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ALFABETIZZAZIONE EMOZIONALE

psicologia



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ALFABETIZZAZIONE EMOZIONALE.

15. IL COSTO DELL'ANALFABETISMO EMOZIONALE.



IniziÒ come una discussione da poco, ma si trasformÒ in un contrasto sempre piÙ grave. Ian Moore, studente all'ultimo anno della scuola superiore Thomas Jefferson di Brooklyn, e Tyrone Sinkler, piÙ giovane, avevano litigato con un amico, il quindicenne Khalil Sumpter. Poi avevano cominciato a tormentarlo e a minacciarlo. Alla fine la situazione esplose.

Khalil, temendo che Ian e Tyrone volessero picchiarlo, un mattino si recÃ’ a scuola portando con sé una pistola calibro 38 e, a cinque metri di distanza da una guardia di sicurezza della scuola, sparÃ’ a entrambi a bruciapelo, uccidendoli nell'atrio della scuola.

Il fatto di sangue, cosÃŒ agghiacciante, puÃ’ essere letto come un altro segnale del bisogno disperato di lezioni su come gestire le emozioni, comporre i contrasti in maniera pacifica e imparare ad andare d'accordo. Gli insegnanti, da sempre preoccupati che gli studenti non restino indietro nello studio delle materie scolastiche tradizionali, incominciano a capire che esiste un diverso tipo di lacuna, assai piÙ pericolosa: l'analfabetismo emozionale (1). E mentre si compiono sforzi lodevoli per alzare il livello della preparazione nelle materie scolastiche, questa nuova e inquietante lacuna non viene affrontata nei programmi scolastici regolari. Come afferma un insegnante di Brooklyn, attualmente nelle scuole “ci preoccupiamo di insegnare agli alunni a leggere e a scrivere bene molto di piÙ che di sapere se saranno o non saranno vivi la prossima settimana”.

I segnali di questa manchevolezza possono essere scorti in episodi di violenza, come l'uccisione di Ian e Tyrone, che diventano sempre piÙ frequenti nelle scuole americane. Ma non si tratta di fatti isolati. L'aumento della turbolenza fra gli adolescenti e delle difficoltÀ nei bambini puÒ essere riscontrato negli Stati Uniti - indicatore primario delle tendenze mondiali - grazie alle seguenti statistiche (2).

Nel 1990, prendendo come campione i vent'anni precedenti, gli Stati Uniti hanno conosciuto la percentuale piÙ alta di arresti di minorenni per reati di violenza; gli arresti di adolescenti per stupro sono raddoppiati; gli omicidi compiuti da minorenni sono quadruplicati, per lo piÙ a seguito di sparatorie (3). Durante i vent'anni di cui si È detto, il tasso di suicidi fra gli adolescenti È triplicato, come pure il numero di ragazzi sotto i quattordici anni vittime di un omicidio (4).

Un numero piÙ elevato di adolescenti, a un'etÀ sempre piÙ bassa, sono rimaste incinte. Nei cinque anni precedenti al 1993 il tasso delle nascite da madri adolescenti di etÀ compresa fra i dieci e i quattordici anni È cresciuto costantemente - ci si riferisce a questo fenomeno parlando di “madri-bambine” -, come pure sono aumentate la percentuale di gravidanze indesiderate fra le adolescenti e la tendenza ad avere rapporti sessuali per la pressione psicologica esercitata dai coetanei. Negli ultimi trent'anni È triplicata la percentuale delle malattie veneree contratte dagli adolescenti (5).

Queste cifre sono certo sconfortanti, ma se si concentra l'attenzione sui giovani afro-americani, soprattutto nei quartieri residenziali degradati dei centri urbani, le statistiche sono addirittura desolanti: tutte le percentuali risultano di gran lunga piÙ alte, talvolta doppie, triple o ancora piÙ elevate rispetto alla media. Per esempio, l'uso di eroina e cocaina fra i giovani bianchi È triplicato nei vent'anni precedenti al 1990; ma nei giovani afro-americani È balzato a una percentuale incredibile, '13 volte' piÙ alta di quella dei vent'anni precedenti (6).

Fra gli adolescenti la causa piÙ comune di infermitÀ È la malattia mentale. Sintomi piÙ o meno gravi di depressione colpiscono fino a un terzo degli adolescenti; per le ragazze l'incidenza della depressione raddoppia durante la pubertÀ. La frequenza dei disturbi del comportamento alimentare nelle adolescenti si È innalzata vertiginosamente (7).

Infine, a meno che le cose cambino, le prospettive a lungo termine di sposarsi e di avere una vita matrimoniale serena e stabile si fanno per i ragazzi di oggi sempre piÙ cupe ad ogni generazione. Come abbiamo visto nel capitolo 9, se durante gli anni Settanta e Ottanta la percentuale dei divorzi si aggirava intorno al 50 per cento, con l'ingresso negli anni Novanta la percentuale dei divorzi tra le nuove coppie di sposi induce a prevedere che su tre nuovi matrimoni, due finiranno con un divorzio.

- Un malessere emozionale.

Queste allarmanti statistiche sono un po' come il canarino che i minatori mettono nelle miniere di carbone perché con la sua morte li avverta della mancanza di ossigeno. Al di lÀ dei numeri, che fanno riflettere, la situazione difficile dei giovani di oggi si manifesta in maniera meno vistosa nei problemi quotidiani che non sono ancora esplosi in crisi aperte. Forse i dati maggiormente rivelatori - un segnale diretto della minore competenza emozionale - provengono da un campione nazionale di ragazzi americani, di etÀ fra i sette e i sedici anni, utilizzato per paragonare la loro condizione emozionale a metÀ degli anni Settanta con quella alla fine degli anni Ottanta (8). In base alle valutazioni dei genitori e degli insegnanti, si È accertato un costante peggioramento. Nessun problema si È segnalato in maniera particolare, ma tutti gli indici sono peggiorati. In media i ragazzi hanno incontrato maggiori difficoltÀ in questi ambiti:

- 'Chiusura in se stessi o problemi sociali': preferenza a restare soli; non comunicare; rimuginare in silenzio; essere privi di energia; sentirsi infelici; dipendere eccessivamente dagli altri.

- 'Ansia e depressione': essere soli; nutrire molte paure e preoccupazioni; avere il bisogno di essere perfetti; non sentirsi amati; sentirsi nervosi o tristi e depressi.

- 'DifficoltÀ nell'attenzione e nella riflessione': incapaci di fare attenzione o di restare seduti tranquilli; fantasticare a occhi aperti; agire senza riflettere; essere troppo nervosi per concentrarsi; avere risultati scolastici scadenti; incapacitÀ di distogliere la mente da un pensiero fisso.

- 'Delinquenza o aggressivitÀ': frequentare ragazzi che si cacciano nei guai; mentire e imbrogliare; litigare spesso; trattare gli altri con cattiveria; pretendere attenzione; distruggere gli oggetti altrui; disobbedire a casa e a scuola; essere testardi e di umore mutevole; parlare troppo; prendere in giro gli altri in maniera eccessiva; avere un temperamento collerico.

Anche se nessuno di questi problemi, considerato isolatamente, suscita preoccupazione, preso insieme a tutti gli altri diventa il segnale di un cambiamento dell'atmosfera, di un nuovo tipo di tossicitÀ che si infiltra e avvelena l'esperienza stessa dell'infanzia e dell'adolescenza, rivelando impressionanti lacune di competenza emozionale. Questo malessere sembra un prezzo che la vita moderna impone a tutti i ragazzi del mondo. Benché gli americani lamentino spesso situazioni particolarmente difficili se paragonate a quelle di altri paesi, studi condotti in tutto il mondo hanno riscontrato stime uguali o peggiori di quelle degli Usa. Per esempio, negli anni Ottanta, gli insegnanti e i genitori in Olanda, in Cina e in Germania hanno indicato per i propri ragazzi lo stesso grado di problemi che era stato riscontrato nei giovani americani nel 1976. In alcuni paesi, compresi l'Australia, la Francia e la Thailandia, i giovani si trovano in condizioni peggiori di quelle attuali negli Usa. Ma questo divario potrebbe non durare a lungo. Le forze piÙ consistenti che spingono verso il basso la spirale della competenza emozionale sembrano acquistare piÙ velocitÀ negli Stati Uniti rispetto a molti altri paesi sviluppati (9).

Nessun ragazzo, ricco o povero, È esente dal rischio; siamo dinanzi a problemi universali che affliggono ogni gruppo etnico e razziale e ogni fascia di reddito. Pertanto, anche se i ragazzi poveri hanno gli indici piÙ bassi per quanto riguarda le capacitÀ emozionali, il loro tasso di deterioramento negli anni non È peggiore di quello dei figli del ceto medio o delle classi ricche; tutti mostrano la stessa costante caduta. In ogni strato sociale È anche triplicato il numero dei ragazzi che hanno ricevuto aiuto psicologico (forse un buon segno, poiché indica la maggior disponibilitÀ di sostegno psicologico), come pure si È avuto quasi il raddoppiamento del numero di ragazzi con problemi emozionali tali da richiedere tale aiuto, ma che non ne hanno potuto usufruire (un brutto segno): da circa il 9 per cento nel 1976 al 18 per cento nel 1989.

Urie Bronfenbrenner, l'illustre studioso di psicologia evolutiva della Cornell University che ha istituito una ricerca comparata internazionale sul benessere dei ragazzi, afferma: “In assenza di buoni sistemi di supporto, le tensioni esterne sono diventate cosÃŒ grandi che persino famiglie solide si frantumano. La frenesia, l'instabilitÀ e l'incongruenza della vita familiare quotidiana aumentano in ogni segmento sociale, compresa la fascia delle persone colte e benestanti. E' a rischio nientemeno che la prossima generazione, in particolare i maschi, i quali nella crescita sono particolarmente vulnerabili a forze negative come quelle provocate dagli effetti devastanti del divorzio, della povertÀ e della disoccupazione. La situazione dei ragazzi e delle famiglie americane È disperata come mai prima d'ora [] Stiamo privando milioni di ragazzi della competenza e del carattere morale” (10).

Non È un fenomeno soltanto americano, ma globale, perché a livello mondiale la concorrenza economica tende a ridurre il costo del lavoro e ciÃ’ produce contraccolpi negativi sulle famiglie. Viviamo in tempi di famiglie finanziariamente in difficoltÀ, nelle quali entrambi i genitori lavorano per molte ore al giorno, cosicché i figli sono abbandonati a se stessi o sotto l'influsso costante della televisione; È un'epoca nella quale un numero maggiore di ragazzi cresce nella povertÀ, in cui la famiglia con un solo genitore sta diventando sempre piÙ comune, in cui un numero sempre piÙ alto di bambini viene lasciato in asili cosÃŒ mal gestiti che i bimbi si trovano a essere quasi completamente trascurati. Tutto questo comporta, anche per genitori ben intenzionati, la perdita di quei continui, impercettibili, rapporti con i figli nei quali si costruisce e si alimenta la competenza emozionale.

Se le famiglie non sono piÙ in grado di fornire ai ragazzi una base solida per vivere, che cosa dobbiamo fare? Una valutazione piÙ attenta della dinamica dei problemi specifici ci mostra come certe lacune nelle competenze sociali o emozionali producano gravi difficoltÀ e come misure correttive e preventive ben dirette possano mantenere sulla retta via un piÙ alto numero di ragazzi.

- Tenere a freno l'aggressivitÀ.

Nella mia scuola elementare il duro era Jimmy, un ragazzo che quando io ero in prima frequentava la quarta. Era il classico bambino che ti rubava i soldi per comprare la merenda, che ti prendeva la bicicletta, che ti metteva le mani addosso appena ti rivolgeva la parola. Jimmy era il tipico prepotente, che attaccava briga alla minima provocazione o affatto gratuitamente. Tutti ne avevamo paura e lo tenevamo a distanza. Tutti odiavano e temevano Jimmy; nessuno voleva giocare con lui. Era come se, dovunque lui andasse nel cortile della scuola, una guardia del corpo invisibile facesse allontanare gli altri bambini dalla sua strada.

Ragazzi come Jimmy sono chiaramente in difficoltÀ. Ma risulta meno ovvio che un'aggressivitÀ cosÌ manifesta in etÀ infantile È il segno premonitore di difficoltÀ emozionali e di altro tipo che sorgeranno in avvenire. All'etÀ di sedici anni Jimmy era giÀ finito in carcere per aggressione. Molti studi hanno dimostrato che in ragazzi come lui l'aggressivitÀ infantile ha effetti duraturi per il resto della vita (11). Come abbiamo visto, le famiglie di bambini cosÌ aggressivi in genere sono composte da genitori che alternano la trascuratezza alle punizioni dure e imprevedibili: una condotta che, comprensibilmente, rende i piccoli inclini alla paranoia e pronti a dare battaglia.

Non tutti i ragazzi irascibili sono prepotenti; alcuni sono tipi isolati ed emarginati che reagiscono eccessivamente allo scherno o a ciÒ che essi percepiscono come un'offesa o un'ingiustizia. Ma il difetto percettivo comune a tutti questi ragazzi È che essi considerano offensivi gesti e atteggiamenti del tutto innocenti e immaginano che i coetanei siano nei loro confronti piÙ ostili di quel che effettivamente sono. CiÒ li porta a fraintendere come gesti minacciosi atti del tutto insignificanti - un contatto occasionale È visto come una vendetta - e ad attaccare per reazione. Ovviamente questo comportamento induce gli altri a evitarli, isolandoli ulteriormente. Questi ragazzi irascibili e isolati sono sensibilissimi a ingiustizie e a comportamenti scorretti nei propri confronti. In genere si considerano delle vittime e possono recitare un elenco di casi in cui, ad esempio, gli insegnanti li hanno incolpati di qualcosa, mentre in realtÀ erano innocenti. Un altro tratto comportamentale di questi ragazzi È che quando sono in preda all'ira conoscono un solo modo di reagire: l'attacco fisico.

Questi pregiudizi percettivi possono essere osservati in un esperimento nel quale ragazzi prepotenti e ragazzi piÙ pacifici guardano insieme alcuni filmati. In uno, un ragazzo urta un coetaneo e a quest'ultimo cadono per terra i libri: altri ragazzi che assistono alla scena si mettono a sghignazzare. Quello a cui sono caduti i libri si arrabbia e cerca di colpire uno dei presenti sorpreso a ridere. Quando i ragazzi che hanno assistito al filmato ne parlano a proiezione conclusa, i prepotenti sono sempre pronti a giustificare il ragazzo che ha menato le mani. Ancor piÙ rivelatore È il fatto che, quando, durante la discussione del filmato, i ragazzi devono valutare l'aggressivitÀ mostrata dai protagonisti del film, i prepotenti giudicano piÙ combattivo il ragazzo che ha urtato il suo coetaneo e giustificano la rabbia di quest'ultimo e il suo scagliarsi contro coloro che assistevano sghignazzando (12).

Questi giudizi affrettati attestano una deformazione percettiva assai profonda in coloro che hanno un'aggressivitÀ elevata: essi agiscono presupponendo l'ostilitÀ e la minaccia altrui e prestano troppo poca attenzione a ciÃ’ che effettivamente accade. Appena presumono di essere minacciati, passano all'azione. Per esempio, se un ragazzo aggressivo gioca a dama con un altro che muove una pedina quando non È il suo turno, egli interpreterÀ il gesto come un tentativo di “barare”, senza soffermarsi a capire se È stato un errore innocente. Egli presuppone malevolenza piuttosto che innocenza; la sua reazione È automaticamente ostile. Alla percezione automatica di un atto ostile È legata una risposta aggressiva altrettanto automatica. Invece di far notare all'altro ragazzo che ha commesso un errore, passerÀ subito alle accuse, alle grida e alle botte. E piÙ questi giovanissimi si comportano cosÃŒ, piÙ l'aggressione diventa per loro automatica e si restringono le alternative possibili, quali la cortesia o lo scherzo.

Ragazzi simili sono emotivamente vulnerabili nel senso che si alterano facilmente e si stizziscono piÙ spesso degli altri e per ragioni piÙ numerose; una volta in collera, la loro riflessione È offuscata e pertanto considerano ostili atti benevoli e ricadono nell'abitudine di reagire menando le mani (13).

Questi pregiudizi percettivi in merito alla presunta ostilitÀ altrui sono giÀ visibili nelle prime classi delle elementari. Anche se la maggior parte dei bambini, soprattutto dei maschi, È indisciplinata ai tempi dell'asilo e in prima elementare, i bambini piÙ aggressivi sono coloro che neppure in seconda classe sono riusciti ad apprendere un minimo di autocontrollo. Mentre gli altri hanno cominciato a imparare a comporre i dissidi durante il gioco con la trattativa e il compromesso, i prepotenti si affidano sempre di piÙ alla forza e agli sfoghi rabbiosi. Per questa loro condotta pagano un prezzo sociale: durante il gioco e la ricreazione, a sole due o tre ore dal primo contatto con un bambino prepotente, gli altri affermano giÀ di averlo in antipatia (14).

Studi condotti in maniera da seguire i bambini dagli anni prescolari fino all'adolescenza rivelano che la metÀ di quelli che in prima elementare sono turbolenti, incapaci di andare d'accordo con gli altri, disobbedienti ai genitori e ribelli agli insegnanti, diventano delinquenti durante l'adolescenza (15). Ovviamente, non tutti i bambini aggressivi sono destinati in seguito a diventare violenti e criminali. Ma rispetto a tutti gli altri, essi sono quelli che corrono il rischio maggiore di commettere, una volta o l'altra, reati di violenza.

La deriva verso il crimine si manifesta assai precocemente nella vita di questi ragazzi. In un asilo di Montreal una valutazione dell'ostilitÀ e della turbolenza dei bambini ha mostrato che i soggetti piÙ aggressivi all'etÀ di cinque anni, dai cinque agli otto anni dopo, ossia nella loro prima adolescenza, erano di gran lunga i piÙ inclini a comportamenti delinquenziali. Di tre volte piÙ alta rispetto agli altri ragazzi era la probabilitÀ che ammettessero di aver picchiato qualcuno senza motivo, di aver rubato nei negozi, di aver usato un'arma in uno scontro, di aver derubato pezzi di un'automobile o di averla forzata, di essersi ubriacati, e tutto ciÒ prima di aver compiuto quattordici anni (16).

La via che tipicamente conduce alla violenza e alla criminalitÀ inizia con bambini aggressivi e difficili da controllare in prima e seconda elementare (17). Solitamente, sin dai primi anni di scuola, la loro scarsa capacitÀ di frenare gli impulsi incide sul basso rendimento scolastico e sul fatto che considerino se stessi “stupidi”: un giudizio che vedono confermato dall'essere confinati in classi differenziali (e benché bambini simili possano avere un tasso piÙ elevato di “iperattivitÀ” o di difficoltÀ nell'apprendimento, ciÃ’ non vale affatto per tutti). I bambini che, all'atto di iniziare la scuola, hanno giÀ appreso in famiglia uno stile “coercitivo” - cioÈ prepotente - sono anche considerati pessimi scolari dagli insegnanti, che devono impiegare troppo tempo nel disciplinarli. Il fatto che bambini simili siano naturalmente portati a trasgredire le regole della disciplina scolastica significa, agli occhi dell'insegnante, che sprecano tempo altrimenti utilizzabile nell'apprendimento; perciÃ’ il loro fallimento scolastico È solitamente giÀ evidente sin dalla terza elementare. Anche se i ragazzi che imboccano una strada che li porterÀ alla delinquenza hanno in genere quozienti di intelligenza piÙ bassi dei coetanei, un ruolo ancor piÙ diretto È giocato dalla loro impulsivitÀ: a dieci anni l'impulsivitÀ È un fattore predittivo della successiva attitudine delinquenziale tre volte piÙ importante del quoziente intellettivo (18).

In quarta o in quinta, questi bambini - ormai considerati prepotenti o semplicemente “difficili” - vengono respinti dai coetanei, fanno amicizia difficilmente o non la fanno affatto, e il loro rendimento scolastico È fallimentare. Sentendosi privi di amici, gravitano attorno ad altri emarginati sociali. Tra la quarta e la nona classe, si legano al loro gruppo di emarginati e si dedicano a un'esistenza di trasgressione della legge: rispetto agli altri coetanei, compiono assenze ingiustificate da scuola e assumono alcol e droga in proporzione cinque volte maggiore, con la massima punta di tali comportamenti anomali tra la settima e l'ottava classe. Negli anni della scuola media, a questi soggetti si associa un altro genere di “ritardati”, attratti dal loro stile trasgressivo; costoro sono spesso ragazzi piÙ giovani, che a casa vengono abbandonati a se stessi e hanno cominciato da soli a frequentare la strada durante le elementari. Negli anni delle scuole superiori questo gruppo di emarginati abbandona in genere la scuola indirizzandosi verso la delinquenza, dedicandosi a reati minori come il taccheggio, il furto e lo spaccio di droga.

(Una differenza indicativa affiora tra i ragazzi e le ragazze in questo itinerario. Uno studio su bambine “cattive” di quarta - indisciplinate e non rispettose degli insegnanti, ma non emarginate dai coetanei - ha mostrato che alla fine delle scuole superiori il 40 per cento di loro aveva avuto un bambino [19]. Questo dato È tre volte piÙ alto della media delle ragazze rimaste incinte che frequentavano la loro stessa scuola. In altri termini le adolescenti antisociali non diventano violente, ma hanno gravidanze premature.)

Ovviamente non c'È una strada unica che porta alla violenza e alla criminalitÀ e sono molti i fattori che possono mettere a repentaglio un ragazzo: essere nato in un quartiere ad alto tasso di criminalitÀ, dove i giovanissimi sono piÙ esposti alla tentazione di compiere reati e atti di violenza, provenire da una famiglia sottoposta ad alti livelli di stress o vivere in povertÀ. Ma nessuno di tali fattori rende inevitabile una vita di criminalitÀ e di violenza. A paritÀ di essi, le forze psicologiche all'opera nei bambini aggressivi intensificano grandemente la probabilitÀ che finiscano col diventare criminali violenti. Gerald Patterson, uno psicologo che ha seguito da vicino l'itinerario di centinaia di ragazzi fino al loro ingresso nella vita adulta, afferma: “Le azioni antisociali di un bambino di cinque anni possono essere il prototipo delle azioni di un adolescente delinquente” (20).

- Una scuola per i prepotenti.

La 'forma mentis' che i ragazzi aggressivi portano con sé durante la vita È tale da spingerli con certezza a finire nei guai. Uno studio su minorenni colpevoli di atti di violenza e su studenti liceali aggressivi ha mostrato in loro una mentalitÀ comune: quando hanno problemi con qualcuno, immediatamente considerano l'altro come un antagonista e traggono affrettate conclusioni sulla sua ostilitÀ nei loro confronti, senza cercare di informarsi meglio e senza provare a risolvere i problemi in maniera pacifica. Allo stesso tempo, non pensano alle possibili conseguenze negative di una soluzione violenta - in genere uno scontro fisico. Essi giustificano mentalmente la propria attitudine aggressiva con convinzioni quali “Picchiare qualcuno È giusto, se la rabbia ti fa diventare matto”; “Se ti sottrai a un combattimento tutti penseranno che sei un vigliacco”; “Chi viene picchiato duramente in realtÀ non soffre poi molto” (21).

Ma un aiuto tempestivo puÒ mutare attitudini siffatte e puÒ bloccare il percorso di un ragazzo verso la delinquenza; numerosi programmi sperimentali hanno avuto un certo successo nell'aiutare i ragazzi aggressivi a imparare a controllare la loro inclinazione antisociale prima che essa li conduca in guai seri. Uno di questi programmi, elaborato alla Duke University, si rivolgeva a bambini difficili e irascibili delle scuole elementari, proponendo periodi di addestramento di quaranta minuti l'uno due volte alla settimana, per una durata dalle sei alle dodici settimane. Ai bambini veniva insegnato, ad esempio, a considerare come alcuni segnali sociali da loro interpretati come ostili fossero in realtÀ neutrali o amichevoli. I ragazzi imparavano a mettersi nei panni degli altri loro coetanei, ad acquisire la percezione di come venivano considerati dagli altri bambini e di ciÒ che gli altri potevano aver pensato o sentito negli episodi e nei contatti che li avevano fatti inquietare cosÌ tanto. Ricevevano anche un addestramento diretto per il controllo della collera mediante la simulazione di episodi - ad esempio essere derisi - che nella realtÀ avrebbero potuto far loro perdere la pazienza. Una delle abilitÀ principali per il controllo della collera consisteva nel sorvegliare i propri sentimenti, diventando consapevoli delle sensazioni corporee, come il rossore del viso e la tensione muscolare, che si verificano quando ci si arrabbia, nel considerare queste sensazioni come segnali di stop e nel riflettere sul da farsi invece di aggredire l'altro impulsivamente.

John Lochman, uno psicologo della Duke University che era stato tra coloro che avevano progettato questo programma, mi disse: “I bambini discutono di situazioni nelle quali si sono trovati di recente, come venire urtati nell'atrio della scuola quando pensano che il gesto sia stato fatto apposta per provocarli. Discutono di come avrebbero potuto affrontare la situazione. Ad esempio, uno di loro ha detto di essersi limitato a fissare chi lo aveva urtato, di avergli detto di non farlo piÙ e di essersi allontanato. Questa condotta lo aveva messo nella posizione di esercitare un certo controllo e di mantenere l'autostima senza iniziare uno scontro”.

Queste proposte di autocontrollo vengono accolte con favore. Molti bambini aggressivi sono infatti scontenti di arrabbiarsi cosÌ facilmente e perciÒ sono propensi a imparare l'autocontrollo. Ovviamente, quando cadono in preda alla collera, reazioni cosÌ fredde come allontanarsi o contare fino a dieci per far scemare l'impulso a reagire battendosi, non vengono automatiche; i ragazzi imparano a praticare queste alternative recitando scenette come quella di salire su un autobus dove altri ragazzi cominciano a prenderli in giro. In questo modo possono cercare di escogitare reazioni amichevoli che consentano loro di mantenere la propria dignitÀ senza essere costretti a fare a botte, a piangere o a fuggire pieni di vergogna.

Tre anni dopo aver iniziato l'addestramento, Lochman ha paragonato questi ragazzi ad altri che erano stati altrettanto aggressivi, ma non avevano usufruito delle lezioni per il controllo dell'irascibilitÀ. ScoprÌ che, nell'adolescenza, i ragazzi che avevano seguito il programma di autocontrollo erano molto meno turbolenti in classe, nutrivano sentimenti piÙ positivi verso se stessi, e avevano minori probabilitÀ di bere e di drogarsi. PiÙ a lungo avevano seguito il programma, meno aggressivi erano diventati da adolescenti.

- Prevenire la depressione.

'Dana, sedicenne, era sempre andata d'accordo con gli altri. Ma ora, all'improvviso, non riusciva piÙ ad avere buoni rapporti con le sue amiche e, cosa che la turbava ancor di piÙ, non riusciva a restare legata a un ragazzo, anche se ci andava a letto. Di umor nero e con una sensazione costante di stanchezza, Dana perse interesse al mangiare e a qualunque forma di divertimento; disse che si sentiva disperata e incapace di fare qualcosa per uscire da quello stato d'animo e che stava pensando al suicidio.

Il precipitare nella depressione era stato provocato dall'ultima rottura con un ragazzo. Dana riferÌ che non sapeva come uscire con un ragazzo senza avere subito rapporti sessuali - anche se questo la faceva sentire a disagio - e che non sapeva porre termine a una relazione anche se era insoddisfacente. Andava a letto con i ragazzi, quando tutto ciÒ che voleva veramente era di conoscerli meglio.

Si era appena trasferita in una nuova scuola e si sentiva timida e apprensiva nel fare amicizia con le ragazze nel nuovo ambiente. Per esempio, si asteneva dall'iniziare una conversazione e si limitava solo a rispondere quando qualcun'altra le rivolgeva la parola. Si sentiva incapace di comunicare agli altri ciÃ’ che provava e le sembrava persino di non saper dire nulla dopo un banale: “Ciao, come stai?”' (22).

Dana seguÃŒ a scopo terapeutico un programma sperimentale per adolescenti depressi alla Columbia University. Il trattamento mirava ad aiutarla a migliorare la propria vita di relazione: come sviluppare un'amicizia, come sentirsi piÙ sicura di sé con i coetanei, come imporre limiti all'intimitÀ sessuale, come costruire un rapporto intimo, come esprimere i propri sentimenti. In sostanza si trattava di un addestramento volto a recuperare alcune delle piÙ basilari abilitÀ emozionali. FunzionÃ’: la sua depressione scomparve.

Le difficoltÀ della vita di relazione, in particolare nei giovani, sono un fattore che scatena la depressione. Spesso le difficoltÀ nascono nel rapporto dei ragazzi con i genitori, come pure in quello con i coetanei. Spesso i bambini e gli adolescenti depressi non sono capaci - o non sono disposti - a parlare della loro tristezza. Non sembrano in grado di definire con accuratezza i propri sentimenti e manifestano invece sorda irritazione, impazienza, nervosismo e rabbia, soprattutto verso i genitori. Di conseguenza un tale comportamento rende piÙ difficile per i genitori offrire loro quel sostegno emotivo e quella guida di cui ha necessitÀ il ragazzo depresso. Si innesca perciÒ una spirale discendente che in genere porta a discussioni continue e a una sempre maggiore estraniazione.

Un nuovo esame delle cause della depressione nei giovani evidenzia lacune in due aree di competenza emozionale: da un lato, le abilitÀ relazionali, e dall'altro un modo di interpretare gli insuccessi che favorisce la depressione. Anche se la predisposizione alla depressione È quasi certamente in parte di natura genetica, per altri versi essa sembra derivare da modi di pensare pessimistici che, pur essendo correggibili, inducono i bambini a reagire alle piccole sconfitte della vita - un brutto voto, le discussioni con i genitori, un rifiuto sociale - deprimendosi. Sembra inoltre che la predisposizione alla depressione, quali che ne siano le basi, si stia diffondendo sempre piÙ largamente tra i giovani.

- Un costo della modernitÀ: la crescita della depressione.

Questi anni di fine millennio ci introducono a un'Epoca di Malinconia, cosÌ come il Ventesimo secolo È stato un'Epoca di Ansia. I dati internazionali mostrano quella che appare una moderna epidemia di depressione, che si diffonde ovunque a causa dell'adozione, in tutto il mondo, degli stili di vita moderni. Su scala mondiale, tutte le generazioni susseguitesi dall'inizio del secolo hanno conosciuto un rischio maggiore rispetto a quello dei genitori di soffrire, nel corso della vita, di una depressione seria, che non È semplicemente una condizione di tristezza, ma È apatia, abbattimento, autocommiserazione paralizzante e senso di disperazione schiacciante (23). E gli episodi depressivi si presentano in etÀ sempre piÙ giovane. La depressione infantile, un tempo quasi sconosciuta (o, almeno, non riconosciuta) si affaccia come un tratto costante dello scenario attuale.

Anche se la probabilitÀ della depressione aumenta con l'etÀ, gli incrementi maggiori riguardano i giovani. Per i nati dopo il 1955, la probabilitÀ di soffrire di una grave depressione a un certo momento della vita È, in molti paesi, tre volte o piÙ alta di quella dei loro nonni. Fra gli americani nati prima del 1905, la percentuale di coloro che nell'arco della vita hanno sofferto di una grave depressione era solo dell'1 per cento; per i nati dopo il 1955, all'etÀ di ventiquattro anni circa, il 6 per cento era depresso. Per i nati fra il 1945 e il 1954, le possibilitÀ di aver avuto una depressione grave prima del trentaquattresimo anno di etÀ sono dieci volte maggiori che per i nati fra il 1905 e il 1914 (24). E per ogni generazione l'insorgenza di un primo episodio depressivo si È verificata in etÀ sempre piÙ bassa.

Uno studio mondiale condotto su piÙ di 39 mila persone ha rilevato la stessa tendenza in paesi tra loro diversissimi come Porto Rico, il Canada, l'Italia, la Germania, la Francia, Taiwan, il Libano e la Nuova Zelanda. A Beirut la crescita della depressione ha seguito da vicino gli eventi politici: le tendenze al rialzo hanno conosciuto una brusca impennata durante la guerra civile. In Germania, la percentuale di depressione all'etÀ di 35 anni per i nati prima del 1914 È del 4 per cento, mentre per i nati nel decennio antecedente al 1944 È del 14 per cento. A livello mondiale, le generazioni che hanno raggiunto la maggiore etÀ in tempi di turbamenti politici, hanno avuto tassi piÙ elevati di depressione, anche se la tendenza complessiva al rialzo È indipendente da ogni avvenimento politico.

Anche l'abbassamento dell'etÀ in cui si hanno le prime esperienze depressive sembra una tendenza mondiale. Quando ho chiesto agli esperti di formulare un'ipotesi sulle cause, ho raccolto numerose teorie.

Il dottor Frederick Goodwin, allora direttore del National Institute of Mental Health, ha ipotizzato: “C'È stata una tremenda erosione dei nuclei familiari, un raddoppiamento della percentuale dei divorzi, un calo del tempo che i genitori dedicano ai figli e un aumento della mobilitÀ. Non si cresce piÙ all'interno di una famiglia allargata. La perdita di queste fonti stabili di autoidentificazione comporta una maggiore suscettibilitÀ alla depressione”.

Il dottor David Kupfer, titolare del corso di psichiatria alla facoltÀ di medicina dell'UniversitÀ di Pittsburgh, ha sottolineato un'altra tendenza: “Con la diffusione dell'industrializzazione dopo la seconda guerra mondiale, in un certo senso nessuno si È piÙ trovato a casa sua. In un numero sempre piÙ alto di famiglie c'È stato un aumento dell'indifferenza dei genitori verso i bisogni dei figli durante la loro crescita. Questa non È una causa diretta della depressione, ma provoca una condizione di vulnerabilitÀ. Fattori precoci di stress emotivo possono incidere sullo sviluppo nervoso e ciÃ’ puÃ’ portare a una depressione anche molti decenni dopo, quando ci si trovi in una situazione di grande stress”.

Martin Seligman, psicologo dell'UniversitÀ della Pennsylvania, ha proposto questa teoria: “Negli ultimi trenta o quarant'anni abbiamo assistito alla crescita dell'individualismo e a un declino delle piÙ diffuse credenze religiose e dei sostegni offerti dalla comunitÀ e dalla famiglia allargata. Questo significa una perdita delle risorse che possono proteggere dalle sconfitte e dai fallimenti. Nella misura in cui si considera un fallimento qualcosa di durevole, e lo si ingigantisce come se rovinasse tutta la propria vita, si È inclini a fare di una sconfitta temporanea una fonte duratura di disperazione. Ma se si possiede una prospettiva piÙ ampia, ad esempio se si crede in Dio e nell'al di lÀ, la perdita del lavoro verrÀ considerata solo una sconfitta temporanea”.

Quale che ne sia la causa, la depressione nei giovani È un problema pressante. Negli Stati Uniti, le stime del numero di bambini e adolescenti depressi in un determinato anno sono molto varie, al contrario di quelle che concernono la loro vulnerabilitÀ nell'arco dell'intera vita. Tali studi epidemiologici, che ricorrono a criteri rigorosi - i sintomi considerati nella diagnostica ufficiale della depressione -, hanno scoperto che per ragazzi e ragazze fra i dieci e i tredici anni la percentuale di incidenza di depressione grave nel corso di un anno si aggira sull'8-9 per cento, anche se altri studi la dimezzano (e in alcuni studi essa scende al 2 per cento). Alcuni dati suggeriscono che nella pubertÀ la percentuale raddoppia per i soggetti di sesso femminile; fino al 16 per cento delle ragazze fra i quattordici e i sedici anni soffrono di una crisi depressiva, mentre il valore resta immutato per i ragazzi (25).

- Il decorso della depressione nei giovani.

Il fatto che nei giovanissimi la depressione non dovrebbe soltanto essere curata, ma prevenuta, risulta evidente da una scoperta allarmante: episodi depressivi anche lievi nel bambino possono essere il segno premonitore di crisi piÙ gravi nella vita adulta (26). Questo smentisce la vecchia tesi secondo la quale la depressione infantile non avrebbe conseguenze importanti a lungo termine, visto che i bambini la supererebbero con lo sviluppo. Ovviamente di tanto in tanto ogni ragazzo diventa triste; l'infanzia e l'adolescenza sono, come l'etÀ adulta, periodi di delusioni occasionali e di perdite grandi o piccole con le conseguenti sofferenze. La necessitÀ di una prevenzione non riguarda questi casi, ma i bambini che vengono precipitati dalla tristezza in una spirale di incupimento che li lascia disperati, irritabili e chiusi in se stessi, in preda a una malinconia molto grave.

Fra i giovanissimi la cui depressione era abbastanza grave da rendere consigliabile un trattamento terapeutico, tre quarti hanno conosciuto un episodio successivo di depressione grave, secondo i dati raccolti da Maria Kovacs, una psicologa del Western Psychiatric Institute and Clinic di Pittsburgh (27). La Kovacs ha studiato i bambini ai quali era stata diagnosticata una depressione all'etÀ di otto anni, valutandoli costantemente a distanza di pochi anni finché alcuni raggiunsero i ventiquattro.

I bambini affetti da depressione grave soffrirono in media di episodi della durata di circa undici mesi, anche se in un caso ogni sei la depressione si protrasse per diciotto mesi. La depressione lieve, iniziata in alcuni bambini giÀ all'etÀ di cinque anni, produceva menomazioni minori ma durava assai piÙ a lungo, in media circa quattro anni. Kovacs ha scoperto che i bambini che hanno sofferto di una depressione lieve hanno maggiori probabilitÀ che essa si intensifichi trasformandosi in una depressione grave: la cosiddetta doppia depressione. Coloro che sviluppano una doppia depressione sono molto piÙ inclini a soffrire di ricorrenti episodi depressivi col passare degli anni. Quando i bambini che hanno avuto un episodio depressivo diventano adolescenti e adulti, soffrono di depressione o di disturbi maniaco-depressivi, in media, un anno ogni tre.

Il prezzo pagato dai giovanissimi va oltre la sofferenza causata dalla depressione in se stessa; la Kovacs mi ha detto: “I ragazzi imparano le abilitÀ sociali (per esempio, che cosa fare se vuoi qualcosa e non riesci ad averla) nei rapporti con i coetanei: osservando come gli altri affrontano una situazione simile e cercando di emularli. Ma i ragazzi depressi hanno forti probabilitÀ di essere tra gli alunni piÙ trascurati della scuola, quelli con i quali i compagni non giocano molto” (28).

L'umor nero o la tristezza provata da questi bambini li induce a evitare di inaugurare contatti sociali e a distogliere lo sguardo quando un altro bambino cerca di stabilire un contatto con loro: un segnale sociale che l'altro interpreta come un rifiuto. Il risultato conclusivo È che i bambini depressi finiscono per essere quelli rifiutati o trascurati nel gioco e nella ricreazione. Questa lacuna nella loro esperienza interpersonale significa che a loro viene a mancare ciÒ che normalmente apprenderebbero nelle baruffe di gioco: una carenza che puÒ renderli ritardati dal punto di vista sociale ed emozionale, creando un lungo distacco che dovrÀ essere recuperato una volta superata la depressione (29). Infatti, quando i ragazzi depressi sono stati confrontati a quelli che non hanno sofferto di depressione, si sono rivelati socialmente piÙ disadattati, con meno amici, meno preferiti come compagni di gioco, meno simpatici e piÙ a disagio nei rapporti con i coetanei.

Un altro prezzo pagato da questi giovanissimi È lo scarso rendimento scolastico; la depressione interferisce con la memoria e la concentrazione e rende piÙ difficile prestare attenzione in classe e tenere a mente ciÃ’ che si È appreso. Per un ragazzo che non prova piacere in niente sarÀ faticoso radunare le energie necessarie a capire a fondo lezioni impegnative, anche perché difficilmente sarÀ dotato della capacitÀ di apprendere con facilitÀ. Comprensibilmente, piÙ a lungo rimanevano depressi i ragazzi studiati dalla Kovacs, meno buoni erano i loro voti e piÙ scadenti i loro risultati nelle verifiche scolastiche. In effetti si manifestÃ’ una correlazione positiva tra la durata della depressione di un bambino e i voti scolastici, con un costante calo di rendimento nel corso dell'episodio depressivo. Ovviamente, le difficoltÀ scolastiche peggiorano la depressione. Osserva la Kovacs: “Immagina di sentirti giÀ depresso e poi di lasciare la scuola in seguito ai risultati sempre piÙ scadenti finendo per restare seduto a casa da solo invece di giocare con gli altri ragazzi”.

- Modi di pensare che ingenerano la depressione.

Proprio come accade negli adulti, un modo pessimistico di interpretare le sconfitte della vita sembra alimentare il senso di incapacitÀ e di disperazione al centro della depressione infantile. E' noto da tempo che le persone giÀ depresse hanno questo modo di pensare. CiÃ’ che È emerso solo recentemente È che invece i ragazzi piÙ inclini alla malinconia mostrano una tendenza verso questa visione pessimistica ancor prima di diventare depressi. Questa osservazione suggerisce la possibilitÀ di “vaccinarli” contro la depressione prima che la malattia esploda.

Una prova del nesso esistente tra depressione e visione pessimistica della vita proviene dagli studi sulle opinioni che i giovanissimi hanno della propria capacitÀ di controllare ciÃ’ che accade nella propria vita, ad esempio riuscire a modificare per il meglio la propria situazione. Questa capacitÀ si esprime in valutazioni di se stessi del tipo: “Quando ho problemi a casa sono piÙ bravo della maggior parte dei ragazzi nel contribuire a risolverli” e “Quando studio molto, ottengo buoni voti”. I ragazzi che affermano che nessuna di queste descrizioni positive corrisponde alla loro condizione non credono di poter fare qualcosa per migliorare le cose; questo senso di impotenza È maggiore nei giovani piÙ depressi (30).

Uno studio rivelatore ha esaminato alunni della quinta e sesta classe delle elementari nei pochi giorni successivi alla consegna delle pagelle. Come tutti ricordiamo, le pagelle sono una delle maggiori fonti di esultanza e di disperazione durante l'infanzia. I ricercatori hanno constatato una correlazione assai marcata tra la depressione e il modo in cui i bambini valutano se stessi quando ricevono un voto peggiore di quello atteso. Quelli che attribuiscono il brutto voto a un difetto personale (“Sono stupido”) si sentono piÙ depressi di quelli che lo mettono in relazione a qualcosa che essi potrebbero modificare (“Se studio di piÙ matematica, prenderÃ’ un voto piÙ alto”) (31).

I ricercatori hanno identificato un gruppo di alunni di terza, quarta e quinta classe rifiutati dai compagni di classe e hanno seguito le vicende di quelli che hanno continuato a restare emarginati l'anno seguente. Il modo in cui i bambini spiegavano il rifiuto subÌto sembrava di importanza cruciale ai fini della loro depressione. Quelli che consideravano il rifiuto come conseguenza di qualche loro difetto si deprimevano maggiormente. Ma gli ottimisti, che sentivano di poter fare qualcosa per cambiare in meglio le cose, non erano particolarmente depressi nonostante il persistente rifiuto (32). In uno studio sui giovanissimi impegnati nel passaggio notoriamente difficile alla settima classe, quelli con un'attitudine pessimistica rispondevano alle accresciute difficoltÀ scolastiche e a ogni tensione familiare aggiuntiva diventando depressi (33).

La prova piÙ diretta del fatto che una visione pessimistica rende i giovanissimi altamente suscettibili alla depressione proviene da uno studio durato cinque anni su bambini osservati a partire dalla terza classe (34). Fra i piÙ piccoli, il fattore predittivo piÙ forte della futura depressione era una visione pessimistica della vita abbinata a un grave trauma (come il divorzio dei genitori o la morte di un familiare) che aveva lasciato il bambino sconvolto e disorientato e, presumibilmente, i genitori meno capaci di sostenerlo nella crescita. Progredendo nella scuola elementare, il modo di pensare dei bambini sui fatti positivi o negativi della loro vita, andÃ’ mutando, mostrando una sempre maggior disponibilitÀ ad attribuirli ai tratti della propria personalitÀ: “Prendo buoni voti perché sono intelligente”; “Non ho molti amici perché non sono divertente”. Questo mutamento pare svilupparsi gradualmente dalla terza alla quinta classe. Mentre ciÃ’ avviene, i bambini che maturano una visione pessimistica - attribuendo i propri insuccessi a qualche difetto irrimediabile di se stessi - cominciano a cadere in preda a stati d'animo depressi in risposta agli insuccessi. Cosa ancor peggiore, la stessa esperienza della depressione sembra rafforzare questi modi di pensare pessimistici, cosicché, anche dopo la scomparsa della depressione, il ragazzo rimane segnato da quella che potremmo definire una cicatrice emozionale, ossia da un insieme di convinzioni alimentate dalla depressione e solidificatesi nella mente - non sono in grado di andare bene a scuola, non sono simpatico, non posso far nulla per sfuggire ai miei cupi pensieri. Queste fissazioni possono rendere il bambino ancor piÙ vulnerabile a un'altra crisi depressiva in futuro.

- Mandare la depressione in corto circuito.

Una buona notizia: sembra proprio che insegnando ai ragazzi alcuni modi piÙ produttivi di guardare alle proprie difficoltÀ abbassi il rischio di depressione (nota*). In uno studio su una scuola superiore dell'Oregon, circa uno studente su quattro era affetto da ciÃ’ che gli psicologi definiscono una “depressione di basso livello” - non abbastanza grave, cioÈ, da poter dire che superasse una normale infelicitÀ (35). Alcuni di questi studenti potevano forse trovarsi nelle prime settimane o nei primi mesi di quella che sarebbe diventata una vera e propria depressione.

In una classe speciale del doposcuola 75 studenti affetti da questa blanda depressione impararono ad affrontare gli schemi di pensiero associati con la depressione, a migliorare la propria abilitÀ nel fare amicizie, a migliorare i rapporti con i genitori e a intraprendere piÙ attivitÀ sociali ritenute piacevoli. Al termine di questo programma, della durata di otto settimane, il 55 per cento degli studenti si era ristabilito; fra gli studenti che non avevano seguito il programma, invece, soltanto un quarto di soggetti aveva cominciato a uscire dalla depressione. Un anno dopo, un quarto degli studenti appartenenti a questo gruppo di controllo era caduto in preda a una depressione grave, mentre la stessa evoluzione si era verificata solamente nel 14 per cento degli studenti impegnati nel programma di prevenzione. Anche se questo programma era stato svolto in sole otto sedute, sembrava aver ridotto di metÀ il rischio della depressione (36).

Risultati altrettanto promettenti erano venuti da una classe speciale di ragazzi dai dieci ai tredici anni che avevano difficoltÀ con i genitori e mostravano alcuni sintomi depressivi. Questa classe aveva seguito, durante il doposcuola, una lezione settimanale nel corso della quale aveva appreso abilitÀ emozionali fondamentali, come affrontare i contrasti, pensare prima di agire, e - forse l'abilitÀ piÙ importante - affrontare il pessimismo associato alla depressione; per esempio, decidere di studiare di piÙ dopo aver riportato brutti voti in un compito, invece di pensare: “Non sono abbastanza intelligente”.

“Un ragazzo impara in queste lezioni che stati d'animo come l'ansia, la tristezza e la rabbia non calano su di te senza che tu possa esercitare alcun controllo su di essi, ma che invece tu puoi cambiare il modo in cui ti senti attraverso ciÃ’ che pensi”, rileva lo psicologo Martin Seligman, uno dei promotori del programma durato dodici settimane. Poiché mettere in discussione i pensieri deprimenti sconfigge la tristezza che incombe sull'anima, Seligman aggiunse che tale tecnica “È un corroborante istantaneo che diventa un'abitudine”.

Anche in questo caso le lezioni speciali abbassarono di metÀ il tasso di depressione e questo risultato si protrasse per due anni. Un anno dopo la fine del programma, solo l'8 per cento dei partecipanti al corso risultÒ affetto da una depressione moderata o grave, rispetto al 29 per cento di ragazzi di un gruppo di controllo. E dopo due anni, circa il 20 per cento di coloro che avevano seguito il corso mostrava alcuni sintomi di una blanda depressione quanto meno blanda, che era emersa invece nel 44 per cento del gruppo di controllo.

Apprendere queste abilitÀ emozionali al culmine dell'adolescenza puÃ’ essere particolarmente utile. Seligman osserva: “Questi ragazzi sembrano saper affrontare meglio le consuete sofferenze adolescenziali dovute ai rifiuti. Sembrano aver imparato questa abilitÀ in un momento cruciale per il rischio di ammalarsi di depressione, proprio mentre fanno il loro ingresso nell'adolescenza. E la lezione appresa sembra persistere e rafforzarsi nel corso degli anni, indicando che essi la stanno effettivamente mettendo in pratica nella loro vita quotidiana”.

Altri esperti di depressione infantile plaudono a questi nuovi programmi. “Se si vuol fare davvero qualcosa di utile per malattie psichiatriche come la depressione, bisogna agire prima che i bambini si ammalino la prima volta” osservÃ’ la Kovacs. “La vera soluzione È una 'vaccinazione' psicologica.”

NOTA * Nei bambini, diversamente dagli adulti, l'assunzione di farmaci non rappresenta nel trattamento della depressione una chiara alternativa alla psicoterapia o all'educazione preventiva; infatti i bambini metabolizzano i farmaci diversamente dagli adulti. Gli antidepressivi triciclici, che spesso hanno successo con gli adulti, secondo studi specifici nei bambini non si sono dimostrati migliori di un placebo farmacologicamente inattivo. Nuovi antidepressivi, inclusa la fluoxetina, non sono stati ancora sperimentati per l'impiego sui bambini. La desipramina, uno dei triciclici piÙ comuni e piÙ sicuri impiegati per gli adulti, all'epoca in cui scrivo È oggetto di un severo esame da parte della Food and Drug Administration come possibile causa di morte nei bambini.

- Disturbi del comportamento alimentare.

Durante il corso postlaurea di psicologia clinica che seguii alla fine degli anni Sessanta, conobbi due donne che soffrivano di disturbi del comportamento alimentare, anche se compresi la natura dei loro problemi solo molti anni dopo. Una si era brillantemente laureata in matematica ad Harvard ed era mia amica dagli anni dell'universitÀ; l'altra era una bibliotecaria del M.I.T. La dottoressa in matematica, benché fosse magrissima, non riusciva a mangiare: il cibo, a suo dire, la disgustava. La bibliotecaria era una donna formosa e si abbuffava di gelati, torte e altri dolci; poi - come una volta mi confidÃ’ non senza imbarazzo - andava di nascosto al bagno e si procurava il vomito. Oggi alla dottoressa in matematica verrebbe diagnosticata l'anoressia nervosa, mentre alla bibliotecaria la bulimia.

All'epoca, simili definizioni non esistevano. I medici stavano appena cominciando a esaminare il problema; Hilda Bruch, un pioniere di questi studi, pubblicÒ il suo articolo fondamentale sui disturbi del comportamento alimentare nel 1969 (37). La Bruch, che si interrogava sui casi di donne che rifiutavano il cibo fino a morire, ipotizzÒ che una delle molteplici cause consistesse nella incapacitÀ di identificare e di rispondere appropriatamente agli stimoli corporei, in particolare, com'È ovvio, a quello della fame. Da allora la letteratura medica sui disturbi alimentari ha conosciuto una fioritura impressionante ed È stata avanzata una molteplicitÀ di ipotesi sulle loro cause, che vanno da una sensazione di inadeguatezza delle ragazze e delle bambine di fronte a modelli inarrivabili di bellezza femminile con i quali si sentono costrette a competere, alla presenza di madri importune che invischiano le proprie figlie in una trama di sensi di colpa e di rimproveri per sottoporle al proprio controllo.

La maggior parte di queste ipotesi soffriva di un grosso inconveniente: erano estrapolazioni da osservazioni eseguite durante la terapia. Molto piÙ attendibili, da un punto di vista scientifico, sono gli studi condotti su gruppi di persone piuttosto ampi, per verificare quali di esse, in un arco di tempo di diversi anni, finiranno per essere afflitte da una di queste patologie. Studi simili consentono un paragone chiaro che puÒ indicare, per esempio, se la presenza di genitori dominanti predispone una ragazza a disturbi del comportamento alimentare. Oltre a ciÒ, È possibile identificare l'insieme delle condizioni che suscitano il problema, distinguendole da altre che potrebbero sembrare cause, ma che in effetti si riscontrano altrettanto spesso in persone non affette dal problema e in quelle che si sottopongono alla terapia.

Quando uno studio di questo tipo venne svolto su piÙ di novecento adolescenti dalla settima alla decima classe, si riscontrÒ che le carenze emozionali - in particolare l'incapacitÀ di individuare i sentimenti dolorosi e di controllarli - erano un fattore chiave che conduceva a disturbi del comportamento alimentare (38). In una scuola superiore della periferia ricca di Minneapolis, nella decima classe c'erano 61 adolescenti che giÀ soffrivano di gravi sintomi di anoressia o di bulimia. PiÙ i problemi erano gravi - piÙ le ragazze reagivano a insuccessi, difficoltÀ e seccature con forti sentimenti negativi che non potevano placare - minore era la consapevolezza di ciÒ che esattamente stavano provando. Quando queste due tendenze emozionali venivano associate a un sentimento di pronunciata insoddisfazione per il proprio corpo, allora l'esito era l'anoressia o la bulimia. La presenza di genitori eccessivamente dominanti non sembrava giocare un ruolo di primo piano nel provocare i disturbi del comportamento alimentare. (Come la stessa Bruch aveva avvertito, era improbabile che le teorie basate sul senno di poi fossero accurate; per esempio, È facile che i genitori si controllino maggiormente in risposta ai disturbi della figlia, nel disperato tentativo di aiutarla.) Irrilevanti furono anche giudicate spiegazioni diffuse come la paura della sessualitÀ, l'inizio precoce della pubertÀ e una bassa autostima.

La catena causale messa in luce da questo studio, invece, iniziava con gli effetti prodotti sulle giovanissime adolescenti dal fatto di crescere in una societÀ ossessionata dall'aver assunto una magrezza innaturale come simbolo della bellezza femminile. Molto prima dell'adolescenza le bambine sono giÀ sensibili al loro peso corporeo. Una bambina di sei anni, ad esempio, quando la madre le chiese di andare in piscina, scoppiÃ’ a piangere dicendo che sarebbe sembrata grassa in costume da bagno. In realtÀ, afferma il pediatra della bimba che riferisce l'episodio, il suo peso era normale per l'altezza (39). In uno studio su 271 adolescenti, metÀ delle ragazze pensavano di essere troppo grasse, benché la grande maggioranza di loro fosse normale. Ma lo studio di Minneapolis ha mostrato che l'ossessione di essere sovrappeso non È in sé sufficiente a spiegare come mai alcune ragazze sviluppino disturbi del comportamento alimentare.

Alcuni obesi sono incapaci di esprimere la differenza tra aver paura, essere arrabbiati e aver fame e perciÃ’ trattano tutte queste sensazioni come se significassero soltanto fame; ciÃ’ li induce a mangiare in eccesso ogni volta che si sentono male (40). Qualcosa di simile sembra succedere alle ragazze dello studio di cui sopra. Gloria Leon, la psicologa della Minnesota University che ha condotto lo studio sui disturbi del comportamento alimentare delle adolescenti, osservÃ’ che esse “hanno scarsa consapevolezza dei propri sentimenti e dei segnali del proprio corpo; questo era il piÙ forte fattore predittivo del fatto che avrebbero sviluppato un disturbo alimentare nell'arco dei due anni successivi. Nella grande maggioranza i giovani imparano a distinguere le proprie diverse sensazioni, a dire se si sentono annoiati, arrabbiati, depressi o affamati: questa È una parte fondamentale dell'apprendimento emozionale. Ma queste adolescenti fanno fatica a distinguere le sensazioni piÙ elementari. PuÃ’ darsi che abbiano un problema con il loro ragazzo e non sono sicure se sono arrabbiate, ansiose o depresse; semplicemente sperimentano una diffusa tempesta emozionale che non sanno come affrontare efficacemente. Imparano a procurarsi una sensazione di benessere mangiando; questa puÃ’ diventare un'abitudine emozionale fortemente radicata”.

Ma quando una tale abitudine rassicurante interagisce con la pressione che le ragazze avvertono a restare magre, ecco aprirsi la strada allo sviluppo dei disturbi del comportamento alimentare. “All'inizio l'adolescente puÃ’ cominciare ad abbuffarsi” osserva la Leon. “Ma per rimanere magra, puÃ’ ricorrere al vomito o ai lassativi o a intensi esercizi fisici per perdere il grasso accumulato mangiando troppo. Questa lotta per far fronte alla confusione emozionale puÃ’ prendere perÃ’ anche un'altra strada, ossia quella di non mangiare affatto: puÃ’ essere un modo per farti sentire che esercitano almeno un qualche controllo sui sentimenti che le sommergono.”

La combinazione di una scarsa consapevolezza interiore e di deboli abilitÀ sociali comporta che queste ragazze, quando si trovano in difficoltÀ con i genitori o gli amici, non siano in grado di agire efficacemente per migliorare il rapporto o per alleviare la propria angoscia. Al contrario, il dispiacere scatena in loro i disturbi del comportamento alimentare, che siano la bulimia o l'anoressia, o semplicemente il mangiare troppo. Gloria Leon ritiene che un trattamento efficace per queste ragazze debba includere un certo recupero delle abilitÀ emozionali di cui sono carenti. “I medici constatano che la terapia È piÙ efficace se si affrontano le carenze” mi ha detto la Leon. “Queste ragazze hanno bisogno di imparare a riconoscere i propri sentimenti e di apprendere i metodi per rasserenarsi e migliorare i rapporti senza ricorrere alle proprie cattive abitudini alimentari.”

- Soli con se stessi: abbandoni.

Ecco un dramma da scuola elementare: Ben, un bambino di quarta con pochi amici, ha appena saputo dal suo unico compagno, Jason, che durante la pausa per il pranzo non giocheranno assieme, perché Jason vuole giocare con Chad, un altro bambino. Ben, sconfortato, abbassa il capo e si mette a piangere. Quando i singhiozzi sono cessati, Ben si avvicina al tavolo dove Jason e Chad stanno consumando il pasto.

“Ti odio!” grida Ben a Jason.

“Perché?” gli chiede quest'ultimo.

“Perché hai mentito” risponde Ben in tono d'accusa. “Hai detto che per tutta la settimana avresti giocato con me e hai mentito.”

Poi Ben gli gira le spalle e torna al proprio tavolo vuoto, piangendo in silenzio. Jason e Chad vanno da lui e cercano di parlargli, ma Ben si mette le dita nelle orecchie, ignorandoli volutamente, e corre via dal refettorio andando a nascondersi dietro i bidoni dei rifiuti della scuola. Alcune ragazzine che hanno assistito al fatto cercano di farli riappacificare. Trovano Ben e gli riferiscono che Jason È disposto a giocare anche con lui. Ma Ben non ne vuol sapere e dice loro di lasciarlo in pace. Medica da solo le proprie ferite, singhiozzando e rimuginando in silenzio (41).

Senza dubbio un episodio struggente; la sensazione di essere respinti e di rimanere senza amici È qualcosa che quasi tutti abbiamo provato in qualche momento dell'infanzia o dell'adolescenza. Ma ciÒ che È piÙ rivelatore della reazione di Ben È la sua incapacitÀ di rispondere agli sforzi di Jason per ristabilire l'amicizia, un atteggiamento che prolunga la sua situazione critica quando essa avrebbe potuto aver termine. Una tale incapacitÀ di cogliere segnali fondamentali È tipica dei bambini considerati antipatici; come abbiamo visto nel capitolo 8, i bambini oggetto di rifiuto sociale sono in genere poco abili nel decifrare i segnali emozionali e sociali e, anche quando ci riescono, il repertorio delle loro risposte È spesso assai limitato.

L'abbandono scolastico È un rischio che colpisce in modo particolare i ragazzi rifiutati dagli altri. Il tasso di abbandono scolastico di questi giovanissimi È tra le due e le otto volte maggiore di quello dei ragazzi che hanno amici. Uno studio ha scoperto, ad esempio, che circa il 25 per cento dei ragazzi che alle elementari venivano considerati antipatici, ha abbandonato gli studi prima di ultimare la scuola secondaria superiore, rispetto a una percentuale complessiva dell'8 per cento (42). C'È poco da stupirsi: immaginate di dover trascorrere trenta ore alla settimana in un posto dove non siete simpatici a nessuno.

Le inclinazioni emozionali che portano i ragazzi all'emarginazione sociale sono di due tipi. Come abbiamo visto, una È la propensione a scoppi d'ira violenti e a percepire l'ostilitÀ altrui anche in assenza di reali intenzioni ostili. Il secondo È la timidezza e l'apprensione nei contatti sociali. Al di lÀ e al di sopra di questi fattori caratteriali stanno poi i ragazzi “imbranati” - i cui impacci mettono gli altri ripetutamente a disagio e che solitamente vengono emarginati.

Uno dei modi in cui questi giovanissimi mostrano la propria “imbranataggine” consiste nel tipo di segnali emozionali che essi inviano. Quando ai bambini delle elementari con pochi amici si chiede di associare un'emozione come il disgusto o la rabbia con immagini di volti che manifestano una vasta gamma di emozioni, essi commettono errori piÙ numerosi dei bambini simpatici. Quando ai bambini dell'asilo È stato chiesto di spiegare come fare amicizia o evitare di scontrarsi con qualcuno, i soggetti considerati antipatici - cioÈ quelli con i quali gli altri evitano di giocare - se ne sono usciti con risposte del tutto inappropriate (“Dargli un pugno” come soluzione al conflitto quando due bambini vogliono lo stesso giocattolo, ad esempio) o con vaghe richieste di aiuto a una persona piÙ grande. E quando È stato chiesto ad alcuni adolescenti di fingere di essere tristi, arrabbiati o maliziosi, i piÙ antipatici recitarono la parte nel modo meno persuasivo. Non c'È forse da stupirsi che questi ragazzi giungano a considerarsi incapaci di fare amicizie; la loro incompetenza sociale si trasforma cosÃŒ in una profezia che si autoavvera. Invece di imparare nuovi modi di fare amicizia, essi semplicemente continuano a ripetere gli stessi errori giÀ rivelatisi tali in passato, oppure reagiscono in maniera ancor piÙ stupida (43).

Nella roulette della simpatia, questi ragazzi non soddisfano i criteri emozionali di base: stare con loro non È considerato divertente ed essi non sanno mettere a proprio agio un coetaneo. Osservazioni compiute su ragazzi antipatici durante il gioco, mostrano ad esempio che essi sono molto piÙ inclini degli altri a ingannare, a tenere il broncio, a abbandonare il gioco quando perdono o a vantarsi quando vincono. Ovviamente la maggior parte dei ragazzi vuol vincere, ma È capace di contenere la propria reazione emotiva sia in caso di sconfitta sia in caso di vittoria, cosÌ da non danneggiare il rapporto con i compagni di gioco.

Mentre i ragazzi socialmente disadattati - che hanno continue difficoltÀ a decifrare le emozioni e a rispondere a esse - finiscono per restare socialmente isolati, questo esito non riguarda, com'È ovvio, i ragazzi che attraversano un'emarginazione solo temporanea. Ma per quelli continuamente esclusi e rifiutati, il penoso stato di emarginazione persiste con il passare degli anni scolastici. Mentre il giovane entra nell'etÀ adulta, le possibilitÀ di finire ai margini della societÀ sono molto elevate. E' nell'ambito delle amicizie intime e nel tumulto del gioco che gli adolescenti affinano le abilitÀ sociali ed emozionali che impiegheranno nei rapporti interpersonali. I ragazzi esclusi da questa sfera di apprendimento risultano, ovviamente, svantaggiati.

Comprensibilmente, chi viene rifiutato denuncia uno stato di grande ansia e riferisce di avere molte preoccupazioni, di sentirsi depresso e solo. In effetti È stato dimostrato che il grado di simpatia di cui gode un bambino in terza classe È un fattore predittivo piÙ attendibile di ogni altro per quanto riguarda problemi di salute mentale che possono insorgere a diciotto anni: piÙ attendibile delle valutazioni di insegnanti e assistenti sanitari, del rendimento scolastico, del quoziente intellettivo e perfino dei risultati ottenuti nei test psicologici (44). E, come abbiamo visto, nelle fasi successive della vita le persone con pochi amici e cronicamente sole corrono rischi maggiori di malattia e di morte precoce.

Come ha evidenziato lo psicoanalista Harry Stuck Sullivan, impariamo a intrattenere rapporti intimi - ad accettare le differenze e a condividere i sentimenti piÙ profondi - nell'ambito delle nostre prime grandi amicizie con individui del nostro sesso. Ma rispetto ai loro coetanei i bambini socialmente respinti hanno soltanto la metÀ delle probabilitÀ di avere un amico preferito durante gli anni cruciali della scuola elementare; pertanto viene loro a mancare un'opportunitÀ essenziale per la crescita emozionale (45). Un amico puÒ fare la differenza, anche quando tutti gli altri coetanei ti girano le spalle (e anche quando quell'amicizia non sia affatto solida).

- Addestrare all'amicizia.

C'È una speranza per i ragazzi rifiutati, nonostante la loro inadeguatezza. Steven Asher, uno psicologo dell'UniversitÀ dell'Illinois, ha ideato un corso di “addestramento all'amicizia” per bambini antipatici, che si È rivelato di una certa efficacia (46). Dopo aver identificato in terza e quarta classe i bambini che erano considerati meno simpatici, Asher impartÃŒ loro sei lezioni su come “rendere piÙ divertenti i giochi” essendo “cordiali, divertenti e gentili”. Per evitare di etichettarli come i piÙ antipatici, ai bambini fu detto che avrebbero avuto la funzione di “consulenti” dell'istruttore, il quale stava cercando di imparare come rendere piÙ divertenti i giochi dei bambini.

I bambini furono addestrati a comportarsi secondo modalitÀ che Asher aveva trovato tipiche dei ragazzi piÙ simpatici. Per esempio, vennero incoraggiati a pensare a soluzioni e a compromessi alternativi (invece di accapigliarsi), nel caso in cui sorgessero tra loro contrasti sulle regole del gioco; a ricordarsi di parlare con il compagno di giochi e di fargli domande; ad ascoltarlo e a osservarlo per vedere come agisce; a dire qualcosa di gentile quando l'altro bambino fa bene qualcosa; a sorridere e a offrire aiuto, suggerimenti o incoraggiamento. I bambini provarono anche a praticare questi comportamenti gradevoli mentre giocavano con un compagno di classe e in seguito l'istruttore commentÒ con loro gli aspetti positivi della loro condotta. Questo breve corso su come andare d'accordo con gli altri ebbe un effetto notevole: un anno dopo, i bambini che l'avevano seguito - tutti scelti tra i meno amati nella rispettiva classe - si erano saldamente guadagnata la simpatia dei compagni. Nessuno di loro era diventato un campione di popolaritÀ, ma nessuno veniva piÙ rifiutato.

Risultati simili sono stati riscontrati da Stephen Nowicki, uno psicologo della Emory University (47). Il suo programma addestra gli emarginati sociali ad affinare la propria capacitÀ di decifrare i sentimenti altrui e di rispondere a essi nella maniera piÙ appropriata. I ragazzi, ad esempio, vengono filmati mentre tentano di esprimere sentimenti come la felicitÀ o la tristezza e vengono istruiti su come migliorare la propria espressivitÀ emozionale. Poi, mettono alla prova le loro migliorate capacitÀ con un coetaneo del quale vogliono diventare amici.

Tali programmi hanno riscosso una percentuale di successi compresa fra il 50 e il 60 per cento nell'accrescere la simpatia dei ragazzi rifiutati. Questi programmi (almeno nelle versioni attuali) sembrano funzionare meglio per i bambini di terza e quarta classe che non per ragazzi piÙ grandi e sembrano piÙ utili per i bambini incapaci di stabilire rapporti sociali che per quelli molto aggressivi. Ma È solo questione di metterli a punto; il segnale positivo È che molti ragazzi rifiutati, o comunque la maggior parte di essi possono essere introdotti nel circolo dell'amicizia con un po' di addestramento emozionale di base.

- Alcol e droghe: la dipendenza come automedicazione.

Gli studenti nel mio campus universitario lo definiscono “bere fino al nero”, ossia riempirsi di birra fino al punto di perdere i sensi. Una delle tecniche consiste nell'attaccare un imbuto a un tubo da giardinaggio in modo che una lattina di birra possa essere scolata in circa dieci secondi. Non si tratta di una stranezza isolata. Un'indagine ha mostrato che due quinti degli studenti universitari di sesso maschile si scolano sette o piÙ birre in una sola volta, mentre l'11 per cento si autodefinisce “forte bevitore”. Ovviamente, un'altra definizione potrebbe essere quella di “alcolizzato” (48). Quasi la metÀ degli studenti e quasi il 40 per cento delle studentesse universitarie si ubriacano almeno due volte in un mese (49).

Anche se negli Stati Uniti l'uso della maggior parte delle droghe fra i giovani ha conosciuto in generale una contrazione negli anni Ottanta, c'È una tendenza costante verso un maggior uso dell'alcol in fasce di etÀ sempre piÙ basse. Un'inchiesta condotta nel 1993 ha scoperto che il 35 per cento delle studentesse universitarie afferma di bere per ubriacarsi, mentre appena il 10 per cento faceva altrettanto nel 1977; complessivamente uno studente su tre beve per ubriacarsi. Questo comportamento È fonte di altri pericoli: il 90 per cento di tutti gli stupri denunciati nei college universitari È avvenuto quando o l'aggressore o la vittima, o entrambi, avevano bevuto (50). Gli incidenti legati all'abuso di alcol sono la principale causa di morte fra i giovani dai quindici ai ventiquattro anni (51).

La sperimentazione delle droghe e dell'alcol potrebbe apparire un rito di passaggio per gli adolescenti, ma per alcuni di loro questo primo episodio puÒ avere effetti duraturi. Per la maggioranza dei drogati e dei tossicodipendenti l'inizio della dipendenza puÒ esser fatto risalire all'adolescenza, anche se pochi di quelli che in quegli anni fanno esperienza di droga e sesso finiscono per diventare alcolizzati o tossicodipendenti. Quando prende il diploma, piÙ del 90 per cento degli studenti delle superiori ha sperimentato l'alcol e tuttavia solo il 14 per cento circa finisce col diventare alcolizzato; dei milioni di americani che hanno sperimentato la cocaina, meno del 5 per cento È diventato dipendente (52). Da che cosa dipende la differenza?

Certamente chi vive in quartieri con un'alta presenza di criminalitÀ, nei quali la droga È venduta a ogni angolo di strada e il trafficante È l'espressione locale piÙ evidente del successo economico, corre maggiori rischi di diventare tossicodipendente. Alcuni finiscono tossicodipendenti dopo essere diventati piccoli spacciatori; altri per la facile reperibilitÀ della droga o per effetto di una sottocultura giovanile che esalta l'uso delle stesse, un fattore, quest'ultimo, che innalza il rischio di tossicodipendenza in ogni quartiere, anche (e forse soprattutto) nei piÙ benestanti. E tuttavia la domanda rimane: fra quanti sono esposti a queste attrattive o a queste pressioni e che continuano a sperimentare la droga, chi sono coloro che hanno maggiori probabilitÀ di contrarre un'abitudine duratura?

Una teoria scientifica corrente È che a contrarre l'abitudine, diventando sempre piÙ dipendenti dall'alcol e dalla droga, sono coloro che fanno uso di queste sostanze come di una sorta di medicinale un modo per placare sentimenti di ansia, di rabbia o di depressione. Durante la loro prima sperimentazione si imbattono in una soluzione chimica, un modo per calmare i sentimenti di ansia o di malinconia che li tormentano. CosÃŒ, su molte centinaia di studenti di settima e ottava classe seguiti per due anni, quelli che risultarono soggetti ai livelli piÙ alti di sofferenza emozionale risultarono in seguito maggiormente dediti all'abuso di alcol o di stupefacenti (53). Questo spiegherebbe perché tanti giovani possono sperimentare le droghe e l'alcol senza diventare dipendenti, mentre altri lo divengono sin dall'inizio: i piÙ vulnerabili alla dipendenza sembrano trovare nella droga o nell'alcol un modo immediato per lenire le emozioni che li hanno fatti soffrire per anni.

Come ha affermato Ralph Tarter, uno psicologo del Western Psychiatric Institute and Clinic di Pittsburgh: “Per le persone biologicamente predisposte, la prima bevuta o la prima dose di stupefacenti sono esperienze immensamente corroboranti, in un modo che altri semplicemente non sperimentano. Molti tossicodipendenti in fase di recupero mi dicono: 'Quando ho preso la mia prima dose di droga, mi sono sentito normale per la prima volta'. La droga dÀ loro stabilitÀ psicologica, almeno a breve termine” (54). Questo, ovviamente, È il patto col diavolo della dipendenza: una sensazione positiva a breve termine in cambio del continuo disfacimento di tutta una vita.

Certe caratteristiche emozionali sembrano indurre a trovare sollievo in una sostanza piuttosto che in un'altra. Per esempio, ci sono due percorsi emozionali che conducono all'alcolismo. Uno comincia quando una persona molto tesa e ansiosa durante l'infanzia scopre, in genere da adolescente, che l'alcol placa l'ansia. Molto spesso si tratta di figli, in genere maschi, di alcolisti, che sono ricorsi anche loro all'alcol per calmare il proprio nervosismo. Un contrassegno biologico di questo tipo di alcolizzati È dato dalla scarsa secrezione di Gaba, un neurotrasmettitore che regola l'ansia: una carenza di Gaba si manifesta soggettivamente con un alto livello di tensione. Uno studio ha rilevato che i figli di padri alcolizzati hanno bassi livelli di Gaba e sono molto ansiosi, ma quando bevono alcol i loro livelli di Gaba salgono e l'ansia si attenua (55). Questi figli di alcolizzati bevono per allentare la tensione, trovando nell'alcol un rilassamento che, in apparenza, non saprebbero ottenere in altro modo. Persone simili possono ricorrere all'abuso di sedativi come di alcol col medesimo scopo di ridurre l'ansia.

Uno studio neuropsicologico su figli di alcolizzati che all'etÀ di dodici anni hanno mostrato sintomi di ansia, quali un aumento della frequenza cardiaca in risposta allo stress e un alto grado di impulsivitÀ, ha riscontrato che questi adolescenti avevano anche una scarsa funzionalitÀ del lobo frontale (56). Pertanto, le aree cerebrali che avrebbero potuto attenuare l'ansia o controllare l'impulsivitÀ erano in loro meno funzionanti che in altri individui. E poiché i lobi prefrontali sono anche sede della memoria di lavoro - che presenta alla mente le conseguenze delle varie possibilitÀ di azione mentre si prende una decisione - la loro carente funzionalitÀ puÃ’ indurli a scivolare nell'alcolismo, facendogli ignorare le conseguenze a lungo termine del bere, proprio mentre - grazie all'alcol - sperimentano un'immediata azione calmante sull'ansia.

Questo estremo desiderio di serenitÀ sembra essere il contrassegno emozionale di una predisposizione genetica all'alcolismo. Uno studio su 1300 familiari di alcolisti ha mostrato che i figli degli alcolisti piÙ a rischio di diventare essi stessi alcolizzati erano quelli soggetti a livelli di ansia cronicamente elevati. In effetti i ricercatori conclusero che l'alcolismo si sviluppa in persone di questo tipo come “automedicazione dei sintomi di ansia” (57).

Un secondo percorso emozionale che porta all'alcolismo scaturisce da un alto livello di agitazione, di impulsivitÀ e di noia. Questo tipo si mostra nell'infanzia in bambini irrequieti, nervosi e indisciplinati; negli anni delle elementari sotto forma di agitazione, iperattivitÀ e tendenza a mettersi nei guai, una propensione che, come abbiamo visto, puÃ’ spingere tali bambini a cercare amici nelle aree marginali, portandoli talvolta a una carriera da criminali o alla diagnosi di “disturbo antisociale della personalitÀ”. Queste persone (e si tratta prevalentemente di uomini) si lamentano soprattutto di essere agitate; la loro prima debolezza È un'impulsivitÀ incontrollata; la loro reazione usuale alla noia, che spesso li affligge, È una ricerca impulsiva del rischio e dell'eccitazione. Da adulti, persone con tratti simili (che possono essere collegati a carenze di altri due neurotrasmettitori, la serotonina e le Mao) constatano che l'alcol puÃ’ placare la loro agitazione. E il fatto di non poter sopportare la monotonia li rende disposti a provare qualunque cosa; questa attitudine, abbinata alla loro generale impulsivitÀ, li predispone all'abuso di alcol e di molte altre droghe (58).

Anche se la depressione puÒ indurre a bere, gli effetti metabolici dell'alcol dopo un sollievo di breve durata spesso peggiorano la depressione. Chi ricorre all'alcol come un palliativo emozionale, lo fa molto piÙ spesso per placare l'ansia che per sfuggire alla depressione; una categoria di droghe del tutto diversa lenisce le sensazioni delle persone depresse, almeno temporaneamente. Il sentirsi cronicamente infelici espone a un maggior rischio di dipendenza da stimolanti come la cocaina, che forniscono un diretto antidoto al senso di depressione. Uno studio ha rilevato che a piÙ della metÀ dei pazienti curati in una clinica per dipendenza da cocaina era stata diagnosticata una depressione grave prima che incominciassero ad assumere lo stupefacente in via abitudinaria; piÙ profonda era stata la precedente depressione e piÙ forte era diventata l'abituale assunzione di droga (59).

Una irascibilitÀ cronica puÒ condurre a un altro tipo di predisposizione. In uno studio su quattrocento pazienti in cura per tossicodipendenza da eroina e da altri oppiacei, il piÙ evidente tratto emozionale era una permanente difficoltÀ a controllare la collera e la tendenza ad arrabbiarsi facilmente. Alcuni pazienti ammisero che con gli oppiacei finalmente si sentivano normali e rilassati (60).

Anche se la predisposizione all'abuso di stupefacenti puÃ’ in alcuni casi avere una base organica cerebrale, i sentimenti che inducono le persone ad “automedicarsi” con l'alcol o le droghe possono essere controllati senza ricorso a medicinali, come hanno dimostrato da decenni gli Alcolisti Anonimi e altri programmi di recupero. Acquisire la capacitÀ di controllare quei sentimenti - placare l'ansia, scacciare la depressione, calmare la collera - rimuove la tendenza a far uso di droghe o di alcol come prima risposta. Queste abilitÀ emozionali fondamentali vengono insegnate nei programmi terapeutici di recupero dall'abuso di droga e di alcol. Ovviamente sarebbe molto meglio se venissero apprese presto nella vita, molto prima che si stabilisca l'abitudine a ricorrere a queste sostanze.

- Non piÙ guerre: un comune percorso di prevenzione definitivo.

Nell'ultimo decennio si È dichiarata “guerra” di volta in volta a mali sociali come le gravidanze precoci, gli abbandoni scolastici, la droga e, piÙ recentemente, la violenza. Il guaio di queste campagne È perÃ’ che arrivano troppo tardi, dopo che il male da colpire ha giÀ raggiunto proporzioni epidemiche e si È radicato stabilmente nella vita dei giovani. Si tratta di interventi in momenti ormai critici, come risolvere un problema sanitario con l'invio di un'ambulanza per salvare il malato piuttosto che con una vaccinazione che scongiurerebbe in anticipo la malattia. Invece di continuare simili “guerre”, abbiamo bisogno di seguire la logica della prevenzione offrendo ai nostri bambini quelle capacitÀ per affrontare la vita che aumenteranno le loro probabilitÀ di sottrarsi a un destino sfortunato (61).

Il mio richiamare l'attenzione sulle carenze emozionali e sociali non vuol rappresentare la negazione del ruolo giocato da altri fattori di rischio, come il crescere in una famiglia frantumata, violenta e caotica o in un quartiere povero, segnato dal crimine e dalla droga. La povertÀ da se stessa infligge traumi emozionali ai bambini: i bambini piÙ poveri giÀ a cinque anni sono piÙ timorosi, ansiosi e tristi dei loro coetanei benestanti. Hanno anche maggiori problemi comportamentali - ad esempio fanno i capricci frequentemente e rompono gli oggetti - una tendenza che continua durante l'adolescenza. La pressione della povertÀ corrode anche la vita familiare: in genere ci sono minori espressioni di affetto da parte dei genitori, piÙ depressione nelle madri (che spesso sono sole e senza lavoro) e un maggior ricorso a punizioni severe come sgridate, botte e intimidazioni (62).

Ma la competenza emozionale esercita un ruolo che va ben oltre i fattori familiari ed economici, che puÃ’ rivelarsi decisivo nel determinare fino a che punto un certo bambino o adolescente È indifeso dinanzi alle avversitÀ o trova un nucleo di resistenza per sopravvivere a esse. Studi a lungo termine su centinaia di bambini cresciuti in povertÀ, in famiglie violente o allevati da un genitore con gravi disturbi mentali mostrano che coloro che sanno resistere persino di fronte alle piÙ tremende avversitÀ posseggono in genere abilitÀ emozionali fondamentali (63). Queste comprendono la capacitÀ decisiva di socializzare in maniera vincente attirando gli altri verso di sé, la fiducia in se stessi, un ottimismo persistente anche di fronte al fallimento e alla frustrazione, la capacitÀ di riprendersi in fretta dai dispiaceri e un'indole accomodante.

Ma la grande maggioranza dei bambini affronta le difficoltÀ della vita senza queste risorse. Ovviamente molte di queste capacitÀ sono innate, una fortunata ereditÀ genetica, ma perfino le qualitÀ del carattere possono mutare in meglio, come abbiamo visto nel capitolo 14. Una linea di intervento È ovviamente di carattere politico ed economico e consiste nell'alleviare la povertÀ e le altre condizioni sociali che generano questi problemi. Ma a prescindere da questi provvedimenti (che sembrano passare sempre piÙ in secondo piano nei programmi di governo) si puÒ offrire molto ai bambini per aiutarli ad affrontare meglio avversitÀ cosÌ debilitanti.

Prendiamo il caso dei disturbi emozionali, di cui fa esperienza nel corso della vita circa un americano su due. Uno studio su un campione rappresentativo composto da 8098 americani ha scoperto che il 48 per cento di essi ha sofferto di almeno un problema psichiatrico nel corso della vita (64). PiÙ severamente colpito È stato il 14 per cento, afflitto contemporaneamente da tre o piÙ problemi psichiatrici. Questo gruppo raccoglie le persone che hanno maggiori disagi e corrisponde al 60 per cento di tutti i disturbi psichiatrici che si verificano in un qualsiasi momento e al 90 per cento di quelli piÙ gravi e invalidanti. Benché pazienti simili abbiano bisogno di una terapia intensiva nel presente, il migliore approccio terapeutico sarebbe la prevenzione dei loro problemi sin dall'inizio, dovunque fosse possibile. Certamente non tutti i disturbi mentali possono essere prevenuti, ma ve ne sono alcuni, forse molti. che sono suscettibili di prevenzione. Ronald Kessler, il sociologo dell'UniversitÀ del Michigan che ha condotto lo studio, mi ha detto: “Dobbiamo intervenire presto. Prendiamo il caso di una ragazza che in sesta classe abbia una fobia sociale e che nei primi anni delle scuole superiori cominci a bere per dominare le sue ansie. A ventotto, ventinove anni, quando diviene oggetto del nostro studio, È ancora una persona piena di paure, È ormai dedita all'alcol e alle droghe ed È depressa perché la sua vita È un fallimento. Il grosso problema È: che cosa avremmo potuto fare prima, per evitare tutto questo?”.

Lo stesso discorso vale, ovviamente, per uscire dalla spirale della violenza o per la maggioranza dei pericoli che si parano dinanzi ai giovani di oggi. Programmi educativi per prevenire vari problemi specifici come l'uso di droga e la violenza sono proliferati in maniera incontrollata negli ultimi dieci anni, creando una sorta di piccola industria nel mercato educativo. Ma molti di essi, compresi molti dei piÙ commercializzati e utilizzati, si sono dimostrati inefficaci. Con rammarico degli educatori, alcuni programmi hanno perfino dato l'impressione di accrescere i problemi che dovevano evitare, in particolare l'abuso di sostanze stupefacenti e i rapporti sessuali fra adolescenti.

L'INFORMAZIONE NON E' SUFFICIENTE.

Un esempio istruttivo È offerto dagli abusi sessuali sui bambini. Nel 1993 sono stati denunciati negli Stati Uniti circa duecentomila casi accertati con una crescita su base annua di circa il 10 per cento. Benché le stime siano molto varie, la maggior parte degli esperti concorda sul fatto che fra il 20 e il 30 per cento delle ragazze e circa la metÀ dei ragazzi sono o sono stati vittime di qualche forma di abuso sessuale entro il diciassettesimo anno di etÀ (le cifre salgono o calano a seconda della definizione di abuso sessuale, a prescindere da altri fattori) (65). Non esiste un profilo tipologico unico per descrivere il bambino particolarmente vulnerabile all'abuso sessuale; ma per effetto di ciÃ’ che È loro accaduto la maggior parte di loro si sentono privi di protezione, incapaci di resistere da soli e isolati dagli altri.

Tenendo presenti questi pericoli, molte scuole hanno cominciato a offrire programmi di prevenzione degli abusi sessuali. La maggior parte di questi programmi si concentra strettamente sulle informazioni fondamentali circa l'abuso sessuale, insegnando, ad esempio, ai ragazzi a distinguere tra contatti fisici “buoni” e “cattivi”, mettendoli in guardia contro i pericoli ed esortandoli a riferire a un adulto se capita loro qualcosa di increscioso. Ma un'inchiesta nazionale su duemila ragazzi ha riscontrato che questa istruzione di base era di scarsissima utilitÀ nell'aiutare i giovanissimi a fare qualcosa per evitare di diventare le vittime di un compagno prepotente a scuola o di un potenziale molestatore di bambini (66). Ancor peggio, i ragazzi che avevano seguito solo questo programma educativo e che in seguito erano diventati vittime di aggressioni sessuali denunciavano l'accaduto con una frequenza inferiore alla metÀ rispetto a coloro che non avevano seguito alcun programma.

All'opposto, gli adolescenti a cui era stata fornita un'istruzione piÙ ampia, che comprendeva le competenze sociali ed emozionali correlate, erano piÙ capaci di proteggersi dal pericolo di diventare vittime di abusi sessuali: erano molto piÙ inclini a esigere di essere lasciati in pace, a gridare o a combattere, a minacciare di riferire l'episodio e a raccontare effettivamente se era loro accaduto qualcosa di male. Quest'ultimo vantaggio - denunciare la violenza subita - ha un notevole valore preventivo, poiché molti molestatori prendono di mira centinaia di bambini. Uno studio su molestatori di bambini tra i quaranta e i cinquant'anni ha mostrato che, in media, essi fanno una vittima al mese a partire dagli anni dell'adolescenza. Una denuncia relativa a un conduttore di autobus e a un insegnante di informatica in una scuola superiore rivela che essi, tra tutti e due, hanno molestato circa trecento minori ogni anno, nessuno dei quali denunciÃ’ di aver subito abusi sessuali; gli abusi vennero alla luce solo dopo che uno dei ragazzi, che era stato molestato dall'insegnante, cominciÃ’ a sua volta a molestare la sorella (67).

I ragazzi che avevano ricevuto un'istruzione piÙ ampia sugli abusi sessuali erano tre volte piÙ pronti a denunciare l'abuso rispetto a quelli che avevano seguito solo un corso preventivo minimo. Che cosa produceva risultati cosÌ interessanti? Questi programmi non trattavano l'argomento una sola volta, ma venivano ripetuti parecchie volte a livelli diversi nel corso della carriera scolastica di un ragazzo, come parte dell'educazione sanitaria e sessuale. Inoltre i genitori venivano invitati a trasmettere al bambino lo stesso messaggio insegnato a scuola (i bambini con i genitori che accolsero l'invito erano i piÙ preparati nel resistere alla minaccia di abusi sessuali).

Oltre a questo, le competenze sociali ed emozionali facevano la differenza. Per un bambino non È sufficiente saper distinguere i contatti fisici “buoni” da quelli “cattivi”; essi devono essere consapevoli di saper riconoscere quando una situazione prende una piega sbagliata o pericolosa assai prima che inizi il contatto fisico. Questo comporta non solo l'autoconsapevolezza, ma anche una fiducia in se stessi e una sicurezza di sé sufficienti a metterli in condizione di credere alle proprie sensazioni di pericolo e di agire di conseguenza, anche di fronte a un adulto che rassicuri il minore affermando che “non c'È niente di male”. PerciÃ’ un adolescente deve poter disporre di un repertorio di soluzioni - dallo scappare al minacciare di riferire l'episodio - per scongiurare quello che sta per accadere. Per questi motivi, i migliori programmi educativi insegnano ai ragazzi a far valere la propria volontÀ, ad affermare i propri diritti invece di rimanere passivi, a conoscere quali sono i confini della propria persona che devono essere rispettati e a difenderli.

I programmi piÙ efficaci integrano l'informazione di base sugli abusi sessuali con le abilitÀ emozionali e sociali essenziali. Questi programmi insegnano ai ragazzi a trovare il modo di risolvere positivamente i conflitti interpersonali, ad avere piÙ fiducia in se stessi, a non autoincolparsi se accade qualcosa di negativo, a sentire di poter contare su una rete di sostegno costituita da insegnanti e genitori, a cui possono rivolgersi. Se a ragazzi cosÌ preparati capita qualcosa di spiacevole, sono molto piÙ propensi degli altri a riferirlo.

I COMPONENTI ATTIVI.

Simili acquisizioni hanno portato a riconsiderare quali dovrebbero essere i componenti di un programma preventivo ottimale, in base agli elementi che valutazioni imparziali hanno dimostrato essere veramente efficaci. In un progetto quinquennale, promosso dalla W. T. Grant Foundation, un gruppo di ricercatori ha studiato la situazione e ha individuato i componenti attivi che apparivano fondamentali nel determinare il successo dei programmi (68). Secondo questi ricercatori, l'elenco delle abilitÀ fondamentali che dovrebbero essere insegnate, qualunque sia il problema specifico da prevenire, comprende tutti i componenti dell'intelligenza emozionale (vedi Appendice D per l'elenco completo) (69).

Le abilitÀ emozionali comprendono l'autoconsapevolezza; identificare, esprimere e controllare i sentimenti; frenare gli impulsi e rimandare la gratificazione; controllare la tensione e l'ansia. Un'abilitÀ fondamentale, nel trattenere gli impulsi, sta nel conoscere la differenza tra sentimenti e azioni, e nell'apprendere a migliorare le proprie decisioni emozionali, innanzitutto frenando l'impulso ad agire e poi identificando (prima di agire) le azioni alternative e le relative conseguenze. Molte competenze sono interpersonali: decifrare i segnali sociali ed emozionali, ascoltare, essere in grado di resistere alle influenze negative, mettersi dal punto di vista dell'altro e capire quale comportamento sia accettabile in una situazione.

Queste sono le abilitÀ sociali ed emozionali piÙ importanti nella vita e comprendono rimedi almeno parziali per la maggior parte delle difficoltÀ che ho discusso nel capitolo, se non proprio per tutte. La scelta di problemi specifici per la soluzione dei quali queste abilitÀ offrono una sorta di vaccinazione preventiva È quasi a piacimento: il ruolo delle competenze sociali ed emozionali puÒ essere esemplificato nei casi piÙ diversi, dalle gravidanze premature indesiderate, al suicidio degli adolescenti.

Certamente le cause di tutti questi problemi sono complesse, perché comprendono un intreccio di determinazione biologica, dinamica familiare, di politica della povertÀ e cultura della strada. Nessun intervento singolo, compreso quello che ha di mira le emozioni, puÃ’ pretendere di risolvere da solo i problemi. Ma dal momento che le carenze emozionali provocano rischi aggiuntivi nella vita dei ragazzi - e abbiamo constatato che ne producono molti - l'attenzione dev'essere rivolta ai rimedi emozionali, non per escludere altre risposte, ma in combinazione con esse. La prossima domanda È: come dev'essere un'educazione delle emozioni?

16. INSEGNARE A SCUOLA LE EMOZIONI.

'La prima speranza di una nazione È riposta nella corretta educazione della sua gioventÙ'.

ERASMO.

E' uno strano gioco di ruoli che si svolge in una quinta elementare, tra quindici alunni seduti in cerchio sul pavimento con le gambe incrociate nello stile dei pellirosse. Quando l'insegnante li chiama per nome, i bambini non rispondono con l'inespressivo “presente” in uso nelle scuole, ma con un numero che indica come si sentono; “uno” significa essere giÙ di corda, “dieci” sentirsi pieni di energia.

Oggi il morale È alto:

“Jessica.”

“Dieci. Sono su di giri, È venerdÃŒ.”

“Patrick.”

“Nove. Sono eccitato, un po' nervoso.”

“Nicole.”

“Dieci. Sono serena e felice”

E' una lezione di Scienza del sé al Nueva Learning Center, una scuola ottenuta dalla ristrutturazione di quella che un tempo era la grande villa della famiglia Crocker, la dinastia che fondÃ’ una delle piÙ grandi banche di San Francisco. Ora l'edificio, che assomiglia a una versione in miniatura del Teatro dell'Opera di San Francisco, ospita una scuola privata che offre quello che puÃ’ essere considerato un corso modello di intelligenza emotiva.

Oggetto della Scienza del sé sono i sentimenti: i propri e quelli che scaturiscono dai rapporti con gli altri. L'argomento, per la sua stessa natura, richiede che insegnanti e studenti si concentrino sul tessuto emozionale della vita di un bambino, tema che viene volutamente ignorato in quasi tutte le altre scuole americane. In questo caso, la strategia consiste nell'utilizzare come argomento del giorno le tensioni e i traumi presenti nella vita dei bambini. Gli insegnanti parlano di questioni concrete: del dolore di sentirsi esclusi, dell'invidia, dei contrasti che potrebbero sfociare in una zuffa nel cortile della scuola. Come afferma Karen Stone McCown, che ha elaborato il programma della Scienza del sé ed È direttrice della scuola, “l'apprendimento non avviene a prescindere dai sentimenti dei ragazzi. Ai fini dell'apprendimento, l'alfabetizzazione emozionale È importante come la matematica e la lettura” (1).

La Scienza del sé È una disciplina pionieristica, antesignana di un'idea che sta diffondendosi in ogni scuola da una costa all'altra degli Stati Uniti (nota *). Le denominazioni di questi corsi vanno da “Sviluppo sociale” ad “AbilitÀ di vita”, ad “Apprendimento sociale ed emozionale”. Alcuni, riferendosi alla concezione delle intelligenze multiple di Howard Gardner, usano la definizione “intelligenze personali”. Il filo comune È l'obiettivo di alzare il livello della competenza sociale ed emozionale nei ragazzi come parte della loro istruzione regolare: non si tratta di un insegnamento di recupero per ragazzi poco sicuri, ritenuti “in difficoltÀ”, ma di un insieme di abilitÀ e di comprensioni essenziali per chiunque.

I corsi di alfabetizzazione emozionale hanno radici lontane nel movimento per l'educazione affettiva degli anni Sessanta. All'epoca si pensava che le lezioni psicologiche e motivazionali venissero apprese meglio se comportavano l'esperienza immediata di quanto veniva insegnato concettualmente. Il movimento per l'alfabetizzazione emotiva rovescia perÃ’ completamente il senso della 'educazione affettiva', perché invece di usare l'affettivitÀ per educare, educa la stessa affettivitÀ.

Nell'immediato, molti di questi corsi e l'impulso alla loro diffusione provengono da una serie di programmi scolastici di prevenzione in corso di attuazione, ciascuno dei quali ha di mira un problema specifico dell'adolescenza: il fumo, l'abuso di droghe, le gravidanze precoci, gli abbandoni scolastici e, piÙ recentemente, la violenza. Come abbiamo visto nell'ultimo capitolo, lo studio sui programmi di prevenzione, condotto dal W. T. Grant Foundation, ha rilevato che essi sono assai piÙ efficaci quando insegnano un nucleo di competenze emozionali e sociali fondamentali, come il controllo degli impulsi e della collera, e il trovare soluzioni creative alle situazioni sociali difficili. Da questo principio È scaturita una nuova serie di interventi.

Come si È visto nel capitolo 15, gli interventi volti ad affrontare carenze specifiche di abilitÀ emozionali e sociali, che accentuano problemi come l'aggressivitÀ o la depressione, possono risultare efficacissimi per attenuare le difficoltÀ dei ragazzi. Ma, nel complesso, questi interventi ben programmati sono stati condotti da ricercatori di psicologia a titolo sperimentale. Il passo successivo È di raccogliere le lezioni apprese nel corso di questi programmi cosÌ precisamente mirati e di generalizzarle come misura preventiva per l'intera popolazione scolastica, facendole impartire dagli insegnanti ordinari.

Questo approccio piÙ sofisticato e piÙ efficace alla prevenzione comprende informazioni su problemi come l'Aids, le droghe e simili, trasmesse in momenti della vita dei ragazzi in cui essi cominciano ad affrontarli. Ma il suo tema principale È quella competenza essenziale che viene riversata su ogni specifico problema, ossia l'intelligenza emotiva.

Questo nuovo punto di partenza nell'introdurre l'alfabetizzazione emozionale nelle scuole fa delle emozioni e della vita sociale vere e proprie materie di insegnamento cosicché questi aspetti tanto rilevanti della vita quotidiana dell'alunno non vengono piÙ considerati come intrusioni non pertinenti né - quando danno luogo a episodi incresciosi - come occasionale materia disciplinare di cui si occupano i presidi o i consigli scolastici.

In se stesse le lezioni, a uno sguardo superficiale, possono apparire piatte, inadeguate a offrire una soluzione ai drammatici problemi che affrontano. Ma ciÃ’ accade soprattutto perché, come in una buona educazione familiare, le lezioni impartite sono di basso profilo, ma assai significative e vengono tenute regolarmente e per un lungo periodo di tempo. E' cosÃŒ che l'apprendimento emozionale mette radici e fruttifica: quando le esperienze vengono ripetute di continuo, il cervello le accoglie come percorsi consolidati, come abitudini neurali a cui ricorrere in momenti di costrizione, di frustrazione e di sofferenza. E anche se i contenuti quotidiani delle lezioni di alfabetizzazione emozionale possono apparire banali, il risultato - formare esseri umani dignitosi - È piÙ importante che mai per il nostro futuro.

NOTA * Per ulteriori informazioni sui corsi di alfabetizzazione emozionale, rivolgersi a: The Collaborative for the Advancement of Social and Emotional Learning (Casel), Yale Child Study Center, P.O. Box 207900, 230 South Frontage Road New Haven, CT 06520-7900.

- Una lezione in collaborazione.

Paragonate per un attimo una lezione di Scienza del sé con le vostre esperienze scolastiche.

Un gruppo di alunni di quinta sta per iniziare il gioco dei Quadrati in Collaborazione, nel quale gli studenti si mettono insieme in diversi gruppi per comporre una serie di puzzle di forma quadrata. La difficoltÀ sta nel fatto che ogni gruppo deve operare in silenzio, senza che sia permesso neppure fare dei segni.

L'insegnante, Jo-An Varga, divide la classe in tre gruppi e a ognuno assegna un diverso tavolo. Tre osservatori, scelti fra i ragazzi che conoscono bene il gioco, tengono una tabella per valutare, ad esempio, chi in ogni gruppo dirige l'organizzazione, chi fa il buffone e chi disturba.

Gli scolari mettono sul tavolo le tessere e cominciano a lavorare. Dopo un minuto circa risulta evidente che un gruppo funziona in modo sorprendentemente affiatato e finisce i puzzle in pochi minuti. In un secondo gruppo di quattro alunni, ciascuno È impegnato in sforzi solitari e paralleli e lavora al proprio puzzle, senza ottenere alcun risultato. Lentamente iniziano a lavorare insieme componendo il primo quadrato e continuano a operare congiuntamente finché tutti puzzle sono risolti.

Il terzo gruppo si affatica ancora; un solo puzzle È prossimo a essere completato e anche quello assomiglia piÙ a un trapezio che a un quadrato. Sean, Fairlie e Rahman devono ancora trovare la scioltezza e la coordinazione alla quale sono arrivati gli altri due gruppi. I quattro bambini sono visibilmente frustrati, osservano freneticamente i pezzi sul tavolo, prendono le tessere che gli sembrano giuste e le inseriscono vicino ai quadrati parzialmente costruiti, ma solo per restare delusi dalla mancata coesione.

La tensione si spezza un po' quando Rahman prende due pezzi e li mette davanti agli occhi come una maschera; i compagni si mettono a ridere. Questo si dimostrerÀ un momento cruciale nella lezione di quel giorno.

Jo-An Varga, l'insegnante, li incoraggia: “Quelli di voi che hanno finito possono dare un suggerimento preciso a chi sta ancora lavorando”.

Dagan si avvicina al gruppo ancora attivo, indica due tessere che sporgono dal quadrato e suggerisce: “Dovete girare questi due pezzi”. Subito Rahman, col suo faccione tutto concentrato, intuisce la nuova configurazione e il primo puzzle viene ben presto completato. A esso seguono gli altri. Scoppia un applauso spontaneo mentre l'ultima tessera combacia nell'ultimo puzzle del terzo gruppo.

- Un punto di discussione.

Mentre la classe riflette sulla lezione di collaborazione appena conclusa, avviene uno scambio di opinioni piuttosto acceso. Rahman, alto e con folti capelli neri tagliati a spazzola, discute animatamente con Tucker, l'osservatore del suo gruppo, sulla regola che vieta di fare dei segni. Tucker, con i capelli biondi ben pettinati tranne per un ciuffo ribelle, indossa una larga maglietta azzurra che reca stampato il motto “Sii responsabile”, una scritta che in certo modo sottolinea il suo ruolo ufficiale di osservatore.

“Puoi anche offrire un pezzo, questo non È fare dei segni” dice Tucker a Rahman in tono enfatico e polemico.

“Invece sÃŒ” insiste Rahman con veemenza.

Varga si accorge del tono sempre piÙ acceso della discussione e si porta verso il tavolo. E' un incidente importante, uno scambio spontaneo di emozioni infuocate; È in momenti come questi che le lezioni giÀ imparate si dimostrano efficaci e che nuove lezioni possono essere insegnate con maggior profitto. E, come ogni buon insegnante sa, le lezioni impartite in momenti cosÌ accesi resteranno ben impresse nella memoria degli alunni.

“La mia non È una critica, Tucker, perché tu hai collaborato molto bene, ma cerca di esprimere ciÃ’ che intendi con un tono di voce che non suoni cosÃŒ critico” ammaestra Varga.

Tucker, ora con voce piÙ calma, dice a Rahman: “Puoi mettere un pezzo dove pensi che debba andare, puoi dare a qualcun altro il pezzo che pensi gli possa servire, senza fare cenni. Semplicemente offrendolo”.

Rahman risponde con tono iroso: “Avrei potuto fare semplicemente cosÃŒ” - si gratta la testa per esemplificare un gesto innocente “e lui avrebbe detto: 'Non fare segni!'“.

La rabbia di Rahman va chiaramente al di lÀ dell'oggetto della disputa che È l'interpretazione della regola di non fare segni. I suoi occhi cadono continuamente sulla tabella di valutazione compilata da Tucker e che, sebbene non sia stata ancora menzionata, È la vera causa della tensione insorta tra Tucker e Rahman. Sulla tabella di valutazione Tucker ha registrato il nome di Rahman nello spazio riservato a “Chi disturba?”.

Varga, notando che Rahman osserva il giudizio negativo stilato da Tucker nei suoi confronti sull'apposito modulo, azzarda una supposizione, rivolgendosi a Tucker: “Lui pensa che tu l'abbia definito negativamente come uno che 'disturba'. Che cosa intendevi dire?”.

“Non volevo dire che disturbava in un 'brutto modo'“ risponde Tucker, ora fattosi piÙ conciliante.

Rahman non ci crede, ma anche lui parla con voce piÙ calma: “La tua È una risposta un po' stiracchiata, se proprio vuoi sapere come la penso”.

Varga mette in luce un modo di interpretare positivamente la questione. “Tucker sta tentando di dire che ciÃ’ che puÃ’ essere considerato un comportamento di disturbo, puÃ’ anche significare un modo per alleggerire la tensione in un momento di frustrazione.”

“Ma”, protesta Rahman in maniera piÙ concreta, “Tucker ha scritto che 'disturbavo' per significare che, quando tutti eravamo concentrati, io ho fatto cosÃŒ” e assume un'espressione ridicola e buffonesca, con gli occhi in fuori e le guance gonfie.

Varga cerca di approfondire l'insegnamento emozionale, dicendo a Tucker: “Tu non volevi dire che Rahman disturbava in malo modo. Ma da come ne parli, trasmetti un messaggio diverso. Rahman ha bisogno che tu presti attenzione e accetti le sue impressioni. Rahman diceva che una definizione negativa come 'disturbare' non gli sembra giusta. Non gli piace essere definito in quel modo”.

Poi, rivolta a Rahman, aggiunge: “Apprezzo come hai fatto valere le tue opinioni parlando con Tucker. Non sei aggressivo. Capisco che non È piacevole essere etichettato come uno che 'disturba'. Quando hai messo quei pezzi davanti agli occhi, sembrava che ti sentissi frustrato e volessi alleggerire l'atmosfera. Ma Tucker ha scritto che disturbavi, perché non ha capito la tua intenzione. E' giusto?”.

Entrambi acconsentono, mentre gli altri alunni mettono via i puzzle. Il piccolo melodramma scolastico giunge al finale. “Ti senti meglio?” chiede Varga. “O sei ancora infastidito?”

“SÃŒ, mi sento bene” risponde Rahman, con voce piÙ dolce ora che sente di essere stato ascoltato e compreso. Anche Tucker annuisce, sorridendo. I due ragazzi, notando che tutti gli altri sono giÀ usciti per la lezione successiva, si girano ed escono di corsa insieme.

- Post factum: uno scontro che non È avvenuto.

Mentre un nuovo gruppo si siede, Varga analizza ciÃ’ che È appena accaduto. L'accesa discussione e il suo raffreddarsi sono una dimostrazione di ciÃ’ che i ragazzi stanno imparando sulla risoluzione dei conflitti. Come afferma Varga, ciÃ’ che in genere sfocia in un conflitto inizia con una “mancanza di comunicazione, con il partire da presunzioni e il saltare subito alle conclusioni, inviando un messaggio 'duro' in modi tali che rendono difficile agli altri di ascoltare quello che stai dicendo”.

Gli studenti imparano nella Scienza del sé che il punto non È quello di evitare completamente i conflitti, ma di risolvere i contrasti e di sciogliere il risentimento prima che degenerino in un vero e proprio scontro. Nel modo in cui Tucker e Rahman hanno svolto la discussione si scorgono le tracce delle lezioni precedentemente apprese. Entrambi, ad esempio, hanno compiuto un certo sforzo per esprimere il proprio punto di vista in modo da non accrescere il conflitto. Questa sicurezza di sé (distinta dall'aggressivitÀ o dalla passivitÀ) viene insegnata a Nueva dalla terza classe in avanti. Si sottolinea la necessitÀ di esprimere con franchezza i propri sentimenti, ma in maniera da non degenerare nell'aggressivitÀ. Mentre all'inizio della discussione nessuno dei due ragazzi guardava l'altro, nel prosieguo essi cominciarono a mostrare segni di “ascolto attivo”, ponendosi l'uno di fronte all'altro, guardandosi negli occhi e inviando quei segnali silenziosi che fanno capire a chi parla che lo si sta ascoltando.

Adoperando concretamente questi strumenti con l'aiuto di un istruttore, la “sicurezza di sé” e l'“ascolto attivo” diventano per i bambini qualcosa di piÙ di semplici frasi insignificanti lette in un questionario: diventano modi di reagire ai quali ricorrere nei momenti in cui se ne ha urgente bisogno.

Dominare la sfera emotiva È particolarmente difficile, perché bisogna acquisire le necessarie abilitÀ in momenti nei quali, di solito, si È meno capaci di recepire nuove informazioni e di apprendere nuove abitudini di risposta, cioÈ quando si È alterati. Dare istruzioni in momenti simili È utile. “Chiunque, adulto o bambino delle elementari, ha bisogno di aiuto per poter osservare se stesso quando È alterato” precisa Varga. “Il cuore batte piÙ forte, le mani sudano, sei agitato e stai tentando di ascoltare con attenzione mentre mantieni l'autocontrollo per affrontare la situazione senza gridare, accusare, o ammutolire chiudendosi in una reazione difensiva.”

L'aspetto piÙ notevole, per chiunque conosca bene la condotta rissosa dei ragazzi di quinta elementare, È come sia Tucker sia Rahman cercassero di affermare le proprie opinioni senza ricorrere alle accuse, agli insulti o alle grida. Non hanno lasciato che i propri sentimenti li trascinassero verso insulti sprezzanti o una scazzottata, né hanno isolato l'altro uscendo arrabbiati dalla stanza. Quello che sarebbe potuto essere il germe di uno scontro in piena regola ha invece contribuito ad aumentare la loro capacitÀ di scelta fra le svariate possibilitÀ di risolvere un conflitto. In altre circostanze, tutto sarebbe potuto andare diversamente. Ogni giorno, ragazzi piÙ grandi fanno a pugni, e anche peggio, per molto meno.

- Gli argomenti del giorno.

Nel circolo che di solito apre ogni lezione di Scienza del sé i numeri non sono sempre cosÃŒ alti come lo erano oggi. Quando sono bassi - gli uno, i due o i tre che indicano che ci si sente molto male -, accade che qualcuno chieda: “Vuoi parlare del motivo per cui ti senti in questo modo?”. E, se lo studente vuole parlarne (nessuno È invitato con insistenza a parlare quando non vuole), ciÃ’ consente di portare alla luce il problema e di considerare opzioni creative per affrontarlo.

Le difficoltÀ che emergono variano a seconda dell'etÀ. Nei bambini piÙ piccoli di solito si ha a che fare con le prese in giro, con la sensazione di esclusione e con le paure. In sesta classe affiora un nuovo tipo di preoccupazioni: sentirsi offesi perché un ragazzo o una ragazza non ti hanno chiesto di uscire, oppure perché si viene esclusi; gli amici che si comportano in modo immaturo; le dolorose situazioni in cui si trovano i piÙ giovani (“Certi ragazzi piÙ grandi mi hanno preso di mira”; “I miei amici fumano e cercano sempre di far provare anche me”).

Questi sono temi che hanno una grande importanza nella vita di un bambino che ne parla, ai margini della scuola, durante la pausa del pranzo, sull'autobus o a casa di un amico. Ancor piÙ spesso i ragazzi tengono per sé questi problemi, rimuginandoci ossessivamente sopra da soli durante la notte, senza poterne parlare con nessuno. Nella Scienza del sé possono diventare argomenti del giorno.

Ognuna di queste discussioni fornisce materiale per lo scopo dichiarato della Scienza del sé, che È quello di gettare luce sul senso del proprio io da parte del ragazzo e sui suoi rapporti con gli altri. Anche se il corso si articola secondo un piano di lezioni, È condotto in maniera elastica in modo che, quando accadono episodi come il conflitto tra Rahman e Tucker, si possa farne tesoro. I temi proposti dagli alunni forniscono gli esempi concreti ai quali alunni e insegnanti, allo stesso modo, possono applicare le abilitÀ che stanno imparando, ad esempio i metodi di risoluzione dei conflitti serviti a raffreddare l'accesa disputa tra i due ragazzi.

- L'A.B.C. dell'intelligenza emotiva.

Applicato ormai da quasi vent'anni, il programma della Scienza del sé si pone come modello per l'insegnamento dell'intelligenza emotiva. Talvolta le lezioni sono sorprendentemente sofisticate; come mi ha detto Karen Stone McCown, direttrice di Nueva: “Quando trattiamo il tema della collera aiutiamo i ragazzi a capire come essa sia quasi sempre una reazione secondaria e a cercare cosa c'È sotto: sei offeso? sei geloso? I nostri ragazzi imparano che esistono sempre diverse scelte per reagire a un'emozione e piÙ modalitÀ di risposta conosci, piÙ la tua vita puÃ’ arricchirsi”.

I contenuti della Scienza del sé corrispondono quasi punto per punto ai componenti dell'intelligenza emotiva e alle abilitÀ fondamentali consigliate per la prevenzione dei pericoli che minacciano i giovanissimi (vedi Appendice E per l'elenco completo) (2). I contenuti dell'insegnamento comprendono l'autoconsapevolezza, ossia la capacitÀ di riconoscere i sentimenti e di costruire un vocabolario per la loro verbalizzazione; cogliere i nessi tra pensieri, sentimenti e reazioni; sapere se si sta prendendo una decisione in base a riflessioni o a sentimenti; prevedere le conseguenze di scelte alternative; applicare queste conoscenze a decisioni su temi come le droghe, il fumo o il sesso. L'autoconsapevolezza puÃ’ anche consentire nel riconoscimento della propria forza e delle proprie debolezze e nel sapersi considerare in una luce positiva, ma realistica (evitando cosÃŒ una trappola nella quale cade comunemente il movimento dell'autostima).

Un altro aspetto che viene sottolineato È come controllare le emozioni: capire che cosa sta dietro un sentimento (per esempio l'offesa che scatena la collera) e imparare come trattare l'ansia, la collera e la tristezza. Si dÀ anche molto rilievo all'assunzione di responsabilitÀ relativamente a decisioni e azioni e al mantenimento degli impegni assunti.

Un'abilitÀ sociale fondamentale È l'empatia, ossia il comprendere i sentimenti altrui e la capacitÀ di assumere il loro punto di vista, rispettando i diversi modi in cui le persone considerano una situazione. Un'attenzione particolare viene dedicata ai rapporti interpersonali. La trattazione di questo tema comprende: imparare a saper ascoltare e a porre domande; distinguere tra ciÃ’ che qualcuno dice o fa e le proprie reazioni o i propri giudizi; essere sicuri di sé, invece di arrabbiarsi o restare passivi; imparare l'arte di collaborare, di risolvere i conflitti e negoziare i compromessi.

Nella Scienza del sé non vengono dati voti; la vita stessa È l'esame finale. Ma alla fine dell'ottava classe, quando gli studenti stanno per lasciare Nueva per andare alle superiori, ognuno di loro affronta un'interrogazione socratica, un esame orale nella Scienza del sé. Ecco una domanda tratta da un recente esame finale: “Descrivi il modo appropriato di aiutare un amico a risolvere un conflitto o con qualcuno che fa pressione su di lui perché provi a drogarsi o con un amico che si diverte a schernirlo”. Oppure: “Quali sono alcune maniere salutari di affrontare la tensione, la collera e la paura?”.

Se fosse vivo, Aristotele - cosÌ attento al tema della capacitÀ di padroneggiare le emozioni - approverebbe.

- L'alfabetizzazione emozionale nei quartieri degradati delle grandi cittÀ.

E' comprensibile che gli scettici si chiedano se un corso sulla Scienza del sé possa funzionare in un ambiente sociale non privilegiato, oppure se sia fattibile soltanto in una piccola scuola privata come Nueva, dove ogni ragazzo È per certi aspetti ben dotato. In breve, si puÃ’ insegnare la competenza emozionale dove ce n'È piÙ urgentemente bisogno, nel caos di una scuola pubblica dei quartieri piÙ degradati di una cittÀ? Per rispondere a questa domanda, si puÃ’ far visita all'Augusta Lewis Troup Middle School di New Haven, lontana dal Nueva Learning Center non solo geograficamente, ma anche socialmente ed economicamente.

A dire la veritÀ, a Troup si vive in un'atmosfera stimolante per quanto riguarda l'insegnamento: la scuola È anche conosciuta come la Troup Magnet Academy of Science ed È una delle due scuole locali che hanno lo scopo di raccogliere da tutta New Haven gli studenti dalla quinta all'ottava classe per arricchire la loro preparazione scientifica. Gli studenti di questa scuola possono porre domande sulla fisica dello spazio extraterrestre collegandosi attraverso un'antenna satellitare con gli astronauti a Houston oppure possono programmare i propri computer per suonare brani musicali. Ma nonostante queste attrattive didattiche, come in molte altre cittÀ, la fuga della popolazione bianca verso la periferia residenziale di New Haven e verso le scuole private ha fatto sÌ che il 95 per cento degli iscritti a Troup siano neri o ispanici.

A pochi isolati di distanza dal campus dell'UniversitÀ di Yale - anche questo un universo assai lontano -, Troup si trova in un'area operaia in decadenza, che negli anni Cinquanta annoverava ventimila dipendenti delle industrie vicine, dalla Olin Brass Mills alla Winchester Arms. Oggi questa base operaia si È ristretta sotto le tremila unitÀ, e con essa si sono ristretti gli orizzonti economici delle famiglie che vivono nella zona. New Haven, come molti altri centri industriali del New England, È sprofondata in un pozzo di povertÀ, droga e violenza.

Fu in risposta alle necessitÀ impellenti di questo incubo metropolitano che negli anni Ottanta un gruppo di psicologi e di educatori di Yale ha elaborato il Social Competence Program (Programma di Competenza Sociale), un insieme di corsi che copre all'incirca lo stesso ambito del programma di Scienza del sé del Nueva Learning Center. Ma a Troup la connessione con gli argomenti da trattare È spesso piÙ diretta e cruda. Non È un puro esercizio accademico quando, in ottava classe, nella lezione di educazione sessuale, gli studenti imparano a prendere personalmente le decisioni che possano aiutarli a evitare malattie come l'Aids. A New Haven c'È la piÙ alta percentuale di donne malate di Aids di tutti gli Stati Uniti; un certo numero di madri che mandano i loro figli a Troup hanno contratto la malattia e cosÃŒ pure alcuni studenti della scuola. Nonostante il curriculum didattico arricchito, gli studenti di questa scuola devono combattere con tutti i problemi tipici dei quartieri degradati; molti ragazzi hanno situazioni familiari cosÃŒ confuse, per non dire orribili, che qualche volta non riescono neppure a recarsi a scuola.

Come in tutte le scuole di New Haven, il segnale piÙ vistoso che accoglie il visitatore ha la forma familiare di un segnale stradale giallo a forma di rombo nel quale c'È scritto: “Area libera dalla droga”. Alla porta ci accoglie Mary Ellen Collins, funzionario scolastico che si occupa di molti aspetti gestionali e che affronta i problemi particolari che si presentano di volta in volta nella vita dell'istituto; nel suo ruolo È compreso anche quello di aiutare gli insegnanti in relazione alle necessitÀ del programma di competenza sociale. Se un insegnante non sa come presentare una lezione, la Collins si recherÀ in classe per mostrargli come deve fare.

“Ho insegnato in questa scuola per vent'anni” dice la Collins, salutandomi. “Guardi questo quartiere: con tutti i problemi che questi ragazzi devono affrontare per vivere non riesco piÙ a vedere me stessa nel ruolo di semplice insegnante che tratta le consuete materie scolastiche. Prenda i ragazzi che versano in gravi difficoltÀ perché loro stessi o un familiare hanno l'Aids: non sono certa che lo ammetterebbero durante la discussione sull'Aids, ma una volta che un ragazzo sa che un insegnante È disposto ad ascoltare anche problemi emotivi e non solo scolastici, la strada È aperta perché si possa avere una conversazione sull'argomento.”

Al terzo piano della vecchia scuola di mattoni, Joyce Andrews sta tenendo agli alunni di quinta una lezione di competenza sociale, materia che viene insegnata tre volte la settimana. La Andrews, come tutti gli altri insegnanti di quinta, ha seguito un corso estivo speciale sulla didattica della materia, ma la sua esuberanza indica che i temi della competenza sociale le sono congeniali.

La lezione odierna verte sull'identificazione dei sentimenti; essere in grado di denominarli e pertanto di distinguerli meglio È un'abilitÀ emozionale essenziale. Il compito assegnato il giorno prima era di portare fotografie tratte da una rivista ritraenti il volto di qualcuno, di dare un nome all'emozione che compare su quel volto e di spiegare come si puÒ arguire che quella persona prova quel sentimento. Dopo aver raccolto i compiti, la Andrews scrive alla lavagna l'elenco dei sentimenti - tristezza, preoccupazione, eccitazione, felicitÀ e cosÌ via - e dÀ il via a un rapidissimo scambio di battute con i diciotto alunni che quel giorno sono riusciti a venire a scuola. Seduti a gruppi di quattro, i ragazzi alzano la mano freneticamente, sforzandosi di attirare l'attenzione dell'insegnante per poter cosÌ dare la loro risposta.

Mentre aggiunge il termine “frustrato” all'elenco sulla lavagna, la Andrews chiede: “Quanti di voi si sono sentiti frustrati qualche volta?”. Tutti alzano la mano.

“Come vi sentite quando siete frustrati?”

Le risposte arrivano a fiotti: “Stanco”, “Confusa”, “Non riesco a pensare nel modo giusto”, “Ansiosa”.

Aggiungendo all'elenco il termine “esasperato”, Joyce chiede: “Io conosco questa sensazione: quando un'insegnante si sente esasperata?”.

“Quando tutti parlano insieme” suggerisce una ragazza, sorridendo.

Senza pause nel dialogo con gli studenti, la Andrews distribuisce un foglio prestampato. In una colonna sono raffigurati i volti di ragazzi e ragazze, ognuno dei quali esprime una delle sei emozioni fondamentali - felicitÀ, tristezza, collera, sorpresa, timore, disgusto - ed È riportata una descrizione dell'attivitÀ dei muscoli facciali che servono a manifestarle. Per esempio:

Paura:

- La bocca È aperta con gli angoli incurvati verso l'alto.

- Gli occhi sono aperti e gli angoli interni sono verso l'alto.

- Le sopracciglia sono inarcate e si accostano l'una all'altra.

- La fronte È increspata dalle rughe (3).

Mentre leggono il foglio, sui volti dei ragazzi compaiono espressioni di paura, rabbia, sorpresa o disgusto, in quanto cercano di imitare le immagini e di seguire le indicazioni sulla posizione dei muscoli facciali per ogni emozione. La lezione deriva dalla ricerca di Paul Ekman sull'espressivitÀ facciale; come tale È insegnata nella maggioranza dei corsi introduttivi di psicologia di ogni universitÀ e raramente, se non mai, nelle scuole inferiori. Questa lezione elementare su come collegare un nome con un sentimento e il sentimento con l'espressione del viso che gli corrisponde, potrebbe sembrare cosÃŒ ovvia da non esserci affatto bisogno di insegnarla. Tuttavia puÃ’ servire da antidoto a errori sorprendentemente comuni nell'alfabetizzazione emozionale. Si rammenti che i ragazzi aggressivi e prepotenti spesso attaccano gli altri in preda all'ira perché interpretano come ostili messaggi ed espressioni in realtÀ neutrali, e che le ragazze affette da disturbi del comportamento alimentare non sanno distinguere la collera dall'ansia e dalla fame.

- Alfabetizzazione emozionale camuffata.

Con i programmi scolastici giÀ assediati da una proliferazione di nuove materie e impegni, alcuni insegnanti che si sentono sovraccarichi di lavoro si oppongono a sottrarre ore alle materie fondamentali per aggiungere un altro corso. PerciÃ’ una strategia emergente nell'educazione emozionale È quella di non creare una nuova materia, ma di mescolare le lezioni sui sentimenti e i rapporti interpersonali con gli altri argomenti giÀ oggetto d'insegnamento. Le lezioni emozionali possono fondersi naturalmente con materie quali lettura e scrittura, educazione sanitaria, scienze, studi sociali e altre ancora. Anche se nelle scuole di New Haven “AbilitÀ di Vita” È in alcuni anni scolastici una materia separata, in altri anni il programma di sviluppo sociale si mescola a corsi come quello di lettura o di educazione sanitaria. Alcune lezioni vengono tenute persino nelle ore di matematica, in particolare quelle che concernono le abilitÀ di studio fondamentali come evitare le distrazioni, motivarsi allo studio e controllare gli impulsi per potersi dedicare all'apprendimento.

Alcuni programmi sulle abilitÀ emozionali e sociali non contemplano affatto un insegnamento separato, ma piuttosto inseriscono le proprie lezioni nel tessuto stesso della vita scolastica. Un modello di questa impostazione - in sostanza un corso invisibile di competenza emozionale e sociale - È il Child Development Project (Progetto di Sviluppo del Bambino), creato da un gruppo diretto dallo psicologo Eric Schaps. Il progetto, con base a Oakland in California, viene attualmente sperimentato in un certo numero di scuole di tutto il paese, la maggior parte delle quali si trovano in quartieri che presentano gli stessi problemi delle aree soggette a degrado di New Haven (4).

Il progetto offre contenuti preordinati che si adattano alle materie esistenti. In prima, ad esempio, i bambini, durante la lezione di lettura si cimentano con un racconto, “La Rana e il Rospo sono amici”, nel quale la Rana, desiderosa di giocare col suo amico Rospo che È in letargo, gli fa uno scherzo per svegliarlo prima del tempo. Il racconto È usato come base per una discussione sull'amicizia e su argomenti quali le reazioni di chi È oggetto di uno scherzo. Il seguito delle avventure della Rana e del Rospo solleva temi quali l'autocoscienza, la consapevolezza dei bisogni di un amico, come ci si sente a essere presi in giro e la condivisione con gli amici dei propri sentimenti. Il programma prevede racconti sempre piÙ sofisticati, adatti alle varie classi delle elementari e delle medie, che offrono agli insegnanti lo spunto per discutere argomenti quali l'empatia, l'assunzione del punto di vista altrui e il prendersi cura degli altri.

Un altro modo in cui le lezioni emozionali sono intrecciate con il tessuto esistente della vita scolastica È quello di aiutare gli insegnanti a ripensare il modo di disciplinare gli studenti che si comportano male. Il presupposto del programma di Sviluppo del Bambino È che momenti simili offrano opportunitÀ allettanti per insegnare ai ragazzi le abilitÀ di cui sono privi - il controllo degli impulsi, il saper spiegare i propri sentimenti e risolvere i conflitti - e che ci sono modi migliori della coercizione per imporre la disciplina. Un insegnante che vede tre bambini di prima elementare spintonarsi l'un l'altro per entrare primi nella sala da pranzo potrebbe suggerire che ognuno di loro indovini un numero e far entrare per primo chi ci riesce. La lezione immediata È che ci sono modi corretti e imparziali di comporre dispute cosÃŒ insignificanti, mentre l'insegnamento piÙ profondo È che le dispute possono comunque essere negoziate. E poiché si tratta di un'impostazione che i ragazzi possono apprendere per comporre altre contese simili (“Prima io!” È, alla fin fine, una pretesa diffusissima tra i bambini e, in una forma o nell'altra, anche tra gli adulti), essa reca con sé un messaggio piÙ positivo dell'onnipresente e autoritario: “Smettila!”.

- Il calendario emozionale.

“Le mie amiche Alice e Lynn non giocheranno con me.”

Questo lamento struggente viene da una bambina di terza della scuola elementare John Muir di Seattle. E' espresso in un biglietto anonimo imbucato in una “cassetta delle lettere” posta in classe - in pratica una scatola di cartone colorata - nella quale gli alunni sono invitati a depositare per iscritto le loro lamentele e le segnalazioni dei propri problemi, in maniera che l'intera classe possa discuterne e pensare ai modi di affrontarli. Nella discussione non saranno fatti i nomi degli interessati; al contrario l'insegnante sottolineerÀ che tutti i bambini condividono simili problemi prima o poi e che tutti hanno bisogno di imparare ad affrontarli. Mentre parlano di come ci si sente a essere esclusi o di che cosa si possa fare per essere accettati, i bambini hanno la possibilitÀ di elaborare nuove soluzioni per questi disagi: ciÃ’ rappresenta un correttivo all'idea fissa che il conflitto sia la sola strada per risolvere i contrasti.

La cassetta delle lettere È un modo che consente di tematizzare di volta in volta le crisi e le questioni di attualitÀ nella classe, visto che un programma troppo rigido puÒ risultare inadeguato alla fluida realtÀ dell'infanzia. Con la crescita e il mutamento dei bambini, le preoccupazioni del momento cambiano di conseguenza. Per risultare piÙ efficaci, gli insegnamenti emozionali devono essere legati allo sviluppo del bambino e vanno ripetuti in diverse etÀ in modi adatti alle mutevoli capacitÀ di comprensione del ragazzo e alle nuove sfide che deve affrontare.

Un problema È quello di stabilire quando si debba cominciare. Alcuni sostengono che non È mai troppo presto e che si deve iniziare fin dai primi anni di vita. Il pediatra di Harvard T. Berry Brazelton pensa che molti genitori potrebbero essere addestrati come “iniziatori” emozionali dei loro bambini piccoli e alcuni programmi, realizzati con visite a domicilio, prevedono effettivamente questo ruolo. Si puÃ’ sostenere con forza la necessitÀ di sottolineare piÙ sistematicamente il tema delle abilitÀ sociali ed emozionali in programmi prescolari come l'Head Start; come abbiamo visto nel capitolo 12, la prontezza d'apprendimento dei bambini dipende in larga misura dall'acquisizione di alcune abilitÀ emozionali essenziali. Gli anni prescolari sono di importanza cruciale per costruire le abilitÀ fondamentali e ci sono prove che l'Head Start, se ben gestito (avvertenza importante), possa produrre effetti benefici a lungo termine, emozionali e sociali, nella vita di chi lo ha seguito, effetti che possono protrarsi fino ai primi anni dell'etÀ adulta: meno problemi con la droga, meno arresti, matrimoni migliori, maggiori capacitÀ di guadagno (5).

Interventi simili funzionano nel migliore dei modi quando seguono il calendario emozionale dello sviluppo (6). Come attesta il vagito dei neonati, i bambini provano sentimenti intensi sin dalla nascita. Ma il cervello di un neonato È ben lontano dalla piena maturazione; come vedemmo nel capitolo 15, le emozioni dell'adolescente maturano complessivamente solo quando il sistema nervoso raggiunge il suo sviluppo finale - un processo che procede scandito da un orologio biologico innato durante tutta l'infanzia e nella prima adolescenza. Il repertorio di sentimenti del neonato È primitivo in confronto alla varietÀ emozionale di un bambino di cinque anni, il quale, a sua volta, È carente rispetto a un adolescente. Infatti, gli adulti troppo spesso cadono nella trappola di aspettarsi che i bambini abbiano raggiunto una maturitÀ che va ben oltre la loro etÀ, dimenticando che ogni emozione fa la sua comparsa in un momento giÀ programmato in anticipo. Le sbruffonate di un bambino di quattro anni possono ad esempio suscitare i rimproveri del genitore, ma occorre ricordare che l'autoconsapevolezza necessaria all'umiltÀ in genere non affiora fino ai cinque anni.

Il calendario della crescita emozionale È intrecciato e collegato ad altre linee di sviluppo, in particolare per quanto riguarda i processi cognitivi da un lato e la maturazione biologica e cerebrale dall'altro. Come abbiamo visto, capacitÀ emozionali quali l'empatia e l'autoregolazione emozionale cominciano a costruirsi dall'infanzia. L'anno di scuola materna precedente all'ingresso nella scuola dell'obbligo segna un culmine nella maturazione delle “emozioni sociali” - sentimenti come l'insicurezza e l'umiltÀ, la gelosia e l'invidia, l'orgoglio e la fiducia -, le quali richiedono tutte la capacitÀ di paragonare se stessi con gli altri. Il bambino di cinque anni, entrando nel piÙ vasto mondo sociale della scuola, entra anche nel mondo della comparazione sociale. Non È solo il mutamento esterno che suscita i paragoni, ma anche l'emergere di un'abilitÀ cognitiva: la capacitÀ di confrontarsi agli altri in merito a qualitÀ particolari come la simpatia, l'attrattiva o i talenti sportivi. E' questa l'etÀ in cui, per esempio, avere una sorella maggiore che prende sempre buoni voti puÃ’ indurre la sorella minore a pensare di essere piÙ “stupida”.

Il dottor David Hamburg, psichiatra e presidente della Carnegie Corporation, che ha valutato alcuni programmi avanzati di educazione emozionale, considera i momenti di transizione della scuola materna alla scuola elementare e poi di nuovo dalle elementari alla media come momenti cruciali nel processo adattativo del ragazzo (7). Dai sei agli undici anni, dice Hamburg, “la scuola È un crogiolo e un'esperienza definitoria che influenzerÀ pesantemente l'adolescenza del ragazzo e anche gli anni successivi. In un bambino il senso del proprio valore dipende sostanzialmente dal rendimento scolastico. Un ragazzo che fallisce a scuola, comincia ad assumere quegli atteggiamenti controproducenti che possono oscurare le prospettive di tutta la sua vita”. Fra le doti essenziali per avere un buon profitto a scuola, nota Hamburg, vi È la capacitÀ di “rimandare la gratificazione, di essere socialmente responsabile nei modi opportuni, di mantenere il controllo sulle emozioni e di avere una visione ottimistica”, in altre parole l'intelligenza emotiva (8).

La pubertÀ, essendo un'epoca di cambiamenti straordinari nella biologia, nelle capacitÀ riflessive e nel funzionamento cerebrale del bambino, È anche un'etÀ cruciale per impartire lezioni emozionali e sociali. Per quanto riguarda l'adolescenza, Hamburg osserva che “la maggior parte degli adolescenti ha dai dieci ai quindici anni quando si trova esposta per la prima volta alla sessualitÀ, all'alcol, alle droghe, al fumo” e ad altre tentazioni (9).

La transizione alla scuola media segna la fine dell'infanzia ed È essa stessa una formidabile sfida emozionale. A parte ogni altro problema, quando entrano nel nuovo contesto scolastico, quasi tutti gli studenti hanno un calo di fiducia in se stessi e un aumento di autoconsapevolezza; la loro immagine di sé diventa instabile e si trasforma tumultuosamente. Uno dei colpi piÙ duri È quello portato all'“autostima sociale”, cioÈ alla fiducia di poter stringere e mantenere le amicizie. In questo momento cruciale, sottolinea Hamburg, È immensamente utile rafforzare le capacitÀ dei giovanissimi di costruire rapporti intimi, di superare le crisi nelle amicizie e di alimentare la propria fiducia in se stessi.

Hamburg nota che quando gli studenti entrano nella scuola media, proprio al culmine dell'adolescenza, quelli che hanno seguito corsi di alfabetizzazione emozionale sono diversi dagli altri: sono meno turbati dalle pressioni provenienti dai nuovi compagni, dall'innalzamento delle difficoltÀ scolastiche e dalla tentazione di fumare e far uso di droghe. Hanno appreso abilitÀ emozionali che, almeno a breve termine, li “vaccinano” contro la confusione e le pressioni che devono fronteggiare.

- La scelta di tempo È essenziale.

Avendo tracciato una mappa dello sviluppo delle emozioni, psicologi evolutivi e altri ricercatori, sono in grado di essere piÙ precisi sul tipo di insegnamenti che i ragazzi dovrebbero ricevere in ogni momento dello sviluppo della intelligenza emotiva e sulle carenze che permarranno piÙ a lungo in coloro che non acquisiscono le competenze giuste al momento opportuno, nonché sulle esperienze di recupero che potrebbero integrare ciÃ’ che È mancato.

Nel programma di New Haven, per esempio, i bambini piÙ piccoli ricevono lezioni basilari di autoconsapevolezza, di rapporti interpersonali e di capacitÀ di prendere decisioni. In prima classe gli scolari siedono in cerchio e fanno girare il “cubo dei sentimenti”, che reca sulle sue facce parole come “triste” o “eccitato”. I bambini descrivono un momento in cui hanno provato quei sentimenti: questo esercizio dÀ loro piÙ sicurezza nel collegare i sentimenti alle parole e suscita empatia quando i bambini avvertono che gli altri hanno provato i loro stessi sentimenti.

In quarta e quinta, allorché i rapporti tra coetanei assumono un'immensa importanza nella loro vita, essi ricevono lezioni che contribuiscono al miglior andamento delle loro amicizie: lezioni di empatia, di controllo degli impulsi e di dominio della collera. La lezione di “AbilitÀ di vita” sulla lettura delle emozioni dalle espressioni del volto, seguite dai ragazzi di quinta della scuola Troup, È, ad esempio, essenzialmente una lezione sull'empatia. Per apprendere il controllo degli impulsi c'È un metodo definito “stop luminoso”, illustrato in un poster in bella mostra che contiene sei diverse opzioni.

luce rossa: 1. Fermati, calmati e pensa prima di agire.

luce gialla: 2. Esponi il problema e dÌ come ti senti; 3. Fissa uno scopo positivo; 4. Pensa a soluzioni diverse; 5. Pensa in anticipo alle conseguenze.

luce verde: 6. Procedi e prova il piano migliore.

Allo “stop luminoso” si ricorre di regola ogni volta che un ragazzo È sul punto di aggredire qualcuno in preda alla collera, di rinchiudersi imbronciato in se stesso per qualche offesa o di scoppiare in lacrime per essere stato preso in giro; esso offre una serie concreta di passi da eseguire per affrontare in maniera piÙ razionale momenti cosÃŒ carichi di tensione. Oltre al controllo dei sentimenti, indica una via per agire in maniera piÙ efficace. Come modo abituale di dominare gli impulsi emozionali incontrollati - di pensare, prima di agire in base ai sentimenti - puÃ’ evolversi in una strategia fondamentale per affrontare i rischi dell'adolescenza e oltre.

In sesta classe le lezioni si riferiscono piÙ direttamente alle tentazioni e alle pressioni per il sesso, le droghe o il bere, che iniziano allora a entrare nella vita dei ragazzi. In nona classe, mentre gli adolescenti si confrontano con realtÀ sociali piÙ ambigue, viene sottolineata la capacitÀ di assumere prospettive multiple (la tua, insieme a quelle degli altri coinvolti nella stessa situazione). “Se un ragazzo È furibondo perché ha visto la sua ragazza parlare con un altro,” dice uno degli insegnanti di New Haven “verrÀ esortato a considerare le cose anche dal loro punto di vista, invece di scendere subito sul terreno dello scontro.”

- L'alfabetizzazione emozionale come prevenzione.

Alcuni tra i piÙ efficaci programmi di alfabetizzazione emozionale sono stati sviluppati in risposta a un problema specifico, e cioÈ quello della violenza. Uno dei corsi di alfabetizzazione emozionale a scopo preventivo, che sta sviluppandosi rapidamente in parecchie centinaia di scuole pubbliche di New York e in altre scuole di tutto il paese, È il Resolving Conflict Creatively Program (Programma di Risoluzione Creativa dei Conflitti). Esso si concentra sul modo di appianare i contrasti che sorgono nell'ambiente scolastico e possono sfociare in incidenti come quello occorso nell'atrio della Jefferson High School, dove Ian Moore e Tyrone Sinkler furono uccisi a colpi d'arma da fuoco da un compagno di classe.

Linda Lantieri, creatrice del Programma e direttrice del centro nazionale per la sua impostazione, con sede a Manhattan, lo considera utile per scopi che trascendono la semplice prevenzione degli scontri tra gli studenti. Ella dichiara: “Il programma mostra agli studenti che oltre alla passivitÀ e all'aggressivitÀ esistono molte alternative per affrontare i conflitti. Mostriamo loro l'inutilitÀ della violenza e la sostituiamo con abilitÀ concrete. I ragazzi imparano a difendere i propri diritti senza ricorrere alla violenza. Queste sono abilitÀ che restano per tutta la vita e non servono soltanto ai soggetti piÙ inclini alla violenza” (10).

In un esercizio i ragazzi cercano di escogitare un singolo atto - non importa quanto piccolo, purché realistico - che sarebbe stato utile per risolvere un loro conflitto. In un altro esercizio gli studenti rappresentano una scena nella quale una sorella piÙ grande che sta facendo i compiti a casa non ne puÃ’ piÙ di ascoltare la cassetta di musica rap che la sorella minore sta ascoltando a volume alto. Frustrata, la piÙ grande spegne il registratore nonostante le proteste della piÙ piccola. La classe escogita modi di risolvere il problema che siano soddisfacenti per entrambe le sorelle.

Una chiave per il successo del programma di risoluzione dei conflitti sta nel riuscire a estenderlo oltre l'aula scolastica, al cortile e al bar della scuola, dove È piÙ probabile che esplodano le liti. A tal fine, alcuni studenti sono addestrati a fare da mediatori, un ruolo che si puÒ cominciare a praticare dagli ultimi anni delle elementari. Quando la tensione esplode, gli studenti possono cercare un mediatore che li aiuti a comporre il litigio. I mediatori della scuola imparano a risolvere le liti, ad affrontare situazioni in cui un ragazzo viene deriso o minacciato, ad appianare gli incidenti interrazziali e gli altri scontri potenzialmente esplosivi della vita scolastica.

I mediatori imparano a esprimersi in maniera tale da essere percepiti come imparziali. Una delle loro tattiche consiste nel sedersi a un tavolo con gli interessati e nell'indurli ad ascoltare l'interlocutore senza interruzioni o insulti. Fanno in modo che ognuno si calmi e dichiari le proprie ragioni. Poi chiedono a entrambi di ripetere ciÒ che È stato detto dall'altro in maniera che sia chiaro che hanno capito effettivamente. Poi, tutti insieme, cercano di pensare a soluzioni accettabili da ambo le parti; la composizione del litigio assume spesso la forma di un patto scritto firmato dagli interessati.

Oltre alla mediazione nelle contese, il programma insegna agli studenti a pensare ai contrasti in maniera diversa fin dal principio. Come afferma Angel Perez, addestrato a fare il mediatore nelle elementari, il programma “cambiÃ’ la mia mentalitÀ. Prima pensavo: se qualcuno se la prende con me, se qualcuno mi fa qualcosa, la sola risposta È combattere, reagire negli stessi termini. Da quando ho seguito questo programma, ho acquisito un modo di pensare piÙ positivo. Se mi fanno qualcosa di male, non cerco di restituirla, ma di risolvere il problema”. Angel Perez ha diffuso questo modo di vedere nella sua comunitÀ.

Anche se il Programma di Risoluzione Creativa dei Conflitti È focalizzato sulla prevenzione della violenza, la Lantieri gli attribuisce una funzione piÙ ampia. La sua opinione È che le abilitÀ necessarie a evitare la violenza non possano essere separate dallo spettro completo della competenza emozionale e che, ad esempio, ai fini della prevenzione della violenza, il saper riconoscere i propri sentimenti e controllare gli impulsi o il dolore È importante come il saper reprimere la collera. Gran parte dell'addestramento ha a che fare con i tratti fondamentali dell'intelligenza emotiva: riconoscere e ampliare la gamma dei sentimenti, avere la capacitÀ di denominarli ed empatizzare. Quando Lantieri descrive i risultati della valutazione degli effetti del suo programma, sottolinea con la medesima soddisfazione sia un maggior “volersi bene tra i ragazzi”, sia il calo degli scontri fisici, delle umiliazioni e degli insulti.

Una simile convergenza sull'alfabetizzazione emozionale si È verificata con un gruppo di psicologi impegnati ad aiutare i giovani avviati su una strada che li avrebbe condotti a una vita di crimini e di violenza. Decine di studi su ragazzi di questo genere, come abbiamo visto nel capitolo 15, hanno delineato con chiarezza il percorso imboccato dalla maggior parte di loro, che comincia con l'impulsivitÀ e la facilitÀ all'ira nei primi anni di scuola, passa attraverso l'emarginazione sociale alla fine delle elementari e termina con i legami intrecciati con altri ragazzi simili a loro e con l'avviarsi a una serie crescente di reati negli anni della scuola media. Nei primi anni dell'etÀ adulta, questi giovani sono per lo piÙ giÀ schedati dalla polizia e pronti a commettere crimini violenti.

Quando si giunse a progettare interventi che potessero aiutare questi ragazzi a uscire dalla strada della violenza e del crimine, il risultato fu, ancora una volta, un programma di alfabetizzazione emozionale (11). Uno di questi programmi, sviluppato da un gruppo che comprende Mark Greenberg dell'UniversitÀ di Washington, È il Paths (Paths È l'acronimo di Parents and Teachers Helping Students, “Genitori e insegnanti aiutano gli studenti”). Anche se i ragazzi a rischio di scivolare nel crimine e nella violenza hanno maggiore necessitÀ di queste lezioni, il corso viene impartito a tutta la classe, per evitare di isolare con un'etichetta negativa un gruppo di studenti con maggiori difficoltÀ.

D'altronde le lezioni sono effettivamente utili per tutti. Esse comprendono, ad esempio, l'imparare sin dai primi anni di scuola a controllare gli impulsi; quando manca tale capacitÀ, i ragazzi hanno particolari difficoltÀ nel prestare attenzione a ciÒ che viene insegnato e pertanto il loro apprendimento e i loro voti peggiorano. Un altro aspetto del programma È saper riconoscere i sentimenti; il Paths prevede cinquanta lezioni su diverse emozioni. Ai bambini vengono insegnate le emozioni fondamentali, come la felicitÀ e la collera, e in seguito si affrontano sentimenti piÙ complessi come la gelosia, l'orgoglio e la colpa. Le lezioni di consapevolezza emozionale comprendono l'osservazione dei sentimenti propri e altrui e - fatto piÙ importante per i ragazzi aggressivi - il saper riconoscere quando qualcuno ha davvero un comportamento ostile e quando al contrario gli si attribuisce un'ostilitÀ inesistente.

Una delle lezioni piÙ importanti, ovviamente, È quella sul controllo della collera. La premessa fondamentale che i giovani apprendono sulla collera (e anche su tutte le altre emozioni) È che “tutti i sentimenti sono positivi”, ma che alcune reazioni sono buone e altre non lo sono. In questo programma uno degli strumenti per insegnare l'autocontrollo È lo stesso esercizio con lo “stop luminoso” in uso nel corso di New Haven. Altre lezioni riguardano le amicizie, che per alcuni ragazzi sono un modo per controbilanciare l'emarginazione sociale, ma che possono spingerli verso la delinquenza.

- Ripensare le scuole: insegnare dando l'esempio. ComunitÀ che si prendono cura dei ragazzi.

Poiché a moltissimi giovani il contesto familiare non offre piÙ un punto d'appoggio sicuro nella vita, le scuole restano il solo istituto al quale la comunitÀ puÃ’ rivolgersi per correggere le carenze di competenza emozionale e sociale dei ragazzi. Questo non significa che esse da sole possano sostituire istituzioni sociali troppo spesso prossime al collasso. Ma poiché quasi tutti i bambini vanno a scuola, almeno all'inizio, la scuola È un luogo che permette di raggiungere ognuno di essi e di fornirgli lezioni fondamentali per la vita che, altrimenti, non potrebbe mai ricevere. L'alfabetizzazione emozionale comporta che il ruolo sociale delle scuole si estenda e vada a compensare le deficienze familiari nella socializzazione dei ragazzi. Questo compito scoraggiante richiede due mutamenti importanti: gli insegnanti devono oltrepassare i limiti della propria missione tradizionale e la comunitÀ dev'essere piÙ coinvolta nella vita della scuola.

Che ci sia o meno un corso esplicitamente dedicato all'alfabetizzazione emozionale puÒ essere molto meno importante del modo in cui queste lezioni vengono insegnate. Non c'È forse materia come questa nella quale la qualitÀ degli insegnanti conti cosÌ tanto; il modo in cui un insegnante gestisce la classe È infatti in se stesso un modello, una lezione di fatto, di competenza emozionale o della sua mancanza. Ogni atteggiamento di un insegnante nei confronti di un allievo È una lezione rivolta ad altri venti o trenta studenti.

Il tipo di insegnanti attratto da questi corsi È tale che si determina naturalmente una selezione tra i docenti, perché non tutti per il loro carattere sono portati a insegnarli. Tanto per cominciare, i docenti hanno bisogno di sentirsi a proprio agio nel parlare dei propri sentimenti; non tutti lo sono né vogliono esserlo. Poco o nulla nella formazione consueta degli insegnanti li prepara a questo genere di insegnamento. Per queste ragioni, i programmi di alfabetizzazione emozionale in genere prevedono per i futuri docenti parecchie settimane di addestramento speciale su come impostare le lezioni.

Anche se all'inizio molti insegnanti possono mostrarsi riluttanti ad affrontare un argomento che pare cosÌ estraneo alla loro formazione e alle loro abitudini, È provato che, una volta disponibili, resteranno per lo piÙ soddisfatti. Nelle scuole di New Haven, quando gli insegnanti seppero per la prima volta che sarebbero stati preparati per tenere i nuovi corsi di alfabetizzazione emozionale, il 31 per cento rispose di essere riluttante. Dopo un anno di insegnamento, piÙ del 90 per cento affermÒ di essere soddisfatto e di voler ripetere l'esperienza anche l'anno successivo.

- Una missione piÙ vasta per le scuole.

Oltre alla formazione dei docenti, l'alfabetizzazione emozionale amplia la nostra visione del compito delle scuole, conferendo a esse piÙ esplicitamente un ruolo sociale nell'impartire ai ragazzi lezioni essenziali per la vita; È questo un ritorno al ruolo classico dell'educazione. Questo obiettivo piÙ ampio richiede, a prescindere da ogni specifica curricolare, che si sfruttino le opportunitÀ fuori e dentro la classe per aiutare i giovani a trasformare momenti di crisi personale in lezioni di competenza emozionale. Il programma funziona anche meglio quando le lezioni a scuola sono coordinate con quello che avviene a casa. Molti programmi di alfabetizzazione emozionale comprendono corsi speciali per i genitori, per insegnare loro ciÒ che i figli stanno imparando a scuola. Lo scopo non È soltanto quello di consentire ai genitori di integrare ciÒ che viene impartito a scuola, ma anche quello di aiutare quei genitori che sentono il bisogno di rapportarsi in maniera piÙ efficace con la vita emotiva dei figli.

In tal modo i ragazzi ricevono messaggi coerenti di competenza emozionale in ogni ambito della loro vita. Nelle scuole di New Haven, afferma Tim Shriver, direttore del Programma di Competenza Sociale: “Se i ragazzi attaccano briga al bar, vengono mandati da un mediatore loro coetaneo, che si siede con loro e li invita a discutere del conflitto con la stessa tecnica di assunzione del punto di vista altrui che hanno imparato in classe. Gli istruttori sportivi utilizzeranno la stessa tecnica per dirimere i conflitti sui campi di gioco. Abbiamo impartito corsi ai genitori perché usino questi metodi con i ragazzi a casa”.

Queste linee parallele di rafforzamento delle lezioni emozionali - non solo in classe, ma anche sul campo di gioco; non solo a scuola, ma anche a casa - danno risultati ottimali. Si crea cosÌ un intreccio piÙ saldo tra la scuola, i genitori e la comunitÀ. Si aumenta la probabilitÀ che ciÒ che i ragazzi imparano nei corsi di alfabetizzazione emozionale non rimanga una semplice esperienza scolastica, ma venga messo alla prova, praticato e affinato nelle sfide reali della vita.

Un altro modo in cui l'introduzione di questo tema riforma le scuole È nella costruzione di una cultura scolastica che trasformi l'istituto in una “comunitÀ di assistenza”, un luogo in cui gli studenti si sentono rispettati, seguiti curati e legati ai compagni, agli insegnanti e alla scuola stessa (12). Per esempio, le scuole che sorgono in aree come New Haven, nelle quali c'È un alto tasso di disintegrazione familiare, cercano di reclutare nella comunitÀ volontari che si impegnino a lavorare con quegli studenti la cui vita familiare È, nel migliore dei casi, instabile. Nelle scuole di New Haven, adulti responsabili si offrono volontariamente come maestri e compagni di studenti in gravi difficoltÀ, che a casa non hanno adulti in grado di prendersi stabilmente cura di loro.

In breve il profilo ottimale dei programmi di alfabetizzazione emozionale È di iniziare presto, di essere adeguati all'etÀ, di essere svolti in ogni anno scolastico e di coordinare gli sforzi a scuola, a casa e nella comunitÀ.

Anche se questi programmi per gran parte si adattano bene alla normale struttura di una giornata scolastica, essi rappresentano un mutamento rilevante in ogni contesto didattico. Sarebbe ingenuo non prevedere ostacoli alla loro introduzione nelle scuole. Molti genitori possono ritenere che la materia in se stessa sia troppo personale perché venga trattata a scuola e che sia meglio lasciare temi simili all'educazione dei genitori (un argomento che acquista credibilitÀ nella misura in cui i genitori effettivamente affrontano questi temi, ma che È meno persuasivo quando essi mancano di farlo). Gli insegnanti possono essere riluttanti all'idea di dedicare un'altra parte della giornata a temi che appaiono cosÃŒ slegati dalle materie scolastiche fondamentali; alcuni docenti possono provare dinanzi a questi contenuti un disagio tale da non volerli insegnare e comunque tutti avranno bisogno di un addestramento speciale per farlo. Anche qualche ragazzo si opporrÀ, soprattutto se gli argomenti non saranno in sintonia con i suoi veri interessi o se gli parranno imposizioni che violano la sua vita privata. C'È inoltre il problema di mantenere una buona qualitÀ dei programmi e di assicurare che mercanti senza scrupoli di prodotti educativi non riescano a piazzare programmi di competenza emozionale malamente progettati, i quali ripeteranno i disastri prodotti, ad esempio, dai corsi raffazzonati sulla droga o sulle gravidanze premature.

Premesso questo, perché non provare?

- L'alfabetizzazione emozionale comporta una differenza?

E' l'incubo di ogni insegnante: un giorno Tim Shriver aprÃŒ il giornale locale e lesse che Lamont, uno dei suoi ex studenti preferiti, era stato colpito da nove proiettili in una strada di New Haven e che versava in condizioni critiche. “Lamont era stato uno dei leader a scuola, un giocatore di football grande e grosso e simpaticissimo, che sorrideva sempre” ricorda Shriver. “All'epoca, Lamont aveva aderito con gioia a un gruppo da me organizzato e diretto nel quale discutevamo di un modello di soluzione dei problemi conosciuto come Socs.”

La sigla sta per Situazione, Opzioni, Conseguenze, Soluzioni, un metodo in quattro momenti: enunciare la situazione e dire come ti fa sentire; pensare alle opzioni per risolvere il problema e a quali potrebbero essere le conseguenze; scegliere una soluzione e attuarla. Insomma una versione piÙ matura del metodo dello “stop luminoso”. Lamont, aggiunse Shriver, amava escogitare modi fantasiosi, ma potenzialmente efficaci, di risolvere le pressanti difficoltÀ della vita scolastica in un istituto superiore, come i problemi sentimentali e gli scontri fisici.

Ma una volta finita la scuola, quelle poche lezioni sembravano non essergli state di aiuto. Alla deriva per le strade, in un mare di povertÀ, droga e armi, Lamont a ventisei anni giaceva in un letto d'ospedale, avvolto dalle bende, col corpo crivellato dai proiettili. Accorrendo all'ospedale, Shriver trovÃ’ Lamont appena in grado di parlare, con la madre e la sorella chine su di lui. Vedendo il suo ex insegnante, Lamont gli fece cenno di avvicinarsi al letto e, mentre Shriver si chinava per sentire le sue parole, bisbigliÃ’: “Shriver, quando esco di qui, userÃ’ il metodo Socs”.

Lamont frequentÃ’ la scuola superiore di Hillhouse negli anni prima che vi si tenesse il corso di sviluppo sociale. La sua vita avrebbe avuto uno svolgimento diverso se avesse potuto beneficiare di tale formazione in tutta la sua carriera scolastica, come accade oggi agli alunni delle scuole pubbliche di New Haven? I segnali indicano una possibile risposta affermativa a questa domanda, anche se nessuno puÃ’ dirlo con certezza.

Come afferma Tim Shriver: “Una cosa È chiara: il banco di prova per la risoluzione dei problemi sociali non È solo l'aula scolastica, ma anche il bar, la strada, la famiglia”. Consideriamo le testimonianze degli insegnanti impegnati nel programma di New Haven. Uno di essi ricorda come una studentessa, ancora nubile, fosse tornata in visita alla scuola dicendo che, quasi certamente, sarebbe ormai diventata una ragazza madre “se non avesse imparato a difendere i suoi diritti durante i nostri corsi di Sviluppo Sociale” (13). Un'altra insegnante ricorda come il rapporto di una studentessa con la madre fosse cosÃŒ difficile che i loro colloqui finivano sempre in litigi furibondi con grida e schiamazzi; dopo che la ragazza ebbe imparato a calmarsi e a pensare prima di reagire, la madre riferÃŒ all'insegnante che ora potevano parlare senza piÙ dare in escandescenze. Alla scuola Troup, una studentessa di sesta classe passÃ’ un biglietto all'insegnante del suo corso di Sviluppo Sociale; vi era scritto che la sua migliore amica era incinta e che non poteva parlare con nessuno sul da farsi e stava pensando al suicidio, ma lei sapeva che l'insegnante si sarebbe interessata al caso.

Un episodio rivelatore avvenne quando stavo assistendo a una lezione di sviluppo sociale in una settima classe delle New Haven Schools; l'insegnante chiese se qualcuno voleva “riferirmi di un litigio che aveva avuto recentemente e che era finito in maniera positiva”.

Una ragazza dodicenne grassottella alzÃ’ la mano: “C'era una ragazza che pensavo fosse mia amica e qualcuno ha detto che voleva battersi con me. Mi dissero che dopo la scuola me le avrebbe suonate”.

Ma invece di aggredire con rabbia l'altra ragazza, applicÃ’ un metodo suggerito nel corso, quello di scoprire come stanno realmente le cose prima di saltare alle conclusioni: “PerciÃ’ andai da lei e le chiesi perché aveva detto quelle cose. E lei mi rispose che non le aveva mai dette. PerciÃ’ non ci azzuffammo”.

Il racconto sembra abbastanza insignificante. Ma va ricordato che la ragazza che lo ha riferito era stata giÀ espulsa da un'altra scuola per rissa. In passato lei attaccava per prima e poi faceva le domande oppure non si preoccupava nemmeno di farle. Per lei affrontare un presunto avversario in maniera costruttiva invece che scagliarsi subito con rabbia contro di lui era una conquista piccola, ma importante.

Forse il segnale piÙ indicativo dell'impatto dei corsi di alfabetizzazione emozionale sono i dati comunicatimi dal preside di questa scuola fondata dodici anni fa. Una regola inflessibile È che i ragazzi sorpresi a fare a botte vengono sospesi. Ma con l'introduzione graduale nei vari anni dei corsi di alfabetizzazione emozionale c'È stato un calo costante nel numero delle sospensioni. “L'anno scorso,” dice il preside “ci furono 106 sospensioni. Quest'anno, fino a ora, siamo in marzo, ce ne sono state solo 26.”

Questi sono benefici concreti. Ma a parte questi aneddoti, resta la questione empirica di sapere quanto contano veramente i corsi di alfabetizzazione emozionale per quelli che li seguono. I dati suggeriscono che, anche se tali corsi non cambiano la vita di nessuno dal giorno alla notte, col passare dei ragazzi da una classe all'altra si manifestano segni visibili di miglioramento nella qualitÀ della vita scolastica e nelle prospettive, nonché nel livello di competenza emozionale, di chi li segue.

Sono state svolte alcune valutazioni obiettive, le migliori delle quali paragonano studenti che hanno seguito i corsi con studenti dello stesso tipo che non li hanno seguiti, secondo il giudizio di osservatori indipendenti che valutano il comportamento dei ragazzi. Un altro metodo consiste nel rilevare i cambiamenti negli stessi studenti prima e dopo i corsi in base a misurazioni obiettive del loro comportamento, come il numero di scontri nel cortile della scuola o il numero delle sospensioni. Sommando queste valutazioni, appare che i ragazzi che hanno seguito i corsi di competenza sociale ed emozionale ne hanno tratto un diffuso beneficio per la loro condotta dentro e fuori la classe e per la loro capacitÀ di apprendimento (vedi per i dettagli l'Appendice F).

AUTOCONSAPEVOLEZZA EMOZIONALE

- Migliore capacitÀ di riconoscere e denominare le nostre emozioni;

- Migliore capacitÀ di comprendere le cause dei sentimenti;

- CapacitÀ di riconoscere la differenza tra sentimenti e azioni.

CONTROLLO DELLE EMOZIONI

- Migliore sopportazione della frustrazione e controllo della collera;

- Minor frequenza di umiliazioni verbali, scontri e disturbi in classe;

- Migliore capacitÀ di esprimere adeguatamente la collera, senza combattere;

- Minor numero di sospensioni ed espulsioni;

- Condotta meno aggressiva o autodistruttiva

- Sentimenti piÙ positivi sul proprio io, sulla scuola e sulla famiglia;

- Migliore capacitÀ di affrontare lo stress;

- Minor solitudine e ansia nei rapporti sociali;

INDIRIZZARE LE EMOZIONI IN SENSO PRODUTTIVO

- Maggior senso di responsabilitÀ;

- Maggiore capacitÀ di concentrarsi sul compito che si ha di fronte e di fare attenzione;

- Minore impulsivitÀ, maggiore autocontrollo;

- Migliori risultati nelle prove scolastiche.

EMPATIA: LEGGERE LE EMOZIONI

- Migliore capacitÀ di assumere il punto di vista altrui;

- Maggiore empatia e sensibilitÀ verso i sentimenti altrui;

- Migliore capacitÀ di ascoltare gli altri.

GESTIRE I RAPPORTI

- Migliore capacitÀ di analizzare e comprendere i rapporti;

- Migliore capacitÀ di risolvere i conflitti e negoziare i contrasti;

- Migliore capacitÀ di risolvere i problemi nei rapporti;

- Maggior sicurezza di sé e capacitÀ di comunicare;

- Maggior simpatia e socievolezza; comportamento piÙ amichevole con i coetanei e maggior legame reciproco;

- Maggior interesse da parte dei coetanei;

- Maggior interesse e premura verso gli altri;

- Minor individualismo e maggiore disposizione alla collaborazione in gruppo;

- Maggior spirito di condivisione, di collaborazione e di disponibilitÀ a rendersi utili agli altri;

- Maggior democrazia nel trattare con gli altri.

Una voce in questo elenco richiede speciale attenzione: il programma di alfabetizzazione emozionale migliora i risultati scolastici dei ragazzi. Questa non È una conclusione isolata, ma ricorre continuamente in simili studi. In un'epoca in cui a troppi giovani manca la capacitÀ di affrontare i propri turbamenti, di ascoltare o di concentrarsi, di tenere a freno gli impulsi, di sentirsi responsabili del proprio lavoro o di curare l'apprendimento, qualunque cosa rafforzi queste abilitÀ contribuirÀ alla loro educazione. In tal senso l'alfabetizzazione emozionale aumenta la capacitÀ di insegnamento della scuola. Anche in un'epoca di tagli finanziari, si puÃ’ sostenere che questi programmi valgono l'investimento, perché contribuiscono a invertire la tendenza al declino del sistema educativo e danno alla scuola la forza per adempiere alla sua missione principale.

Al di lÀ di questi vantaggi educativi, i corsi paiono aiutare i ragazzi a realizzare meglio il loro ruolo nella vita, a diventare migliori amici, studenti, figli e figlie e, nel futuro, ad avere maggiori probabilitÀ di essere migliori mariti e mogli, dipendenti e superiori, genitori e cittadini. Anche se non tutti i giovani acquisiranno queste abilitÀ con pari sicurezza, nella misura in cui ci riusciranno tutti noi ce ne avvantaggeremo. “Un'onda che sale solleva tutte le barche” come dice Tim Shriver. “Non soltanto i ragazzi che hanno dei problemi, ma tutti i giovani possono trarre benefici da queste abilitÀ; esse sono una vaccinazione per la vita.”

- Carattere, moralitÀ e le arti della democrazia.

C'È una parola tradizionale per designare quell'insieme di abilitÀ che sono rappresentate dall'intelligenza emotiva: il 'carattere'. Il carattere, scrive Amitai Etzioni, teorico sociale della George Washington University, È il “muscolo psicologico richiesto dalla condotta morale” (14). Il filosofo John Dewey riteneva che un'educazione morale fosse massimamente efficace quando le lezioni venivano impartite in presenza di accadimenti reali e non astrattamente: È questo il modo dell'alfabetizzazione emozionale (15).

Se lo sviluppo del carattere È un fondamento delle societÀ democratiche, vi prego di considerare alcuni modi in cui l'intelligenza emotiva rafforza questo fondamento. La base del carattere È la disciplina; la vita virtuosa si basa sull'autocontrollo, come i filosofi a partire da Aristotele hanno sempre osservato. Un altro caposaldo del carattere È la capacitÀ di motivare e guidare se stessi in ogni azione, dal fare i compiti, al portare a termine un lavoro, all'alzarsi dal letto al mattino. E, come abbiamo visto, la capacitÀ di rinviare la gratificazione e di controllare e incanalare i propri impulsi ad agire È un'abilitÀ emozionale fondamentale, che in passato veniva chiamata volontÀ. “Abbiamo bisogno di controllare noi stessi - i nostri appetiti e le nostre passioni - per comportarci giustamente verso gli altri” osserva Thomas Lickona in un saggio sulla formazione del carattere (16). “Mantenere l'emozione sotto il controllo della ragione richiede volontÀ.”

La capacitÀ di accantonare gli impulsi egoistici presenta benefici sociali: apre la strada all'empatia, all'ascolto degli altri, all'assunzione della prospettiva altrui. L'empatia, come abbiamo visto, porta alla benevolenza, all'altruismo e alla compassione. Vedere le cose dal punto di vista altrui infrange gli stereotipi e i pregiudizi e alimenta perciÃ’ la tolleranza e l'accettazione delle differenze. Queste capacitÀ sono quanto mai necessarie in una societÀ sempre piÙ pluralista come la nostra, perché consentono di convivere nel rispetto reciproco e creano la possibilitÀ di un discorso pubblico costruttivo. Sono le arti fondamentali della democrazia (17).

Le scuole, rileva Etzioni, svolgono un ruolo centrale nella maturazione del carattere, inculcando la disciplina e l'empatia, che a loro volta consentono un sincero impegno in difesa dei valori morali e civici (18). A questo scopo non basta tenere ai ragazzi lezioni sui valori: hanno bisogno di metterle in pratica, e ciÒ avviene solo quando riescono a costruire le abilitÀ emozionali e sociali essenziali. In questo senso, l'alfabetizzazione emozionale va di pari passo con la formazione del carattere, con l'educazione alla crescita morale e con l'educazione civica.

- Un'ultima parola.

Mentre sto ultimando il libro, alcuni inquietanti articoli di giornale catturano la mia attenzione. Uno annuncia che le armi sono diventate la prima causa di morte in America, sopravanzando gli incidenti automobilistici. Il secondo riporta che l'anno scorso la percentuale degli omicidi È salita del 3 per cento (19). Particolarmente inquietante È la previsione di un criminologo, riferita nel secondo articolo, secondo la quale ci troveremmo in un momento di calma prima della “tempesta criminale” che ci aspetterebbe nel prossimo decennio. La ragione da lui proposta a sostegno della tesi È che gli omicidi compiuti da adolescenti tra i quattordici e i quindici anni sono in crescita e che quel gruppo di etÀ rappresenta la punta avanzata di un'esplosione di violenza da parte di criminali ancora piÙ giovani. Nel prossimo decennio questi minorenni avranno dai diciotto ai ventiquattro anni, l'etÀ in cui i reati violenti raggiungono l'apice nel corso di una carriera criminale. Se ne vedono i segni all'orizzonte: un terzo articolo riporta che nei quattro anni tra il 1988 e il 1992, le cifre del ministero della Giustizia mostrano un balzo in avanti del 68 per cento nel numero dei minorenni imputati di omicidio, aggressione, furto, stupro; il solo numero delle aggressioni È cresciuto dell'80 per cento (20).

Questi adolescenti appartengono alla prima generazione che ha avuto facile accesso non solo alle pistole, ma ai fucili automatici, proprio come quella dei loro genitori È stata la prima a fare largo uso di droghe. Il fatto che gli adolescenti siano armati significa che i litigi in passato risolti con una scazzottata possono oggi facilmente degenerare in una sparatoria. Come evidenzia un altro esperto, questi adolescenti “non sono certo molto bravi nell'evitare le liti”.

Un motivo per cui sono carenti di questa abilitÀ fondamentale È che, come societÀ, non ci siamo preoccupati di insegnare a ogni ragazzo i modi essenziali per controllare la collera e risolvere positivamente i conflitti, né ci siamo curati di insegnare l'empatia, il controllo degli impulsi o gli altri aspetti fondamentali della competenza emozionale. Lasciando al caso l'apprendimento delle lezioni emozionali da parte dei ragazzi, rischiamo in gran parte di sprecare le opportunitÀ offerte dalla lenta maturazione del cervello umano per aiutare i bambini a crearsi un sano repertorio emozionale.

Nonostante l'elevato interesse per l'alfabetizzazione emozionale tra alcuni educatori, questi corsi sono ancora troppo pochi; la maggior parte degli insegnanti, dei presidi e dei genitori semplicemente ne ignora l'esistenza. I modelli migliori si trovano in gran parte al di fuori dell'attuale norma scolastica, ossia in un certo numero di scuole private e in poche centinaia di scuole pubbliche. Ovviamente nessun programma, incluso il nostro, È una risposta a ogni problema. Ma data la crisi che noi e i nostri ragazzi ci troviamo a fronteggiare, e data la speranza alimentata dai corsi di alfabetizzazione emozionale, dobbiamo chiederci: non dovremmo, ora piÙ che mai, insegnare a ogni bambino queste abilitÀ che sono le piÙ essenziali per la vita?

E se non ora, quando?



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