province settentrionali, specie la Gallia e la Germania. E in tutte le stagioni si faceva gran scialo di gioielli, ch'erano la gran passione di queste signore. Lollia Paolina andava in giro con qua­ranta milioni di sesterzi, cioè due miliardi di lire, sparpagliati addosso sotto forma di pietre pre­ziose, di cui Plinio annovera più di cento specie. C'erano anche delle 'imitazioni' che pare fossero capolavori. Un senatore fu proscritto da Vespa­siano perché portava al dito un anello con un opale di centocinquanta milioni di lire. Il severo Tiberio tentò di mettere un freno a questi esibi­zionismi, ma dovette arrendersi: ad abolire le industrie del lusso, si rischiava di precipitare Roma in una crisi economica.

L'arredamento della casa era in tono con que­sti sfarzi e forse li superava. Un palazzo degno di questo nome doveva avere un giardino, un porticato di marmo, non meno di quaranta stan­ze, fra cui qualche salone con colonne di onice o di alabastro, piancito e soffitto a mosaico, pa­reti intarsiate di pietre costose, tavoli di cedro su gambe d'avorio, broccati orientali (Nerone ne aveva comprati per trecento milioni di lire), vasi di Corinto, letti di ferro battuto con zanzariera, e qualche centinaio di servi: due dietro la sedia di ogni ospite per servirgli il pranzo, due per to­gliergli simultaneamente le scarpe quando si coricava, eccetera.

Il gran signore romano di questi tempi si al­zava al mattino verso le sette e come prima cosa riceveva per un paio d'ore i suoi clienti, offrendo la guancia al bacio di ognuno di essi. Poi faceva la prima colazione, molto sobria. E infine rice­veva le visite degli amici e le restituiva. Questo era uno degli obblighi più rigidamente osservati dalla social life romana. Rifiutarsi di assistere un amico mentre stendeva il testamento, o di parte­cipare alle nozze di suo figlio, o di leggere le sue poesie, o di sostenerne la candidatura, o di aval­larne le cambiali, era un'offesa e procurava discredito. Solo dopo il pagamento di questi de­biti, si poteva pensare ai propri affari personali.

Questa regola valeva anche per la gente di condizione più modesta, della media borghesia. Costoro lavoravano sino a mezzogiorno, prende­vano un pasto leggero, all'americana, tornavano al lavoro. Ma tutti, chi prima, chi dopo, secondo il mestiere e l'orario, finivano poi per trovarsi alle terme per il bagno. Nessun popolo è mai stato tanto pulito come quello romano. Ogni pa­lazzo aveva la sua piscina privata. Ma ce n'erano oltre mille di pubbliche, a disposizione della gente comune, con una capienza media di mille utenti alla volta. Esse erano aperte dall'alba all'una per le donne, dalle due al crepuscolo per gli uomini finché diventarono promiscue, e l'ingresso costa­va dieci lire, servizio compreso. Ci si spogliava in cabine, si andava a fare in palestra esercizio di pugilato, giavellotto, pallacanestro, salto, lan­cio del disco; poi si entrava nella sala di mas­saggio. E alla fine si cominciava il bagno vero e proprio, che seguiva una stretta regola liturgica. Prima ci s'immergeva nel tepidarium ad aria tepida, poi nel calidarium ad aria calda, poi nel laconicum a vapore bollente, dove si faceva uso di una novità importata da poco dalla Gallia, il sapone. E infine, per provocare una sana reazio­ne del sangue, ci si buttava a nuoto nell'acqua ghiaccia della piscina.

Dopo tutto questo, ci si asciugava, ci si spal­mava d'olio, ci si rivestiva e si passava nella sala da giuoco per una partita a scacchi o a dadi, o in quella di conversazione per una buona chiacchie­rata con gli amici che si sapeva con certezza di trovarvi, o nel restaurant, per una buona cenetta che, anche quando era sobria, consisteva di alme­no sei portate, di cui due di carne di porco. La si consumava giacendo sui triclini, specie di divani a tre posti, col corpo disteso per riposarlo dagli esercizi fatti poco prima, il braccio sinistro appoggiato sul cuscino per sostenere la testa, il destro allungato a prendere le vivande dal tavolo. La cucina era greve, con molte salse di grasso animale. Ma i romani avevano uno stomaco soli­do, e lo dimostravano in occasione dei veri e propri banchetti che con molta frequenza cele­bravano.

Questi avevano inizio alle quattro del pome­riggio, e duravano sino a notte avanzata, se non fino all'indomani. Le tavole erano cosparse di fiori e l'aria di profumi. I servitori, in ricche di­vise, dovevano essere almeno, come numero, il doppio degli invitati. Non si ammettevano che pietanze rare ed esotiche. «Per i pesci», diceva Giovenale, «ci vogliono quelli che costano più dei pescatori». L'aragosta rossa faceva premio, le pagavano anche sessantamila lire l'una, e Vedio Pollione fu il primo a tentarne l'allevamento. Le ostriche e i petti di tordo erano d'obbligo. E Apicio si fece una posizione in società inventando un piatto nuovo: il paté de foie gras, ingrassando le oche a furia di fichi. Era un curioso uomo, questo Apicio: si mangiò in pranzi un patrimonio colos­sale, e quando lo vide ridotto a un miliardo solo si uccise ritenendosi caduto in miseria.

In queste occasioni il banchetto si trasforma­va in orgia, l'anfitrione offriva in dono agli ospiti oggetti preziosi, e i servi passavano fra i tavoli distribuendo degli emetici che provocavano il vo­mito e consentivano di ricominciare a mangiare.

Il rutto era consentito. Anzi, era un segno di apprezzamento della bontà dei cibi.



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