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LA NATURA DELL'INTELLIGENZA EMOTIVA

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LA NATURA DELL'INTELLIGENZA EMOTIVA

3. QUANDO INTELLIGENTE E' UGUALE A OTTUSO.



Il motivo esatto per il quale David Pologruto, un insegnante di fisica della scuola superiore, venne pugnalato con un coltello da cucina da uno dei suoi studenti piÙ brillanti È ancora dubbio. I fatti, cosÌ come vennero riportati con ampio risalto dai media, sono comunque i seguenti.

Jason H., uno studente modello che frequentava il secondo anno della scuola superiore di Coral Springs in California, si era fissato sull'idea di entrare alla facoltÀ di medicina - si badi bene, non presso una qualsiasi universitÀ: lui sognava Harvard. Ma Pologruto, il suo insegnante di fisica, gli aveva dato 80 in un test e Jason, pensando che il voto - un modesto B - compromettesse i suoi sogni, portÒ un coltello da macellaio a scuola e, confrontandosi con l'insegnante nel laboratorio di fisica, lo colpÌ vicino alla clavicola prima di essere bloccato in un corpo a corpo.

Il giudice riconobbe Jason innocente, temporaneamente incapace di intendere durante l'incidente, e quattro psicologi e psichiatri giurarono che durante la colluttazione il giovane fosse in preda a un attacco psicotico. Jason dichiarÃ’ che il punteggio ricevuto nel test lo aveva spinto a progettare il suicidio e che era andato da Pologruto per dirglielo. Pologruto raccontÃ’ una storia diversa: “Sono convinto che abbia cercato di accoltellarmi perché era infuriato a causa del voto mediocre”.

Dopo essersi trasferito in una scuola privata, Jason si diplomÒ due anni dopo fra i migliori. Seguendo corsi regolari avrebbe preso un A pieno, con 4.0 di media; ma Jason frequentÒ un numero sufficiente di corsi avanzati per diplomarsi con la media di 4.614, meritando quindi piÙ di A. Anche se Jason si diplomÒ con tutti gli onori, il suo ex insegnante di fisica, David Pologruto, si lamentava del fatto che il giovane non si fosse mai scusato per l'aggressione, e non se ne fosse mai assunto la responsabilitÀ (1).

La domanda a questo punto È: come puÒ essere che una persona dotata di una tale intelligenza faccia una cosa tanto irrazionale - cosÌ assolutamente stupida? Ecco la risposta: l'intelligenza scolastica ha ben poco a che fare con la vita emotiva. Le persone piÙ brillanti possono incagliarsi nelle secche di passioni senza freni e impulsi burrascosi; individui con Q.I. elevato possono rivelarsi nocchieri spaventosamente incapaci nei flutti della loro vita privata.

Un fatto della psicologia noto a tutti È la relativa incapacitÀ di strumenti quali i voti scolastici, il Q.I. o i punteggi Sat di prevedere in modo infallibile quali individui avranno successo nella vita - e questo nonostante l'aura mistica dalla quale tali strumenti sono circondati. Se si considerano vasti gruppi di individui presi nel loro insieme, sicuramente esiste una relazione fra Q.I. e circostanze della vita: molte persone con Q.I. bassissimi finiscono per fare lavori umili, mentre quelle con Q.I. alti tendono ad essere ben pagate - ma non È assolutamente sempre cosÌ.

Esistono diffuse eccezioni alla regola secondo la quale il Q.I. sarebbe in grado di prevedere il successo personale; anzi, a ben guardare, le eccezioni sono molte, forse ancora di piÙ dei casi che seguono la regola. Al massimo, il Q.I. contribuisce in ragione del 20 per cento ai fattori che determinano il successo nella vita - il che lascia evidentemente l'80 per cento determinato da altre variabili. E' stato osservato che “la nicchia finale occupata dall'individuo nella societÀ È determinata in larghissima misura da fattori diversi dal Q.I. e che possono spaziare dalla classe sociale alla fortuna” (2).

Perfino Richard Herrnstein e Charles Murray, che nel loro libro 'The Bell Curve' attribuiscono un'importanza primaria al Q.I., lo hanno riconosciuto; essi stessi hanno affermato che “forse una matricola con un punteggio Sat in matematica di 500 farebbe meglio a non aprirsi il cuore alla speranza di diventare un matematico; d'altra parte, se desiderasse gestire i propri affari, diventare senatore degli Stati Uniti o fare miliardi, non avrebbe motivo di accantonare i suoi sogni L'importanza del nesso fra i punteggi scolastici e quest'ultimo tipo di realizzazione È minimizzata da tutto l'insieme delle altre caratteristiche che l'individuo riversa nella propria vita” (3).

Personalmente sono interessato a un insieme chiave di queste “altre caratteristiche”, ossia all''intelligenza emotiva': si tratta, ad esempio, della capacitÀ di motivare se stessi e di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; di modulare i propri stati d'animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; e, ancora, la capacitÀ di essere empatici e di sperare. A differenza del Q.I., che vanta una storia ormai quasi secolare di ricerche condotte su centinaia di migliaia di soggetti, l'intelligenza emotiva È un concetto nuovo. Nessuno puÃ’ ancora dire esattamente quanta parte della variabilitÀ esistente da persona a persona sia dovuta ad essa. Ma i dati disponibili indicano che puÃ’ essere un fattore potente, a volte piÙ potente del Q.I.: e mentre c'È chi sostiene che quest'ultimo non possa essere modificato molto dall'esperienza o dall'istruzione, nella Parte quinta di questo libro intendo dimostrare come le fondamentali competenze emozionali possano invece essere apprese e potenziate nei bambini - sempre che noi adulti ci si prenda il disturbo di insegnar loro come fare.

- Intelligenza emotiva e destino.

Ricordo un mio compagno di corso all'Amherst College, che aveva meritato cinque punteggi pieni, pari a 800, nel Sat e in altri test sostenuti prima dell'ammissione. Nonostante queste formidabili capacitÀ intellettuali, passava la maggior parte del suo tempo bighellonando e rimanendo alzato fino a tardi per poi dormire fino a mezzogiorno, perdendo cosÌ le lezioni della mattina. ImpiegÒ quasi dieci anni per laurearsi.

L'analisi del Q.I. spiega ben poco del diverso destino di individui con talenti, istruzione e opportunitÀ approssimativamente simili. Quando si studiarono, seguendoli fino alla mezza etÀ, novantacinque studenti di Harvard dei corsi degli anni Quaranta - un periodo in cui le scuole dell'Ivy League erano frequentate da persone con una distribuzione piÙ ampia di Q.I. di quanto non accada adesso - si scoprÃŒ che, per quanto riguardava il salario, la produttivitÀ o lo status raggiunto nel proprio campo, gli ex studenti piÙ brillanti non avevano avuto particolare successo rispetto ai coetanei diplomatisi con votazioni mediocri, né si erano assicurati una vita piÙ ricca di soddisfazioni, o maggiore felicitÀ nella sfera delle amicizie, della famiglia e delle relazioni amorose (4).

Uno studio analogo venne effettuato anche su 450 ragazzi, in massima parte figli di immigranti, per due terzi provenienti da famiglie che vivevano di sussidi, cresciuti a Somerville (Massachusetts), uno 'slum' a qualche isolato da Harvard, a quei tempi frequentato dalla feccia. Un terzo dei soggetti studiati aveva un Q.I. inferiore a 90. Ma anche in questo caso il Q.I. aveva poco a che fare con il successo che questi giovani riscossero sul lavoro e nel resto della loro vita; ad esempio, il 7 per cento degli uomini con Q.I. al di sotto di 80 rimasero disoccupati per dieci anni e anche piÙ, ma questo accadde anche al 7 per cento dei soggetti con Q.I. superiore a 100. All'etÀ di quarantasette anni, sicuramente c'era un legame generale (come sempre) fra il Q.I. e il livello socioeconomico. Ma a fare la grande differenza erano abilitÀ maturate durante l'infanzia, ad esempio la capacitÀ di superare la frustrazione, controllare le emozioni e andare d'accordo con gli altri (5).

Consideriamo i dati di uno studio attualmente ancora in corso su ottantuno studenti delle scuole superiori dell'Illinois, scelti fra quelli che tennero i discorsi inaugurali e di commiato per i corsi del 1981. Tutti, ovviamente, avevano le medie piÙ alte della propria scuola. Ma per quanto essi continuassero a dare ottime prestazioni anche all'universitÀ, laureandosi a pieni voti, quando furono prossimi ai trent'anni avevano raggiunto quello che puÒ considerarsi un livello medio di successo. Dieci anni dopo aver preso il diploma di scuola media superiore solo uno su quattro di loro si trovava al massimo livello compatibile con la sua etÀ e molti erano decisamente al di sotto di quello standard.

Karen Arnold, che insegna pedagogia alla Boston University, È una delle ricercatrici che ha seguito il destino di questi studenti; ella spiega: “Credo che abbiamo scoperto gli individui 'ligi al dovere', quelli che sanno come ottenere buoni risultati nel sistema. Gli studenti della nostra indagine, perÃ’, devono lottare nella vita come sicuramente facciamo tutti noi. Sapere che una persona È stata uno studente modello significa solo sapere che È straordinariamente abile nelle prestazioni scolastiche. Non ci dice nulla sul modo in cui essa reagisce alle vicissitudini della vita” (6).

E proprio questo È il problema: l'intelligenza accademica non offre pressoché alcuna preparazione per superare i travagli e cogliere le opportunitÀ che la vita porta con sé. Tuttavia, anche se un Q.I. alto non È una garanzia di prosperitÀ, prestigio o felicitÀ, le nostre scuole e la nostra cultura si fissano sulle capacitÀ accademiche, ignorando l'intelligenza emotiva - un insieme di tratti che qualcuno potrebbe definire carattere - immensamente importante ai fini del nostro destino personale. La vita emotiva È una sfera che, come sicuramente accade nel caso della matematica o della lettura, puÃ’ essere gestita con maggiore o minore abilitÀ, e richiede un insieme di competenze esclusive. La destrezza di una persona in tali ambiti È fondamentale per comprendere come mai alcuni soggetti abbiano successo mentre altri, intellettualmente non da meno, imbocchino vicoli ciechi: l'attitudine emozionale È una 'meta-abilitÀ', in quanto determina quanto bene riusciamo a servirci delle nostre altre capacitÀ - ivi incluse quelle puramente intellettuali.

Naturalmente, ci sono molte strade per avere successo nella vita, e molte sfere nelle quali vengono premiate altre attitudini. Nella nostra societÀ, sempre piÙ imperniata sulla conoscenza, la capacitÀ tecnica È certamente una di queste. C'È una barzelletta da bambini che dice: “Come si chiama uno 'stupido secchione' quindici anni dopo?”. La risposta È: “Capo”. Ma anche fra “secchioni” l'intelligenza emotiva offre un ulteriore vantaggio sul posto di lavoro, come vedremo nella Terza parte del libro. Molti dati testimoniano che le persone competenti sul piano emozionale - quelle che sanno controllare i propri sentimenti, leggere quelli degli altri e trattarli efficacemente - si trovano avvantaggiate in tutti i campi della vita, sia nelle relazioni intime che nel cogliere le regole implicite che portano al successo politico. Gli individui con capacitÀ emozionali ben sviluppate hanno anche maggiori probabilitÀ di essere contenti ed efficaci nella vita, essendo in grado di adottare gli atteggiamenti mentali che alimentano la produttivitÀ; coloro che non riescono ad esercitare un certo controllo sulla propria vita emotiva combattono battaglie interiori che finiscono per sabotare la loro capacitÀ di concentrarsi sul lavoro e di pensare lucidamente.

- Un tipo diverso di intelligenza.

Agli occhi di un osservatore qualunque, vista in mezzo ai suoi compagni di giochi molto piÙ socievoli, Judy, una bambina di quattro anni, potrebbe sembrare un classico tipo da tappezzeria. Quando È il momento di giocare, esita a prender parte all'azione e ne resta ai margini invece di immergersi in essa. Tuttavia, Judy È un'abile osservatrice della politica sociale nell'ambito della sua classe di scuola materna - forse la piÙ sofisticata, fra tutti i suoi compagni, nella comprensione dei sentimenti altrui.

Questa sua dote emerge soltanto quando l'insegnante riunisce Judy e i suoi coetanei per fare quello che essi chiamano il Gioco della Classe. Questo gioco - che consiste in un modellino dell'aula di Judy, come una casa di bambole, con figurine che hanno al posto della testa delle piccole fotografie dei bambini e dell'insegnante - È un test per valutare la percettivitÀ sociale. Quando l'insegnante le chiede di mettere ciascun bambino nella zona della classe dove esso ama di piÙ stare - l'angolo delle attivitÀ artistiche, quello delle costruzioni, e cosÌ via - Judy È in grado di farlo con grande accuratezza. E quando le si chiede di mettere ciascun bambino insieme a quelli con cui ama di piÙ giocare, Judy sa mettere insieme tutti gli amici migliori.

L'accuratezza di Judy rivela il possesso di una perfetta mappa sociale della propria classe - un livello di percettivitÀ eccezionale per una bambina di quattro anni. Queste sono abilitÀ che, piÙ tardi nella vita, potranno consentirle di diventare bravissima in tutti quei campi dove conta la capacitÀ di avere a che fare con la gente, e che spaziano dalle vendite al management e alla diplomazia.

Se le brillanti attitudini sociali di Judy sono state rivelate, e cosÌ presto, lo si deve al fatto che ella frequentava la Eliot-Pearson Preschool, nel campus della Tuft University, dove si stava sviluppando Project Spectrum, un programma che coltiva intenzionalmente numerose intelligenze. Project Spectrum riconosce che il repertorio delle capacitÀ umane si spinge ben oltre la stretta banda di abilitÀ verbali e numeriche sulla quale tradizionalmente si concentra la scuola. Esso riconosce che capacitÀ come la percettivitÀ sociale di Judy sono talenti che possono essere coltivati invece di essere ignorati o addirittura mortificati. Incoraggiando i bambini a sviluppare la gamma completa delle abilitÀ dalle quali essi effettivamente attingeranno per avere successo - o semplicemente per essere soddisfatti di ciÒ che faranno - la scuola diventa davvero educazione alla vita.

La guida - l'idealista - alle spalle di Project Spectrum È Howard Gardner, uno psicologo della Harvard School of Education (7). “E' arrivato il momento” mi disse “di ampliare la nostra concezione della gamma dei talenti. Il piÙ importante contributo che la pedagogia puÃ’ dare allo sviluppo di un bambino È quello di aiutarlo e di guidarlo verso un campo nel quale i suoi talenti siano piÙ adatti, e in cui egli possa sentirsi soddisfatto e competente. Abbiamo completamente perso di vista tutto questo. Non facciamo che sottoporre tutti a un'istruzione nella quale, se si ha successo, ci si ritrova al massimo ben assortiti con un professore universitario. E tutti vengono valutati a seconda che soddisfino o meno questo standard cosÃŒ limitato. Dovremmo passar meno tempo a classificare i bambini e piÙ tempo ad aiutarli a identificare e coltivare le loro competenze e i loro talenti naturali. Ci sono centinaia e centinaia di modi diversi per avere successo, e molte, moltissime diverse capacitÀ che possono aiutare a farlo” (8).

Se c'È qualcuno che vede chiaramente i limiti delle vecchie concezioni sull'intelligenza, quello È Gardner. Egli sottolinea che il grande successo dei test per la misura del Q.I. cominciÃ’ durante la prima guerra mondiale, quando due milioni di americani vennero classificati utilizzando la prima versione del test, appena messa a punto da Lewis Terman, uno psicologo di Stanford. Questo portÃ’ al predominio, durato interi decenni, di quella che Gardner chiama “mentalitÀ da Q.I.”: la convinzione, cioÈ, “che le persone possano essere classificate in due categorie, intelligenti e non intelligenti, e che a tal proposito non ci sia molto da fare; infine, che i test possano dirci a quale categoria, intelligenti o non intelligenti, appartenga ciascuno. Il test Sat per l'ammissione all'universitÀ si basa sullo stesso concetto, e cioÈ sull'idea che un unico tipo di attitudine possa determinare il tuo futuro. Questo modo di pensare permea tutta la societÀ”.

L'importante libro di Gardner, uscito nel 1983, 'Formae mentis', rappresentÃ’ il manifesto di chi criticava la mentalitÀ da Q.I.; in esso Gardner sosteneva che non esistesse un unico tipo monolitico di intelligenza fondamentale per avere successo nella vita, ma piuttosto che ce ne fosse un'ampia gamma, della quale individuava sette varietÀ fondamentali. L'elenco di Gardner comprende i due tipi standard di intelligenza scolastica, ossia quella verbale e quella logico-matematica, spingendosi perÃ’ oltre, fino a includere anche la capacitÀ spaziale che si osserva in un bravo artista o in un architetto; il genio cinestetico che emerge dalla fluiditÀ dei movimenti e dalla grazia di Martha Graham o di Magic Johnson; il talento musicale di Mozart o di Yoyo Ma. Ci sono poi le due facce di quella che Gardner chiama “intelligenza personale”: le capacitÀ interpersonali, ad esempio quelle di un grande terapeuta come Carl Rogers o di un leader di portata mondiale come Martin Luther King, e la capacitÀ “intrapsichica” che puÃ’ emergere dalle brillanti introspezioni di Sigmund Freud o, sebbene con minore ostentazione, dalla soddisfazione interiore che si prova quando la propria vita È in armonia con i propri sentimenti.

La parola chiave in questa concezione dell'intelligenza È “MULTIPLA”: il modello di Gardner si spinge ben oltre il concetto standard di Q.I. come singolo fattore immutabile. Secondo la teoria delle intelligenze multiple, i test che ci hanno tirannizzato quando andavamo a scuola - da quelli usati per suddividere chi di noi avrebbe frequentato scuole a indirizzo tecnico da coloro che erano destinati all'universitÀ, fino ai test Sat che decidevano quali universitÀ avremmo potuto frequentare, sempre che quello fosse il nostro destino - sono basati su un concetto di intelligenza limitato, che non trova riscontro nell'autentica gamma di capacitÀ e competenze ben piÙ importanti per la vita di quanto non sia il Q.I.

Gardner riconosce che il sette È una cifra arbitraria per descrivere la varietÀ delle intelligenze; non esiste un numero magico che denoti la molteplicitÀ dei talenti umani. A un certo punto, Gardner e colleghi hanno allungato questa lista fino a individuare venti diverse intelligenze. L'intelligenza interpersonale, ad esempio, venne frammentata in quattro abilitÀ distinte: la predisposizione alla leadership, la capacitÀ di alimentare relazioni e di conservare le amicizie, l'abilitÀ di risolvere conflitti e la bravura in quel tipo di analisi sociale nella quale eccelleva Judy, la bambina di quattro anni di cui abbiamo parlato prima.

Questa concezione poliedrica dell'intelligenza offre una visuale piÙ ricca delle capacitÀ e del potenziale di successo di un bambino di quanto non possa fare il test standard per la misurazione del Q.I. Quando i bambini di una classe Spectrum furono valutati dapprima secondo la Scala di intelligenza di Stanford-Binet - un tempo lo standard aureo dei test per la misurazione del Q.I. - e poi ancora con una batteria di test ideata per misurare lo spettro delle intelligenze identificate da Gardner, non venne messa in luce alcuna relazione significativa fra i punteggi ottenuti nei due tipi di test (9). I cinque bambini con i piÙ alti Q.I. (compresi fra 125 e 133) mostravano profili molto vari nelle dieci abilitÀ misurate dal test Spectrum. Ad esempio, dei cinque bambini che in base al Q.I. erano da ritenersi piÙ “intelligenti”, uno era bravo in tre aree Spectrum, tre erano dotati in due aree Spectrum e un soggetto riusciva bene solo in uno degli ambiti sondati dal test di Gardner. Queste abilitÀ erano variamente distribuite; in quattro casi, i bambini erano dotati per la musica, in due casi per le arti visive, in un caso per la comprensione sociale, in un altro per la logica, e in due per il linguaggio. Nessuno dei cinque bambini ai quali era stato assegnato un elevato Q.I. si dimostrÃ’ dotato per la meccanica o il movimento o l'aritmetica; anzi, questi ultimi due ambiti costituivano i punti deboli di due soggetti.

La conclusione di Gardner fu che “la Scala d'intelligenza di Stanford-Binet non consentiva di prevedere il successo delle prestazioni nelle attivitÀ Spectrum o in una parte costante di esse”. D'altro canto, i punteggi Spectrum danno ai genitori e agli insegnanti una chiara guida per quanto riguarda le aree che potranno essere oggetto dell'interesse spontaneo dei bambini e nelle quali essi riscuoteranno successi tali da sviluppare la passione che un giorno potrebbe portarli a oltrepassare i limiti della competenza dell'esperto, per sconfinare nell'autentica maestria.

Il pensiero di Gardner sulla molteplicitÀ delle intelligenze È in continua evoluzione. Circa dieci anni dopo la prima pubblicazione della sua teoria, egli riassunse le caratteristiche fondamentali delle intelligenze personali come segue:

'L'intelligenza interpersonale È la capacitÀ di comprendere gli altri, le loro motivazioni e il loro modo di lavorare, scoprendo nel contempo in che modo sia possibile interagire con essi in maniera cooperativa. I venditori di successo, i politici, gli insegnanti, i clinici e i leader religiosi sono probabilmente individui con un elevato grado di intelligenza interpersonale. L'intelligenza intrapersonale [] È una capacitÀ correlativa rivolta verso l'interno: È l'abilitÀ di formarsi un modello accurato e veritiero di se stessi e di usarlo per operare efficacemente nella vita' (10).

ln un'altra versione, Gardner osserva che il nucleo dell'intelligenza interpersonale comprende le “capacitÀ di distinguere e di rispondere appropriatamente agli stati d'animo, al temperamento, alle motivazioni e ai desideri altrui”. Nell'intelligenza intrapersonale, che È la chiave per accedere alla conoscenza di sé, egli comprende l'“accesso ai propri sentimenti e la capacitÀ di discriminarli e basarsi su di essi, assumendoli come guida del proprio comportamento”.

- Spock e Data: quando la cognizione non È abbastanza.

Nella trattazione di Gardner, il ruolo delle emozioni È una dimensione dell'intelligenza personale che egli si limita a indicare senza esplorarla a fondo. Forse ciÒ È dovuto al fatto che, come mi disse lo stesso Gardner, il suo lavoro È stato fortemente ispirato e informato dal modello della mente proprio delle scienze cognitive. Pertanto la concezione gardneriana di queste intelligenze enfatizza la cognizione - ossia la 'comprensione' di se stessi e degli altri relativamente alle motivazioni e alle abitudini di lavoro, servendosi di tali intuizioni per condurre la propria vita e per andare d'accordo con gli altri. Ma come avviene nell'ambito cinestetico, dove la genialitÀ si esprime in modo non verbale, anche il regno delle emozioni si estende oltre la portata del linguaggio e della cognizione.

Sebbene la descrizione delle intelligenze personali di Gardner lasci ampio spazio alla comprensione del gioco delle emozioni e della capacitÀ di dominarle, Gardner e collaboratori non hanno tuttavia studiato a fondo il ruolo del 'sentimento' in queste intelligenze, concentrandosi piÙ che 'su di' esso, sulla cognizione 'relativa' ad esso. Questo approccio lascia inesplorato, forse non intenzionalmente, il mare di emozioni che rende la vita interiore e le relazioni umane cosÌ complesse, cosÌ irresistibili e spesso tanto sconcertanti. E lascia ancora inesplorati due concetti: in primo luogo, la possibilitÀ che l'intelligenza 'sia presente' nelle emozioni, e in secondo luogo, quella che vi 'venga portata'.

L'enfasi di Gardner sugli elementi cognitivi delle intelligenze personali riflette lo spirito dominante nella psicologia al tempo in cui le sue idee presero forma. L'eccessivo accento che la psicologia pose sulla cognizione anche quando si accingeva a indagare la sfera delle emozioni È in parte dovuto alla storia particolare di questa scienza. A metÀ del secolo, la psicologia accademica era dominata dai comportamentisti della scuola di Skinner; questi riteneva che solo il comportamento osservabile oggettivamente dall'esterno potesse essere studiato con accuratezza scientifica. I comportamentisti decretarono che tutta la sfera della vita interiore, comprese le emozioni, fosse da considerarsi un'area inaccessibile alla scienza.

In seguito, con l'affermarsi, verso la fine degli anni Sessanta, della “rivoluzione cognitiva”, l'attenzione della psicologia si rivolse verso le modalitÀ con le quali la mente registra e archivia le informazioni, e sulla natura dell'intelligenza. Ma le emozioni restarono ancora confinate in un territorio inaccessibile. Fra gli scienziati cognitivi, era opinione comune che l'intelligenza comportasse un'elaborazione fredda e metodica dei fatti. Essa sarebbe iperrazionale, simile per certi versi al signor Spock di 'Star Trek', l'archetipo dell'informazione nuda e cruda, non intorbidata dal sentimento, incarnazione dell'idea secondo la quale le emozioni non hanno posto nell'intelligenza e non fanno che confondere il nostro quadro della vita mentale.

Gli scienziati cognitivi che hanno fatta propria questa concezione si sono lasciati sedurre dal computer quale modello operativo della mente, dimentichi del fatto che in realtÀ i circuiti biologici del cervello sono immersi in una caotica miscela ribollente di sostanze chimiche che non ha nulla a che fare con l'ambiente, a base di silicio, asettico e ordinato, che ha generato la metafora. I modelli che fra gli scienziati cognitivi sono piÙ accreditati per descrivere il modo in cui la mente elabora l'informazione non hanno riconosciuto che la razionalitÀ È guidata - e puÃ’ essere travolta - dal sentimento. Il modello cognitivo fornisce, a questo proposito, una visione impoverita della mente, una concezione che non puÃ’ spiegare lo 'Sturm und Drang' dei sentimenti che dÀ sapore all'intelletto. Per poter rimanere su tali posizioni, gli stessi scienziati cognitivi hanno dovuto ignorare l'importanza, per i loro modelli della mente, di speranze e paure personali, di liti coniugali e gelosie professionali - in altre parole hanno dovuto ignorare tutto quel miscuglio di sentimenti che dÀ alla vita sapore e tensione, e che in ogni momento influenza il modo esatto in cui l'informazione viene elaborata, nonché la qualitÀ di tale elaborazione.

La visione scientifica, peraltro sbilanciata, di una vita mentale emotivamente piatta - atteggiamento prevalente negli ultimi ottant'anni di ricerca sull'intelligenza - sta gradualmente modificandosi da quando la psicologia ha cominciato a riconoscere il ruolo essenziale del sentimento nel pensiero. Un po' come nel caso di Data, il personaggio simile a Spock di 'Star Trek: The Next Generation', la psicologia sta arrivando a comprendere il potere delle emozioni nella vita mentale, come pure a riconoscere i vantaggi e i pericoli che esse comportano. Dopo tutto, Data si rende conto (con suo sgomento, se solo potesse provarne) che la sua fredda logica non lo aiuterÀ a trovare una giusta soluzione 'umana'. La nostra umanitÀ È molto piÙ evidente nei sentimenti che non nella logica; Data cerca di provarne anche lui, capendo di essere altrimenti escluso da qualcosa di essenziale. Egli desidera l'amicizia, la lealtÀ; come l'Uomo di Latta del Mago di Oz, Data non ha un cuore. Privato di quel senso lirico che ci viene dal sentimento, Data È in grado di fare musica o di scrivere versi con grande virtuosismo, ma senza passione. Il desiderio di Data (desiderio di provar desiderio) ci insegna che i piÙ alti valori del cuore umano - fede, speranza, devozione, amore - sono totalmente assenti in una concezione freddamente cognitiva della mente. Le emozioni ci arricchiscono; un modello della mente che le escluda È un ben povero modello. Quando chiesi a Gardner il perché della sua enfasi non tanto sulle emozioni, quanto sul pensiero che le riguarda - ossia sulla metacognizione - egli riconobbe la propria tendenza verso una concezione cognitiva dell'intelligenza. Tuttavia mi disse: “Quando cominciai a scrivere delle intelligenze personali, 'stavo' effettivamente parlando delle emozioni, soprattutto quando mi riferivo al mio concetto di intelligenza intrapersonale - una componente dell'intelligenza che ci mette emotivamente in sintonia con noi stessi. Per l'intelligenza interpersonale È essenziale la recezione di segnali di sentimenti viscerali. Ma in pratica, la teoria delle intelligenze multiple si È poi evoluta in modo da concentrarsi di piÙ sulla metacognizione” - ossia sulla consapevolezza dei propri processi mentali - “che non sulla gamma completa delle capacitÀ emozionali”.

Anche cosÃŒ, Gardner si rende conto di quanto queste capacitÀ emozionali e di relazione siano fondamentali per affrontare la lotta della vita. Egli sottolinea come “molte persone con Q.I. di 160 possano dare prestazioni simili a quelle di altre con Q.I. pari solo a 100, qualora queste ultime siano molto superiori a loro per intelligenza intrapersonale. E nella realtÀ quotidiana nessuna intelligenza È piÙ importante di quella interpersonale. Se non ne avete, prenderete la decisione sbagliata riguardo alla persona da sposare, il lavoro da fare, e cosÃŒ via. Dobbiamo addestrare giÀ a scuola le intelligenze personali dei bambini”.

- Le emozioni possono essere intelligenti?

Per capire meglio come potrebbe essere un addestramento di questo genere, dobbiamo rivolgerci ad altri teorici che stanno seguendo la guida intellettuale di Gardner, e fra questi soprattutto a uno psicologo di Yale, Peter Salovey, che ha mappato molto dettagliatamente i vari modi in cui È possibile portare l'intelligenza nella sfera delle emozioni (12). Questa impresa non È nuova; negli anni, perfino i piÙ ardenti sostenitori del Q.I. hanno, di tanto in tanto, cercato di portare le emozioni nella sfera dell'intelligenza, invece di considerare “emozione” e “intelligenza” come un'intrinseca contraddizione di termini. Ad esempio, E. L. Thorndike, un eminente psicologo che contribuÃŒ a diffondere il concetto di Q.I. negli anni Venti e Trenta, propose, in un articolo pubblicato su 'Harper's Magazine', che un aspetto dell'intelligenza emotiva, ossia l'intelligenza “sociale” - in altre parole la capacitÀ di comprendere gli altri e di “agire saggiamente nelle relazioni umane” - facesse anch'esso parte del Q.I. di un individuo. Altri psicologi suoi contemporanei avevano un'opinione piÙ cinica dell'intelligenza sociale, in quanto la consideravano alla stregua dell'abilitÀ di manipolare gli altri - la capacitÀ di indurli a fare ciÃ’ che si vuole, indipendentemente dal fatto che essi lo vogliano o no. Tuttavia, nessuna di queste due formulazioni dell'intelligenza sociale esercitÃ’ a lungo la propria influenza sui teorici del Q.I., e nel 1960 un importante manuale sui test d'intelligenza dichiarÃ’ che essa era un concetto “inutile”.

L'intelligenza personale, perÃ’, non era destinata a essere ignorata, soprattutto perché essa È tanto importante per l'intuito e il buon senso comune. Ad esempio, quando Robert Sternberg, un altro psicologo di Yale, chiese ad alcuni individui di descrivere una “persona intelligente”, fra i tratti principali venivano citate le capacitÀ pratiche nelle relazioni personali. Ricerche piÙ sistematiche indussero Sternberg a tornare sulla conclusione di Thorndike, e cioÈ ad affermare che l'intelligenza sociale È al tempo stesso distinta dalle capacitÀ scolastiche e parte integrante delle doti che consentono alle persone di riuscir bene negli aspetti pratici della vita. Ad esempio, fra le intelligenze pratiche tanto apprezzate nel mondo del lavoro c'È quel tipo di sensibilitÀ che consente ai dirigenti perspicaci di cogliere messaggi impliciti.

Recentemente un gruppo sempre piÙ numeroso di psicologi È pervenuto a conclusioni simili, e concorda con Gardner nel ritenere che i vecchi concetti relativi al Q.I. fossero imperniati su una gamma ristretta di abilitÀ linguistiche e matematiche, e che, sebbene un buon Q.I. fosse un fattore predittivo diretto del successo scolastico come studente o insegnante, esso si rivelava perÃ’ molto meno efficace quando la vita cominciava ad allontanarsi dal mondo accademico. Questi psicologi - fra i quali troviamo Sternberg e Salovey - hanno fatto propria una concezione piÙ ampia dell'intelligenza, cercando di reinventarla e di ridescriverla nei termini di ciÃ’ che È necessario possedere per avere successo nella vita. Questa linea di ricerca ha portato a riapprezzare quanto sia fondamentale l'intelligenza “personale” o emotiva.

Nella sua fondamentale definizione dell'intelligenza emotiva, Salovey include le intelligenze personali di Gardner, estendendo queste abilitÀ a cinque ambiti principali (14):

1. 'Conoscenza delle proprie emozioni'. L'autoconsapevolezza - in altre parole la capacitÀ di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta - È la chiave di volta dell'intelligenza emotiva. Come vedremo nel capitolo 4, la capacitÀ di monitorare istante per istante i sentimenti È fondamentale per la comprensione psicologica di se stessi, mentre l'incapacitÀ di farlo ci lascia alla loro mercé. Le persone molto sicure dei propri sentimenti riescono a gestire molto meglio la propria vita; esse infatti hanno una percezione piÙ sicura di ciÃ’ che realmente provano riguardo a decisioni personali che possono spaziare dalla scelta del coniuge all'attivitÀ professionale da intraprendere.

2. 'Controllo delle emozioni'. La capacitÀ di controllare i sentimenti in modo che essi siano appropriati si fonda sull'autoconsapevolezza. Nel capitolo 5 esamineremo la capacitÀ di calmarsi, di liberarsi dall'ansia, dalla tristezza o dall'irritabilitÀ, e le conseguenze della mancanza di tale fondamentale abilitÀ. Coloro che ne sono privi o scarsamente dotati si trovano a dover perennemente combattere contro sentimenti tormentosi, mentre gli individui capaci di controllo emotivo riescono a riprendersi molto piÙ velocemente dalle sconfitte e dai rovesci della vita.

3. 'Motivazione di se stessi'. Come mostrerÃ’ nel capitolo 6, la capacitÀ di dominare le emozioni per raggiungere un obiettivo È una dote essenziale per concentrare l'attenzione, per trovare motivazione e controllo di sé, come pure ai fini della creativitÀ. Il controllo emozionale - la capacitÀ di ritardare la gratificazione e di reprimere gli impulsi - È alla base di qualunque tipo di realizzazione. La capacitÀ di entrare nello stato di “flusso” ci consente di ottenere prestazioni eccezionali di qualsiasi tipo. Chi ha queste capacitÀ tende a essere piÙ produttivo ed efficiente in qualunque ambito si applichi.

4. 'Riconoscimento delle emozioni altrui'. L'empatia, un'altra capacitÀ basata sulla consapevolezza delle proprie emozioni, È fondamentale nelle relazioni con gli altri. Nel capitolo 7 analizzeremo le radici dell'empatia, il costo sociale della sorditÀ emozionale, e le ragioni per le quali l'empatia genera l'altruismo. Le persone empatiche sono piÙ sensibili ai sottili segnali sociali che indicano le necessitÀ o i desideri altrui. Questo le rende piÙ adatte alle professioni di tipo assistenziale, all'insegnamento, alle vendite e alla dirigenza.

5. 'Gestione delle relazioni'. L'arte delle relazioni consiste in larga misura nella capacitÀ di dominare le emozioni altrui. Nel capitolo 8 analizzeremo la competenza e l'incompetenza sociale, e le capacitÀ specifiche che vi sono implicate. Si tratta di abilitÀ che aumentano la popolaritÀ, la leadership e l'efficacia nelle relazioni interpersonali. Coloro che eccellono in queste abilitÀ riescono bene in tutti i campi nei quali È necessario interagire in modo disinvolto con gli altri: in altre parole, sono veri campioni delle arti sociali.

Naturalmente le persone hanno capacitÀ diverse in ciascuno di questi cinque ambiti; puÃ’ darsi, ad esempio, che alcuni di noi riescano a controllare benissimo la propria ansia ma siano relativamente incapaci di consolare i turbamenti altrui. Il nostro livello di capacitÀ ha, senza dubbio, una base neurale; come vedremo, perÃ’, il cervello È eccezionalmente plastico, sempre impegnato com'È nei processi di apprendimento. Le eventuali carenze nelle capacitÀ emozionali possono essere corrette: ciascuno di questi ambiti rappresenta, in larga misura, un insieme di abitudini e di risposte passibili di miglioramento, purché ci si impegni a tal fine nel modo giusto.

- Q.I. e intelligenza emotiva: tipi puri.

Il Q.I. e l'intelligenza emotiva non sono competenze opposte, ma solo separate. Tutti noi siamo dotati di una miscela di abilitÀ intellettuali ed emozionali; le persone con un elevato Q.I. ma con una scarsa intelligenza emotiva (come pure quelle che si trovano nella situazione inversa) sono, nonostante gli stereotipi correnti, relativamente rare. In veritÀ, esiste una leggera correlazione fra Q.I. ed alcuni aspetti dell'intelligenza emotiva - tuttavia essa È abbastanza piccola da dimostrare come si tratta di entitÀ in larga misura indipendenti.

A differenza dei test ormai familiari per la determinazione del Q.I., finora non esiste un test per ottenere un “punteggio dell'intelligenza emotiva”, e probabilmente non esisterÀ mai. Sebbene si stiano compiendo ampie ricerche su ciascuna delle sue componenti, alcune di esse, come l'empatia, vengono valutate meglio osservando le reali capacitÀ del soggetto messo alla prova - ad esempio chiedendogli di leggere i sentimenti di una persona dalle sue espressioni facciali filmate da una telecamera. Jack Block, uno psicologo della California University di Berkeley, ha misurato quella che egli chiama “resilienza dell'ego”, e che comprendendo le principali competenze sociali ed emozionali È abbastanza simile all'intelligenza emotiva; nei suoi studi, Block ha confrontato due tipi teorici puri: quello dei soggetti con un elevato Q.I., e quello degli individui con grandi doti emozionali (15). Le differenze riscontrate parlano da sé.

Il tipo dotato di un elevato Q.I. (lasciando da parte l'intelligenza emotiva) È quasi una caricatura dell'intellettuale, abile nel regno della mente ma inetto in quello personale. I profili sono leggermente diversi a seconda che si tratti di uomini o donne. Il maschio con un elevato Q.I. È caratterizzato - il che non ci sorprende - da un'ampia gamma di interessi e di capacitÀ intellettuali. E' ambizioso e produttivo, fidato e ostinato, e non È turbato da preoccupazioni autoriferite. Tende anche a essere critico e condiscendente, esigente e inibito, a disagio nella sfera della sessualitÀ e delle esperienze sensuali, distaccato e poco espressivo, freddo e indifferente dal punto di vista emozionale.

Invece, gli uomini dotati di grande intelligenza emotiva sono socialmente equilibrati, espansivi e allegri, non soggetti a paure o al rimuginare di natura ansiosa. Hanno la spiccata capacitÀ di dedicarsi ad altre persone o a una causa, di assumersi responsabilitÀ, e di avere concezioni e prospettive etiche; nelle loro relazioni con gli altri sono comprensivi, premurosi e protettivi. La loro vita emotiva È ricca ma appropriata; queste persone si sentono a proprio agio con se stesse, con gli altri e nell'universo sociale nel quale vivono.

Passando alle donne, il tipo puro con elevato Q.I. ha la prevedibile sicurezza intellettuale, È fluente nell'esprimere i propri pensieri, ha un'ampia gamma di interessi intellettuali ed estetici ai quali attribuisce molto valore. Queste donne tendono anche ad essere introspettive, soggette all'ansia, ai ripensamenti e ai sensi di colpa, ed esitano a esprimere apertamente la propria collera (sebbene lo facciano indirettamente).

Le donne emotivamente intelligenti, invece, tendono ad essere sicure di sé, ad esprimere i propri sentimenti in modo diretto e a nutrirne di positivi riguardo a se stesse; per loro la vita ha un senso. Come gli uomini con il profilo corrispondente, esse sono estroverse e gregarie, ed esprimono i propri sentimenti in modo equilibrato (senza abbandonarsi, ad esempio, ad esplosioni delle quali debbano poi pentirsi); si adattano bene allo stress. Questo equilibrio sociale consente loro di stringere facilmente nuove conoscenze; si sentono abbastanza a proprio agio con se stesse da essere allegre, spontanee e aperte alle esperienze dei sensi. A differenza delle donne con un profilo di tipo puro con elevato Q.I., raramente si sentono in ansia o colpevoli, e raramente sprofondano nel rimuginare.

Questi profili, naturalmente, sono estremi - tutti noi siamo dotati di abilitÀ intellettuali ed emozionali in vario grado. Tuttavia essi offrono un'analisi istruttiva del contributo separato di ciascuna di queste dimensioni - intellettuale ed emozionale - alle qualitÀ di un individuo. Nella misura in cui una persona È dotata sia di intelligenza cognitiva che di intelligenza emotiva, questi ritratti si fondono. Tuttavia, delle due, È proprio la seconda quella che contribuisce di piÙ alle qualitÀ che ci rendono pienamente umani.

4. CONOSCI TE STESSO.

In un'antica leggenda giapponese si narra di un samurai bellicoso che un giorno sfidÃ’ un maestro Zen chiedendogli di spiegare i concetti di paradiso e inferno. Il monaco, perÃ’, replicÃ’ con disprezzo: “Non sei che un rozzo villano; non posso perdere il mio tempo con gente come te!”.

Sentendosi attaccato nel suo stesso onore, il samurai si infuriÃ’ e sguainata la spada gridÃ’: “Potrei ucciderti per la tua impertinenza”.

“Ecco” replicÃ’ con calma il monaco “questo È l'inferno.”

Riconoscendo che il maestro diceva la veritÀ sulla collera che lo aveva invaso, il samurai, colpito, si calmÒ, ringuainÒ la spada e si inchinÒ, ringraziando il monaco per la lezione.

“Ecco” disse allora il maestro Zen “questo È il paradiso.”

L'improvviso risveglio del samurai e il suo aprire gli occhi sul proprio stato di agitazione ci mostra quanto sia fondamentale la differenza fra l'essere schiavi di un'emozione e il divenire consapevoli del fatto che essa ci sta travolgendo. Il consiglio di Socrate, “conosci te stesso”, fa proprio riferimento a questa chiave di volta dell'intelligenza emotiva: la consapevolezza dei propri sentimenti nel momento stesso in cui essi si presentano.

Di primo acchito potrebbe sembrare che i nostri sentimenti siano ovvi; ma se riflettiamo piÙ attentamente ci ricordiamo di tutte quelle volte che li abbiamo troppo trascurati o che siamo diventati consapevoli di essi troppo tardi. Gli psicologi usano il termine piuttosto pomposo di 'metacognizione' per riferirsi a una consapevolezza dei processi di pensiero, e quello di 'metaemozione' per indicare la consapevolezza delle proprie emozioni. Io preferisco parlare di 'autoconsapevolezza', per indicare la continua attenzione ai propri stati interiori (1). In questa consapevolezza introspettiva la mente osserva e studia l'esperienza, ivi comprese le emozioni (2).

Questo aspetto della consapevolezza È simile a ciÃ’ che Freud descrisse come un'“attenzione che si libra imparziale” e che egli raccomandava a chi dovesse intraprendere la psicoanalisi. Questa attenzione considera con imparzialitÀ tutto ciÃ’ che passa attraverso la consapevolezza, proprio come farebbe un testimone interessato agli eventi e tuttavia non reattivo. Alcuni psicoanalisti, la chiamano l'“ego osservatore”: in altre parole, si tratta dell'autoconsapevolezza che consente all'analista di monitorare le proprie reazioni verso ciÃ’ che il paziente sta dicendo e che nel paziente È alimentata dal processo delle libere associazioni (3).

Sembra che questa autoconsapevolezza richieda l'attivazione della neocorteccia, e particolarmente delle aree del linguaggio, che consentono di dare un nome alle emozioni risvegliate. L'autoconsapevolezza non È una forma di attenzione che - reagendo eccessivamente alle percezioni e amplificandole - venga spazzata via dalle emozioni. Piuttosto, È una modalitÀ neutrale della mente che sostiene l'introspezione anche in mezzo a emozioni turbolente. William Styron sembra descrivere qualcosa di simile a questa facoltÀ della mente quando, scrivendo della sua profonda depressione, parla della sensazione “di essere accompagnato da un secondo sé - un osservatore simile a un fantasma che, senza condividere la demenza del suo doppio, È in grado di osservare con curiositÀ spassionata le lotte del suo compagno” (4).

Nei migliore dei casi, l'osservazione di sé permette questa consapevolezza equilibrata di sentimenti appassionati o violenti. Nel caso peggiore, invece, essa si manifesta semplicemente come un distacco, appena accennato, dall'esperienza - una sorta di passo indietro per fermarsi a osservare il quadro; un flusso parallelo di coscienza nella modalitÀ “meta”, che si libra al di sopra o accanto a quello principale, consapevole degli eventi in corso ma non immerso, o perso, in essi. E' la differenza che passa fra l'essere travolti da una furia omicida verso qualcuno e il pensare introspettivamente “Ecco, quella che sto provando È collera”, anche nel momento stesso in cui ne siamo pervasi. In termini di meccanica neurale, presumibilmente questo sottile spostamento nell'attivitÀ mentale segnala che i circuiti neocorticali stanno monitorando attivamente l'emozione, compiendo cosÃŒ un primo passo nell'acquisizione di un certo controllo su di essa. Questa consapevolezza È la competenza emozionale fondamentale sulla quale si basano tutte le altre, ad esempio l'autocontrollo.

Essere consapevoli di sé, in breve, significa essere “consapevoli sia del nostro stato d'animo che nei nostri pensieri su di esso”, per usare le parole di John Mayer, uno psicologo della New Hampshire University che, con Peter Salovey di Yale, È uno dei padri della teoria dell'intelligenza emotiva (5). L'autoconsapevolezza puÃ’ essere una forma di attenzione, non reattiva e non critica, verso i propri stati interiori. Mayer tuttavia osserva che questa sensibilitÀ puÃ’ anche essere meno equilibrata; ecco alcuni pensieri tipici che rivelano l'autoconsapevolezza emozionale: “Non dovrei provare questo sentimento”, “Sto pensando a delle cose buone per tirarmi su” e, nel caso di un'autoconsapevolezza piÙ limitata “Non pensarci”, una reazione di fuga in risposta a qualcosa che ci turba profondamente.

Sebbene esista una distinzione logica fra l'essere consapevoli dei propri sentimenti e l'agire per modificarli, Mayer ritiene che a tutti i fini pratici le due cose procedano in stretta cooperazione: riconoscere uno stato d'animo profondamente negativo significa volersene liberare. Tuttavia, il riconoscimento delle emozioni È una cosa, e altra cosa distinta sono gli sforzi che facciamo per non agire sotto il loro impulso. Quando diciamo “Smettila!” a un bambino che, infuriato, sta colpendo un compagno di giochi, probabilmente riusciremo a fermare lo scontro fisico, ma la collera continuerÀ a covare sotto la cenere. I pensieri del bambino sono ancora fissi sull'evento che aveva scatenato la sua collera - “Ha preso il mio giocattolo!” - collera che peraltro non si È mai placata. L'autoconsapevolezza ha un effetto piÙ potente sui sentimenti negativi molto intensi: quando diciamo a noi stessi “Ecco, quella che sto provando È collera” questa consapevolezza ci offre un maggior grado di libertÀ - in altre parole, ci dÀ la possibilitÀ di decidere non solo di non agire spinti dall'impulso della collera, ma anche di cercare in qualche modo di sfogarla.

Mayer ritiene che le persone siano classificabili in diverse categorie a seconda del modo in cui percepiscono e gestiscono le proprie emozioni (6):

- 'Gli autoconsapevoli'. Consapevoli dei propri stati d'animo nel momento stesso in cui essi si presentano, queste persone sono comprensibilmente alquanto sofisticate riguardo alla propria vita emotiva. La loro chiara visione delle proprie emozioni puÒ rafforzare altri aspetti della personalitÀ: si tratta di individui autonomi e sicuri dei propri limiti, che godono di una buona salute psicologica e tendono a vedere la vita da una prospettiva positiva. Quando sono di cattivo umore, costoro non continuano a rimuginare e a ossessionarsi, e riescono a liberarsi dello stato d'animo negativo prima degli altri. In breve, il loro essere attenti alla propria vita interiore li aiuta a controllare le emozioni.

- 'I sopraffatti'. Si tratta di persone spesso sommerse dalle proprie emozioni e incapaci di sfuggir loro, come se nella loro mente esse avessero preso il sopravvento. Essendo dei tipi volubili e non pienamente consapevoli dei propri sentimenti, questi individui si perdono in essi invece di considerarli con un minimo di distacco. Di conseguenza, rendendosi conto di non avere alcun controllo sulla propria vita emotiva, costoro fanno ben poco per sfuggire agli stati d'animo negativi. Spesso si sentono sopraffatti e incapaci di controllare le proprie emozioni.

- 'I rassegnati'. Sebbene queste persone abbiano spesso idee chiare sui propri sentimenti, anch'esse tendono tuttavia ad accettarli senza cercare di modificarli. Sembra che in questa categoria rientrino due tipi di soggetti: in primo luogo quelli che solitamente hanno stati d'animo positivi e perciÃ’ sono scarsamente motivati a modificarli; e in secondo luogo coloro che, nonostante siano chiaramente consapevoli dei propri stati d'animo, e siano suscettibili a sentimenti negativi, tuttavia li accettano assumendo un atteggiamento da 'laissez-faire', senza cercare di modificarli nonostante la sofferenza che essi comportano - una situazione che si riscontra, ad esempio, nei depressi che si sono rassegnati alla propria disperazione.

- L'appassionato e l'indifferente.

Immaginate per un momento di trovarvi su un aeroplano diretto da New York a San Francisco. E' stato un viaggio tranquillo, ma proprio mentre cominciate a vedere le Montagne Rocciose la voce del pilota risuona all'altoparlante. “Signori e signore, abbiamo di fronte a noi una certa turbolenza. Vi preghiamo pertanto di raddrizzare lo schienale delle vostre poltrone e di allacciare le cinture di sicurezza.” Detto questo, l'aeroplano viene inghiottito dalla turbolenza - la peggiore che vi sia mai capitata - che lo scuote su e giÙ e da una parte all'altra come un pallone in balia delle onde.

La domanda È: come vi comportereste? Siete il tipo di persona che si seppellisce in un libro o in una rivista o che continua a guardare il film, escludendo la turbolenza dai propri pensieri? Oppure tirereste fuori l'opuscolo sui comportamenti da assumere in caso d'emergenza, tanto per dargli una ripassata? O forse vi mettereste a scrutare gli assistenti di volo per vedere se il loro volto non tradisca segni di panico? O ancora, cerchereste forse di sentire il rumore dei motori per capire se c'È qualcosa di preoccupante?

Il tipo di reazione che, fra quelle elencate, ritenete vi verrebbe piÙ spontanea È un indice del vostro modo preferito di prestare attenzione a un problema quando vi trovate, per cosÌ dire, con le spalle al muro. Lo scenario dell'aeroplano È stato tratto da un test psicologico sviluppato da Suzanne Miller, psicologa della Temple University, per distinguere le persone che tendono ad essere vigili e attente a ogni dettaglio di una situazione difficile da quelle che, invece, affrontano questi momenti d'angoscia cercando di distrarsi. Queste due diverse modalitÀ di attenzione nei confronti del disagio profondo hanno effetti molto diversi sul modo in cui gli individui vivono le proprie reazioni emotive. Coloro che in tali circostanze si sintonizzano sugli eventi, possono, per lo stesso fatto di prestar loro un'attenzione cosÌ meticolosa, amplificare involontariamente l'entitÀ delle proprie reazioni - soprattutto se il loro concentrarsi sugli eventi non È equilibrato dall'autoconsapevolezza. Il risultato È che le loro emozioni sembrano piÙ intense. Coloro che invece decidono di escludere mentalmente gli eventi distraendosi, fanno meno caso alle proprie reazioni e pertanto minimizzano, se non l'entitÀ della risposta emozionale, almeno l'esperienza soggettiva.

Portato agli estremi, ciÒ significa che per alcune persone la consapevolezza delle emozioni È travolgente, mentre per altri a mala pena esiste. Consideriamo, ad esempio, il caso di quello studente universitario che, una sera, scoprÌ un incendio nella sua camera, andÒ a cercare un estintore, lo trovÒ e con quello spense il fuoco. Niente di strano, direte voi; sÌ, certo, tranne il fatto che mentre andava a cercare l'estintore e poi mentre tornava nella sua camera a spegnere l'incendio, il giovane non correva ma camminava tranquillamente. Non riteneva ci fosse urgenza alcuna.

Questa storia mi venne raccontata da Edward Diener, uno psicologo che lavora alla Illinois University di Urbana e che sta studiando l'intensitÀ con la quale le persone vivono le proprie emozioni (7). Nella casistica di Diener, lo studente di cui abbiamo appena parlato era uno dei soggetti con percezione emozionale meno intensa mai incontrato. Egli era essenzialmente un uomo senza passioni, che attraversava le vicissitudini dell'esistenza provando poche emozioni - o addirittura senza provarne affatto - perfino in un caso di emergenza come poteva essere un incendio.

Consideriamo ora invece il caso di una donna che si trovava all'estremo opposto nella casistica di Diener. Una volta, perse la sua penna preferita, e rimase turbata per giorni. Un'altra volta, si eccitÃ’ talmente leggendo che un magazzino dai prezzi alquanto alti aveva messo in saldo le scarpe da donna, che lasciÃ’ perdere quel che stava facendo, saltÃ’ in auto e si fece tre ore di guida fino a Chicago, tanto per dare un'occhiata.

Diener ritiene che, in generale, le donne sentano sia le emozioni positive, sia quelle negative, con maggiore intensitÀ rispetto agli uomini. In ogni caso, al di lÀ delle differenze di sesso, la vita emozionale È piÙ ricca per chi le presta maggior attenzione. Negli individui piÙ sensibili alle emozioni, il minimo stimolo puÒ scatenare vere e proprie tempeste emozionali - che possono rivelarsi infernali o paradisiache; all'estremo opposto ci sono individui che quasi non avvertono emozione alcuna, nemmeno nelle circostanze piÙ critiche.

- L'uomo senza sentimenti.

Gary riusciva a mandare su tutte le furie Ellen, la sua fidanzata; infatti, pur essendo un chirurgo di successo, intelligente e pieno di attenzioni, era emozionalmente piatto, assolutamente incapace di rispondere ad alcuna manifestazione di sentimento. Sebbene fosse in grado di sostenere una conversazione brillante su argomenti che spaziavano dalla scienza all'arte, quando doveva esprimere i propri sentimenti - anche quelli per Ellen - Gary sprofondava nel silenzio. Per quanto Ellen cercasse di suscitare in lui una qualche passione, Gary rimaneva impassibile e ignaro. “Non mi viene spontaneo esprimere i miei sentimenti” disse Gary al terapeuta al quale si era rivolto dietro le insistenze di Ellen. “Non so di che cosa parlare; non ho sentimenti forti, né positivi, né negativi.”

Ellen non era l'unica ad essere frustrata dall'indifferenza di Gary; egli stesso confidÃ’ al terapeuta di essere incapace di parlare apertamente dei propri sentimenti con chiunque. La ragione? In primo luogo, nemmeno lui sapeva bene che cosa sentiva. Stando a lui, non provava mai sentimenti di collera, di tristezza o di gioia (8).

Come afferma il suo terapeuta, questo vuoto emozionale rende Gary e gli individui come lui insipidi e scialbi: “Annoiano chiunque. Ecco perché le loro mogli li spingono a tentare la terapia”. La vacuitÀ emozionale di Gary esemplifica quella che gli psichiatri definiscono 'alessitimia', dal greco 'a' per “mancanza”, 'lexis' per “parola”, e 'thymos' per “emozione”. Queste persone non hanno parole per descrivere i propri sentimenti. In effetti, esse sembrano mancare anche dei sentimenti stessi, sebbene quest'impressione possa essere causata dalla loro incapacitÀ di esprimere l'emozione, e non dalla totale assenza dell'emozione in quanto tale. Queste persone vennero notate la prima volta dai loro psicoanalisti, che rimanevano sconcertati da una classe di pazienti refrattari all'analisi perché incapaci di riferire sentimenti, fantasie, sogni intensi; in breve, si trattava di soggetti privi di una vita emotiva della quale parlare (9). Gli aspetti clinici che contrassegnano i pazienti alessitimici comprendono la difficoltÀ nel descrivere i sentimenti - propri e altrui - e un vocabolario emozionale molto limitato (10). Non solo: costoro hanno difficoltÀ a discriminare tanto fra emozioni diverse, quanto fra emozioni e sensazioni fisiche; arrivano infatti al punto di lamentarsi di un senso di vuoto allo stomaco, palpitazioni, sudorazione e vertigini, senza sospettare minimamente che possa trattarsi di ansia.

“Danno l'impressione di essere strani, creature aliene, provenienti da un mondo completamente diverso e destinate a vivere in una societÀ dominata dai sentimenti”: ecco come li descrive Peter Sifneos, lo psichiatra di Harvard che nel 1972 coniÃ’ il termine 'alessitimia' (11). Gli alessitimici raramente piangono, ma se lo fanno, non risparmiano le lacrime. Tuttavia, restano sconcertati se si chiede loro il perché del loro pianto. Una paziente alessitimica rimase cosÃŒ sconvolta nel vedere un film su una donna con otto figli che stava morendo di cancro, da piangere fino a cadere addormentata. Quando il suo terapeuta le suggerÃŒ che forse era sconvolta perché il film le aveva ricordato sua madre, che stava davvero morendo di cancro, la donna rimase immobile, sconcertata e in silenzio. Al terapeuta che le chiedeva come si sentisse in quel momento, la donna rispose “orrendamente”, ma non riuscÃŒ a chiarire oltre i propri sentimenti. Aggiunse che di tanto in tanto si ritrovava a piangere, ma che non sapeva mai esattamente perché lo stesse facendo (12).

Questo È proprio il nocciolo del problema. Non È che gli alessitimici non provino assolutamente sentimenti: il fatto È che non riescono a sapere di che sentimento si tratti, e soprattutto sono incapaci di esprimerlo a parole. Essi mancano completamente di quella abilitÀ fondamentale dell'intelligenza emotiva che È l'autoconsapevolezza - ossia mancano della capacitÀ di sapere che emozione stanno provando nel momento stesso in cui ne sono pervasi. Gli alessitimici smentiscono il buon senso comune, secondo il quale i propri sentimenti dovrebbero essere cosa assolutamente ovvia: questi pazienti non ne hanno invece la piÙ pallida idea. Quando qualcosa - o piÙ probabilmente qualcuno - stimola in loro un'emozione, essi trovano l'esperienza sconcertante e travolgente, qualcosa da evitare a ogni costo. Quando i sentimenti li travolgono, causano loro un grande disagio, al punto da stordirli; come disse la paziente che aveva pianto vedendo il film, questi individui si sentono “orribilmente”, ma non sanno dire esattamente che genere di orrore sia quello che percepiscono.

Questa loro fondamentale confusione relativa alla sfera emozionale sembra spesso indurli a lamentarsi di problemi fisici non ben definiti, quando in realtÀ il loro disagio È di natura emozionale: in psichiatria questo fenomeno È noto come 'somatizzazione', e indica la confusione di una sofferenza psicologica con un problema fisico (si tratta di una condizione diversa dalla malattia psicosomatica nella quale i problemi emozionali causano autentici disturbi fisici). In effetti, gran parte dell'interesse degli psichiatri per gli alessitimici È mosso dal desiderio di separarli dagli altri pazienti; essi vanno infatti incontro a ricerche diagnostiche interminabili - quanto infruttuose - e a cure lunghissime per quello che in realtÀ È un problema emozionale.

Sebbene finora nessuno abbia potuto dire con certezza quali siano le cause dell'alessitimia, Sifneos ipotizza che in questi pazienti si sia verificata un'interruzione delle connessioni fra il sistema limbico e la neocorteccia, soprattutto a livello dei centri del linguaggio; questo quadro ben si adatta alle nuove acquisizioni sul cervello emozionale. Sifneos osserva che pazienti con gravi attacchi epilettici, ai quali tali connessioni vennero resecate nel tentativo di alleviare i loro sintomi, divennero emozionalmente piatti, proprio come i pazienti alessitimici - incapaci di tradurre i propri sentimenti in parole e improvvisamente privi di fantasia. In breve, sebbene in questi soggetti i circuiti del cervello emozionale possano ancora reagire producendo sentimenti, la neocorteccia non È piÙ in grado di classificarli e di completarli aggiungendo loro le sfumature del linguaggio. Come osservÃ’ Henry Roth nel suo romanzo 'Chiamalo sonno' parlando di questo potere del linguaggio: “Se riesci a tradurre in parole ciÃ’ che senti, ti appartiene”. Naturalmente, il dilemma dell'alessitimico non È che il corollario di quest'affermazione: non aver parole per descrivere i sentimenti significa non potersi appropriare di essi.

- Elogio dei sentimenti viscerali.

Il tumore di Elliot, che cresceva proprio dietro la fronte, era delle dimensioni di una piccola arancia, e il chirurgo riuscÌ a rimuoverlo completamente. Sebbene l'intervento fosse pienamente riuscito, le persone che lo conoscevano bene dissero che in seguito all'operazione Elliot non era piÙ lui - che aveva subito un drastico cambiamento di personalitÀ. Avvocato di successo presso un'azienda, dopo l'intervento Elliot non fu piÙ in grado di lavorare; la moglie lo lasciÒ; sperperati i suoi risparmi in investimenti infruttuosi, si ridusse a vivere in una camera libera a casa del fratello.

C'era un aspetto sconcertante nel difficile caso di Elliot. Dal punto di vista intellettuale, egli era brillante come sempre, ma usava il suo tempo malissimo, perdendosi in dettagli di nessuna importanza; sembrava aver perso il senso della prioritÀ. I rimproveri non sortivano piÙ alcun effetto su di lui; venne sollevato da una serie di incarichi legali. Sebbene test approfonditi non avessero evidenziato alcun problema nelle facoltÀ intellettuali di Elliot, in ogni caso egli andÒ a farsi vedere da uno specialista, sperando che la scoperta di un disturbo neurologico potesse assicurargli il godimento dei benefici di invaliditÀ ai quali riteneva di aver diritto. In caso contrario, egli sarebbe inevitabilmente passato per un simulatore.

Antonio Damasio, il neurologo consultato da Elliot, rimase colpito dalla mancanza di un elemento nel suo repertorio mentale: sebbene non ci fosse nulla di alterato nelle capacitÀ logiche, mnemoniche, attentive o in altre abilitÀ cognitive, Elliot era praticamente ignaro dei propri sentimenti su quanto gli stava accadendo (13). Fatto ancora piÙ importante, narrava i tragici eventi della sua vita con una totale indifferenza, come se fosse stato solo uno spettatore delle perdite e dei fallimenti dei quali era costellato il suo passato - senza una nota di rimpianto o di tristezza, di frustrazione o di collera verso la crudele ingiustizia riservatagli dalla vita. La sua stessa tragedia non gli arrecava dolore alcuno; Damasio era molto piÙ sconvolto dalla storia di Elliot di quanto non lo fosse lo stesso protagonista.

Damasio concluse che la causa di questa inconsapevolezza nei confronti delle proprie emozioni era stata la rimozione, insieme al tumore, di parte dei lobi prefrontali. In effetti, l'operazione aveva resecato i collegamenti fra i centri inferiori del cervello emozionale (soprattutto l'amigdala e i circuiti ad essa legati) e i centri della neocorteccia, sede delle capacitÀ intellettuali. Quanto a queste ultime, Elliot era diventato simile a un computer, in grado di eseguire ogni passaggio nel calcolo di una decisione, ma incapace di assegnare 'valori' alle diverse possibilitÀ. Per lui, ogni opzione era neutrale. Damasio sospettava che il nocciolo dei problemi di Elliot fosse proprio quel suo ragionare cosÌ imperturbabile: l'ignorare i propri sentimenti inficiava il suo ragionamento.

L'handicap affiorava anche nelle decisioni piÙ banali. Quando Damasio cercÒ di scegliere un orario e un giorno per il successivo appuntamento con Elliot, il risultato fu un caos di indecisione: Elliot trovava argomenti pro e contro ogni orario e ogni data proposta da Damasio, senza riuscire a decidersi. A livello razionale, esistevano ragioni perfettamente valide per rifiutare o accettare qualunque orario per l'appuntamento. Ma Elliot non aveva la percezione dei propri sentimenti riguardo ai diversi orari. Mancando di quella consapevolezza, non aveva preferenze.

L'indecisione di Elliot serve a mostrarci quanto sia importante il ruolo del sentimento nel guidare il flusso senza fine delle decisioni personali. Sebbene i sentimenti forti possano disturbare il ragionamento creandovi il caos, la 'mancanza' di consapevolezza sui sentimenti puÒ anch'essa rivelarsi disastrosa, soprattutto quando si devono soppesare decisioni dalle quali dipende in larga misura il nostro destino: quale carriera intraprendere, se conservare un posto di lavoro sicuro o passare a un altro, piÙ a rischio ma anche piÙ interessante, con chi avere una relazione, chi eventualmente sposare, dove vivere, quale appartamento affittare o quale casa acquistare - e cosÌ via, per tutta la vita. Queste decisioni non possono essere prese servendosi della sola razionalitÀ, nuda e cruda; esse richiedono anche il contributo che ci viene dai sentimenti viscerali e quella saggezza emozionale che scaturisce dalle esperienze del passato. La logica formale da sola non potrÀ mai servire come base per decidere chi sposare o in quale persona riporre fiducia, e nemmeno quale lavoro scegliere; questi sono tutti campi nei quali la ragione, se non È coadiuvata dal sentimento, È cieca.

In questi momenti, i segnali intuitivi che ci guidano arrivano in forma di impulsi provenienti dalle viscere e regolati dal sistema limbico: Damasio li chiama “marker somatici” - letteralmente sentimenti viscerali. Il marker somatico È un tipo di allarme automatico, che solitamente attira l'attenzione su un pericolo potenziale proveniente da un'azione in corso di svolgimento. Molto spesso questi marker ci distolgono da una scelta sconsigliata dall'esperienza, ma possono anche allertarci di fronte a un'occasione d'oro. Di solito in quel momento, noi non ricordiamo quale esperienza specifica abbia generato in noi questo sentimento negativo; tutto ciÃ’ che ci serve È il segnale che un certo corso dell'azione potrebbe rivelarsi disastroso. Ogni qualvolta compare una sensazione viscerale, possiamo immediatamente abbandonare una certa strada o proseguire su di essa con maggior sicurezza, riducendo la gamma delle scelte disponibili a una matrice piÙ maneggevole. La chiave per scandagliare i nostri processi decisori personali È dunque quella di essere in sintonia con i propri sentimenti.

- Sondare l'inconscio.

La vacuitÀ emozionale di Elliot indica che, probabilmente, la capacitÀ di percepire le proprie emozioni nel momento stesso in cui esse si presentano varia lungo un continuum. Con la logica della neuroscienza, se l'assenza di un circuito neurale porta a un deficit in una capacitÀ, allora la potenza o la debolezza relative di quello stesso circuito, in soggetti con il cervello intatto, dovrebbe portare a livelli di competenza similmente potenziati o indeboliti relativamente a quella stessa abilitÀ. Tenendo presente l'importanza dei circuiti prefrontali per entrare in sintonia con le proprie emozioni, ciÒ suggerisce che, per ragioni neurologiche, alcuni di noi riescano probabilmente a riconoscere meglio di altri la paura o la gioia, e quindi siano maggiormente autoconsapevoli.

PuÃ’ darsi che il talento per l'introspezione psicologica si basi su questo stesso circuito. Alcuni di noi sono per natura piÙ in sintonia con le particolari modalitÀ simboliche della mente emozionale: la metafora e la similitudine, insieme alla poesia, al canto e alla favola, sono tutti elementi presenti nel linguaggio del cuore. E altrettanto lo sono i sogni e i miti, nei quali il flusso della narrazione È determinato dalle libere associazioni, fedeli alla logica della mente emozionale. Coloro che per natura sono in sintonia con la voce del proprio cuore - con il linguaggio delle emozioni - sanno di essere piÙ adatti ad articolarne i messaggi, indipendentemente dal fatto che siano romanzieri, che scrivano testi di canzoni o facciano gli psicoterapeuti. Questa sintonia interiore dovrebbe renderli maggiormente dotati nel dar voce alla “saggezza dell'inconscio” - in altre parole, ai significati dei nostri sogni e delle nostre fantasie, ai simboli che incarnano i nostri desideri piÙ profondi.

L'autoconsapevolezza È fondamentale per la comprensione psicologica; questa È la facoltÀ che la psicoterapia cerca di rafforzare. In effetti, la personalitÀ che Howard Gardner ha preso a modello per la sua intelligenza intrapsichica È Sigmund Freud, il grande osservatore della dinamica segreta della psiche. Come chiarÌ lo stesso Freud, gran parte della vita emotiva È inconscia, e i sentimenti che ci scuotono non sempre oltrepassano la soglia della consapevolezza. La verifica empirica di questo assioma della psicologia ci viene dagli esperimenti sulle emozioni inconsce; ad esempio, È stato scoperto che le persone si formano precise preferenze per cose che non sanno neppure di avere mai visto. Qualunque emozione puÒ essere - e spesso È - inconscia.

Solitamente, dal punto di vista fisiologico, un'emozione sorge prima che l'individuo ne sia conscio. Ad esempio, quando le persone che temono i serpenti osservano disegni che li raffigurano, sensori posti sulla loro pelle rivelano che cominciano a sudare, sebbene essi sostengano di non aver paura alcuna. In questi soggetti la sudorazione compare anche quando il disegno di un serpente viene presentato loro cosÌ rapidamente che essi non sono assolutamente consapevoli di che cosa, esattamente, abbiano appena visto - e meno che mai sono consapevoli di essere in procinto di diventare ansiosi. Questa agitazione emozionale preconscia continua ad aumentare e diventa infine abbastanza forte da irrompere nella consapevolezza. Esistono pertanto due livelli di emozione, quello conscio e quello inconscio. Il momento in cui un'emozione si fa strada nella consapevolezza segna la sua registrazione come tale da parte della corteccia frontale (14).

Le emozioni che covano sotto la cenere al di sotto della soglia della consapevolezza possono avere un impatto potente sul nostro modo di percepire e reagire, anche se non ce ne rendiamo conto. Prendiamo, ad esempio, qualcuno che sia stato infastidito dall'incontro con un tipo villano al principio della giornata e che resti irritabile per ore, offendendosi a sproposito e rimbeccando aspramente gli altri senza motivo. PuÒ darsi benissimo che costui non si renda conto della propria irritabilitÀ e che si sorprenda quando qualcuno gliela fa notare, sebbene sia proprio quell'irritabilitÀ, appena al di lÀ della consapevolezza, ad imporgli le sue brusche risposte. Ma una volta che l'azione viene portata nella consapevolezza - una volta che essa sia stata registrata dalla corteccia - quest'uomo potrÀ rivalutare la situazione e decidere di scrollarsi di dosso i sentimenti lasciatigli dall'incontro sgradevole del mattino, cambiando prospettiva e stato d'animo. In questo modo, l'autoconsapevolezza delle proprie emozioni È l'elemento costruttivo essenziale di un altro importantissimo aspetto dell'intelligenza emotiva, ossia la capacitÀ di liberarsi di uno stato d'animo negativo.

5. SCHIAVI DELLE PASSIONI.

'Tu sei sempre stato uno che tutto sopportando nulla subisce: e con pari animo accoglie i favori e gli schiaffi della Fortuna [] Mostrami un uomo che non sia schiavo delle passioni e me lo porterÃ’ chiuso nell'intimo del cuore, nel cuore del mio cuore, come ora te'.

Amleto all'amico Orazio (William Shakespeare, 'Amleto', trad. it. di Cesare Vico Lodovici, Torino 1960).

Una buona padronanza di sé - ossia la capacitÀ di resistere alle tempeste emotive causate dalla sorte avversa, senza essere “schiavi delle passioni” - È una virtÙ elogiata fin dai tempi di Platone. L'antica parola greca che indicava questa qualitÀ era 'sophrosyne', ossia, secondo la traduzione del grecista Page DuBois, “cura e intelligenza nel condurre la propria vita; misura, equilibrio e saggezza”. I Romani e i primi cristiani la chiamarono 'temperantia' - temperanza - in altre parole, la identificavano con la capacitÀ di frenare gli eccessi emozionali. In effetti, l'obiettivo della temperanza È l'equilibrio, non la soppressione delle emozioni: ogni sentimento ha il suo valore e il suo significato. Una vita senza passioni sarebbe come una landa desolata abitata solo dall'indifferenza - tagliata fuori, isolata e separata dalla ricchezza della vita stessa. Tuttavia, come ha osservato Aristotele, È importante che le emozioni siano 'appropriate', in altre parole che il sentimento sia proporzionato alla circostanza. Quando le emozioni sono troppo tenui, compaiono l'indifferenza e il distacco; ma quando sfuggono al controllo, diventando troppo estreme e persistenti, allora sono patologiche, come accade, ad esempio, quando siamo paralizzati dalla depressione, travolti dall'angoscia, oppure anche sopraffatti dalla collera furiosa o dall'agitazione maniacale.

In veritÀ, il saper controllare le proprie emozioni penose È la chiave del benessere psicologico; i sentimenti estremi - emozioni che diventano troppo intense o durano troppo a lungo - minano la nostra stabilitÀ. Naturalmente, non sto dicendo che dovremmo provare un solo tipo di emozione; se avessimo un'espressione costantemente felice stampata sul volto, saremmo in qualche modo simili a quelle spillette con la faccia sorridente che ebbero un momento di grande popolaritÀ negli anni Settanta, e comunicheremmo la stessa impressione di vacuitÀ. Ci sarebbe molto da dire sul contributo costruttivo della sofferenza alla vita creativa e spirituale; il dolore puÒ davvero temprare l'anima.

I momenti difficili, come del resto anche quelli positivi, danno sapore alla vita, ma per farlo devono essere in equilibrio. Infatti, È il rapporto fra emozioni negative e positive che determina il senso di benessere psicologico - almeno stando a quanto È emerso da alcuni studi sugli stati d'animo condotti su centinaia di soggetti di entrambi i sessi; questi individui portavano con sé dei cicalini che ricordavano loro, suonando a caso, di registrare le emozioni che provavano in quel preciso istante (1). Non sto dicendo che per sentirsi contenti si debbano evitare i sentimenti spiacevoli; piuttosto, È importante che i sentimenti molto intensi non sfuggano al controllo, spazzando via tutti gli stati d'animo piacevoli. Le persone soggette a violenti episodi di collera o depressione possono ciÃ’ nonostante riuscire ancora a provare un senso di benessere se godono di momenti ugualmente felici o gioiosi che controbilanciano i sentimenti negativi. Questi studi hanno inoltre affermato l'indipendenza dell'intelligenza emotiva da quella scolastica, in quanto hanno rivelato la presenza di una correlazione scarsa o nulla fra le votazioni (o il Q.I.) e il benessere psicologico.

Proprio come nella mente esiste un costante mormorio di fondo di pensieri, c'È anche un incessante rumore emozionale; se chiamate qualcuno alle sei di mattina o alle sette di sera, lo troverete sempre nell'uno o nell'altro stato d'animo. Naturalmente, se si prendono due mattine qualsiasi, una persona puÒ trovarsi in stati d'animo molto diversi; ma quando si fa la media degli stati d'animo registrati nell'arco di intere settimane o anche di mesi, essi tendono a riflettere il senso di benessere generale di quella persona. Emerge cosÌ che nella maggior parte degli individui i sentimenti di estrema intensitÀ sono relativamente rari e che la maggioranza di noi È compresa, sotto questo aspetto, in una grigia mediocritÀ animata solo da leggeri sussulti - una sorta di montagne russe emozionali.

CiÒ nonostante, il controllo delle proprie emozioni È come un lavoro a tempo pieno: molte delle nostre azioni - soprattutto nel tempo libero - non sono altro che tentativi di controllare i nostri stati d'animo. Tutto - dalla lettura di un romanzo al guardare la televisione, dalla scelta delle nostre attivitÀ a quella degli amici - ebbene, tutto questo puÒ essere un modo per sentirci meglio. L'arte di tranquillizzare e confortare se stessi È una capacitÀ fondamentale nella vita; alcuni teorici della psicoanalisi, come John Bowlby e D. W. Winnicott, la considerano come uno degli strumenti psichici piÙ essenziali. Secondo la loro teoria, i bambini emozionalmente sani imparano a confortarsi da soli imitando le persone che si prendono normalmente cura di loro e diventando cosÌ meno vulnerabili alle tempeste scatenate dal cervello emozionale.

Come abbiamo visto, la struttura delle connessioni cerebrali comporta che non possiamo assolutamente controllare in 'quale' momento verremo travolti dalle emozioni, né 'quale' emozione ci travolgerÀ. Tuttavia, possiamo, in una certa misura, controllare 'la durata' dell'emozione. Il problema non esiste nel caso in cui le emozioni che ci pervadono - tristezza, preoccupazione o collera - siano all'acqua di rose; normalmente questi stati d'animo si risolvono col tempo e un poco di pazienza. Ma quando queste stesse emozioni sono molto intense e indugiano oltre misura, ecco che sfumano nei loro estremi corrispondenti, che sono sempre associati a sofferenza - si pensi all'ansia cronica, alla collera incontrollabile e alla depressione. Nei casi piÙ gravi e refrattari, per attenuare questi stati d'animo sarÀ probabilmente necessario un trattamento farmacologico, la psicoterapia, o entrambi i tipi di intervento.

In questi momenti, anche il saper riconoscere quando l'emozione È troppo intensa e prolungata perché la si possa dominare senza aiuto farmacologico puÃ’ essere un segno della capacitÀ di operare un certo controllo. Ad esempio, due terzi di coloro che soffrono di depressione maniacale non sono mai stati curati. Tuttavia, il litio e i farmaci piÙ recenti possono interrompere quel ciclo caratteristico che vede l'alternarsi di fasi di depressione paralizzante a episodi maniacali: un ciclo in cui si mescolano esaltazione e grandiositÀ caotiche con irritazione e collera. Uno dei problemi di fondo, nel caso dei pazienti maniaco-depressivi, È che spesso, quando si trovano nella fase maniacale del ciclo, questi individui hanno una tale fiducia in se stessi da essere convinti di non aver alcun bisogno di aiuto - e questo nonostante le decisioni disastrose che prendono. In disturbi emozionali di tale gravitÀ il trattamento con psicofarmaci È un valido strumento per migliorare la qualitÀ della vita.

Ma quando si tratta di vincere gli stati d'animo negativi piÙ comuni, ecco che ci troviamo a combattere con i soli nostri mezzi che purtroppo non sono sempre efficaci - almeno stando alla conclusione cui È giunta Diane Tice, psicologa della Case Western Reserve University; ella chiese a piÙ di quattrocento persone di entrambi i sessi quali strategie usassero per sfuggire agli stati d'animo negativi, e in che misura esse si fossero rivelate efficaci (2).

In linea di principio, non tutti sono d'accordo nel premettere che i sentimenti negativi andrebbero modificati; Tice ha scoperto che il cinque per cento dei soggetti interrogati assumeva, rispetto agli stati d'animo, un atteggiamento da “purista”; costoro dissero di non aver mai cercato di modificare un proprio stato d'animo perché, secondo loro, tutte le emozioni sono “naturali” e dovrebbero essere vissute come si presentano, non importa quanto deprimenti possano essere. Poi, c'erano perfino quelli che cercavano regolarmente di calarsi in uno stato d'animo negativo per ragioni di ordine pratico: medici che dovevano assumere un aspetto di circostanza per poter dare cattive notizie ai propri pazienti; attivisti sociali che alimentavano il proprio risentimento contro l'ingiustizia per poterla meglio combattere; c'era perfino un giovane che raccontÃ’ di fomentare la propria collera per aiutare il fratello minore contro i compagni di gioco prepotenti. Alcune persone mostrarono di essere positivamente machiavelliche nel saper manipolare le proprie emozioni: si pensi, ad esempio, ai riscossori di crediti che lavoravano intenzionalmente sul proprio stato d'animo cercando di portarlo alla collera, in modo di essere il piÙ duri possibili con i debitori (3). Ma a parte questo alimentare a bella posta emozioni spiacevoli - peraltro un fenomeno alquanto raro - quasi tutti gli interrogati si lamentavano di essere alla mercé dei propri stati d'animo. Le diverse strategie adottate per liberarsi delle emozioni negative erano decisamente varie.

- Anatomia della collera.

Immaginate che, mentre state percorrendo la superstrada, un'altra auto vi tagli pericolosamente la strada a distanza di pochi metri. Supponiamo che il vostro pensiero immediato sia “Brutto figlio di puttana!”. Ai fini dell'evoluzione - della traiettoria - della vostra collera, È molto importante sapere se esso sia poi seguito da altri pensieri di risentimento e vendetta. “Avrebbe potuto venirmi addosso! Quel bastardo - non gliela farÃ’ passare liscia!” Mentre stringete la presa sul volante - che in questo momento È una sorta di surrogato della gola di quel tale - le nocche delle mani vi diventano bianche. Il vostro corpo È pronto a combattere - certo non si appresta alla fuga - e restate lÃŒ tremanti, con la fronte imperlata di sudore, il cuore che batte forte e i muscoli del volto contratti in una smorfia. Vorreste ucciderlo, quel tizio. Immaginate ora che, avendo evitato per miracolo la collisione con lui, abbiate rallentato l'andatura e che proprio in quel momento un'auto dietro di voi si metta a strombazzare: sareste sicuramente pronti ad esplodere di collera anche contro questo secondo automobilista. Meccanismi di questo tipo sono l'essenza dell'ipertensione, della guida spericolata e perfino delle sparatorie sulle strade.

Confrontiamo la sequenza appena descritta, nella quale la collera va gradualmente montando, con un atteggiamento mentale piÙ indulgente nei confronti dell'automobilista che vi ha tagliato la strada: “PuÃ’ darsi che non mi abbia visto, o che avesse qualche buona ragione per guidare in modo cosÃŒ spericolato, forse stava portando qualcuno in ospedale”. Questo atteggiamento possibilista mitiga la collera con la compassione, o per lo meno con una certa apertura mentale, e questo le impedisce di aumentare ulteriormente diventando violenta. Aristotele ammoniva affinché la collera fosse sempre misurata e appropriata: il problema, infatti, sta nel fatto che essa molto spesso sfugge al nostro controllo. Benjamin Franklin lo disse molto bene: “La collera non È mai senza ragione, ma raramente ne ha una buona”.

Ci sono, naturalmente, diversi tipi di collera. Probabilmente, l'amigdala È una delle fonti principali di quel tipo di rabbia improvvisa che proviamo nei confronti dell'automobilista la cui guida imprudente ha messo a repentaglio la nostra sicurezza. L'altro componente del circuito emozionale, la neocorteccia, molto probabilmente fomenta invece una collera piÙ calcolata, ad esempio il desiderio di vendetta a sangue freddo o il senso di offesa di fronte alla slealtÀ o all'ingiustizia. Questo tipo di collera, piÙ razionale, È quella che con maggiori probabilitÀ, per usare le parole di Franklin, ha, o sembra avere, “buone ragioni”.

Di tutti gli stati d'animo che la gente desidera evitare, la collera sembra essere il piÙ ostinato; Tice ha scoperto che È quello piÙ difficile da controllare. In effetti, fra tutte le emozioni negative, la collera È la piÙ seduttiva; l'ipocrita monologo interiore che le fa da propellente, satura la mente sommergendola con le argomentazioni piÙ convincenti per indurci a dare sfogo all'impulso. A differenza della tristezza, la collera È energizzante e a volte perfino tonificante; il suo potere seduttivo e persuasivo puÃ’ di per se stesso spiegare come mai, su di essa, persistano idee tanto comuni: mi riferisco alla convinzione che la collera sia incontrollabile o che, comunque, non dovrebbe essere controllata, e che la soluzione migliore sia quella di sfogarla in una sorta di “catarsi”. Una concezione opposta, sorta forse per reazione al quadro cupo offerto da queste altre due, sostiene la possibilitÀ di prevenire completamente questo sentimento. Ma un'attenta lettura dei risultati ottenuti dalla ricerca indica che tutti questi atteggiamenti, peraltro molto comuni, se non sono miti veri e propri, sono comunque frutto di malintesi (4).

La sequenza di pensieri risentiti che alimentano la collera È anche, potenzialmente, un efficace meccanismo per disinnescarla, in primo luogo facendo vacillare le convinzioni che la fomentano. Quanto piÙ a lungo rimuginiamo su ciÃ’ che ci ha fatto andare su tutte le furie, tanto piÙ numerose sono le “buone ragioni” e le giustificazioni che riusciamo a inventare per giustificare la nostra collera. Le riflessioni cupe non fanno che attizzare il fuoco interiore: per gettarvi sopra dell'acqua, invece, occorre considerare le cose da una prospettiva diversa. Tice constatÃ’ che uno dei metodi piÙ potenti per sedare la collera era quello di reinquadrare la situazione in termini piÙ positivi.

L'“ONDA” DELLA RABBIA.

Questa constatazione ben si accorda con le conclusioni alle quali È giunto Dolf Zillmann, uno psicologo della Alabama University, che nel corso di una lunga serie di accurati esperimenti ha compiuto misure precise della collera e delle sue espressioni piÙ violente (5). Date le radici fisiologiche di questa emozione, che affondano nella reazione di “combattimento o fuga”, la scoperta di Zillmann, secondo la quale uno dei suoi fattori scatenanti universali sarebbe la sensazione di trovarsi in pericolo, non ci sorprende. Il segnale di pericolo puÃ’ venire non solo da una vera e propria minaccia fisica, ma anche, anzi piÙ spesso, da una minaccia simbolica all'autostima o alla dignitÀ della persona, ad esempio quando essa È trattata in modo ingiusto o sgarbato, insultata o umiliata o, ancora, quando vede frustrati i suoi tentativi di raggiungere uno scopo importante. Questa percezione di pericolo È il fattore innescante che scatena una tempesta nel sistema limbico, producendo un duplice effetto sul cervello. Parte di tale tempesta si traduce nel rilascio delle catecolamine, che inducono un'onda rapida ed episodica di energia; come dice Zillmann, quel tanto che basta per “una singola, energica, azione di combattimento o fuga”. Questa tempesta di energia dura qualche minuto, preparando l'organismo a un buon combattimento o a una fuga veloce, a seconda del modo in cui il cervello emozionale giudica la situazione contingente.

Nel frattempo, la seconda reazione, guidata dall'amigdala e mediata dalle ghiandole surrenali, crea una condizione tonica di fondo che predispone all'azione e che dura molto piÙ a lungo della tempesta di energia legata al rilascio delle catecolamine. Questo eccitamento corticosurrenale generalizzato puÒ durare per ore e anche per giorni, con l'effetto di mantenere il cervello emozionale in uno stato di particolare attivazione e diventando cosÌ la base sulla quale È possibile innescare molto velocemente eventuali reazioni successive. In generale, questa condizione di innesco creata dall'attivazione corticosurrenale spiega come mai individui giÀ provocati o irritati siano tanto inclini alla collera. Gli stress - di qualunque tipo essi siano - creano uno stato generale di attivazione corticosurrenale, abbassando cosÌ la soglia necessaria per innescare la collera. Ad esempio, un individuo che abbia avuto una giornata molto dura sul lavoro È particolarmente soggetto, una volta tornato a casa, ad andare su tutte le furie per qualcosa che in altre circostanze non arriverebbe a scatenare una simile reazione - come i bambini che fanno troppo rumore o mettono la casa a soqquadro.

Zillmann arrivÒ a comprendere questi meccanismi della collera grazie ad accurate sperimentazioni. In uno dei suoi studi, ad esempio, egli si era precedentemente accordato con un assistente, il quale avrebbe dovuto provocare i partecipanti all'esperimento - tutti volontari, di entrambi i sessi - rivolgendo loro commenti sprezzanti. In seguito i volontari guardavano un film che poteva essere piacevole oppure tale da turbarli. Si dava poi loro la possibilitÀ di vendicarsi dell'assistente villano, dando una valutazione su di lui che - stando a quanto si faceva loro credere - sarebbe stata usata per decidere se licenziarlo o meno. L'intensitÀ del loro comportamento vendicativo era direttamente proporzionale al grado di attivazione indotto dal film che avevano appena visto; dopo il film spiacevole i volontari erano molto piÙ risentiti ed esprimevano valutazioni piÙ severe.

LA COLLERA SI AUTOALIMENTA.

Gli studi di Zillmann sembrerebbero spiegare la dinamica di un tipico dramma familiare al quale mi capitÃ’ di assistere un giorno mentre facevo la spesa. Nei corridoi del supermercato risuonava la voce di una giovane madre che si rivolgeva con tono enfatico e misurato al figlio di circa tre anni: “Rimettila a posto!”.

“Ma la 'voglio'!” piagnucolÃ’ il piccolo, stringendo ancora piÙ forte una confezione di cereali delle Tartarughe Ninja.

“Rimettila a posto!” insistette la madre, stavolta alzando la voce, mentre la collera prendeva il sopravvento.

In quel momento, la bambina piÙ piccola, seduta sul seggiolino del carrello, fece cadere il vasetto di gelatina che stava succhiando. Quando il barattolo si frantumÃ’ sul pavimento la madre esplose “Adesso basta!” e, come una furia, diede uno scappellotto alla bambina piÙ piccola, strappÃ’ di mano all'altro la scatola dei cereali e la sbatté sullo scaffale piÙ vicino; poi tirÃ’ su il figlio tenendolo per la vita e fece di corsa tutto il corridoio con il carrello che sbandava pericolosamente di fronte a lei, la bambina piÙ piccola che piangeva e l'altro che agitando le gambe protestava “Mettimi 'giÙ', mettimi 'giÙ'!”.

Zillmann ha scoperto che quando l'organismo si trova giÀ in uno stato di tensione, com'era appunto il caso della madre dei due bambini, e qualcosa interviene a scatenare uno di quelli che abbiamo chiamato “sequestri” neurali, l'emozione successiva - poco importa se si tratta di collera o di angoscia - È particolarmente intensa. Questa dinamica È all'opera quando un individuo si infuria. Zillmann vede l''escalation' della collera come “una sequenza di provocazioni, ciascuna delle quali innesca una reazione eccitatoria che si dissipa lentamente”. In tale sequenza, ogni pensiero - o percezione - successivo, tale da innescare la collera, diventa una sorta di micro-fattore scatenante che stimola il rilascio delle catecolamine controllato dall'amigdala, e il cui effetto va ad aggiungersi all'ondata di ormoni prodotta dagli stimoli precedenti. Il secondo pensiero emerge prima che il primo sia svanito; il terzo si aggiunge ai primi due, e cosÃŒ via; ogni onda cavalca la scia di quelle precedenti, aumentando rapidamente il livello di attivazione fisiologica dell'organismo. Un pensiero che insorga in un punto intermedio di questa catena scatena una collera di gran lunga piÙ intensa di uno che si presenti al suo inizio. In altre parole, la collera si autoalimenta; il cervello emozionale si riscalda, e l'ira, non piÙ frenata dalla ragione, sfocia facilmente nella violenza.

A questo punto le persone diventano implacabili e non sentono piÙ ragioni; tutti i loro pensieri ruotano attorno a idee di vendetta e rappresaglia, incuranti delle possibili conseguenze. Secondo Zillmann, questo elevato livello di eccitazione “alimenta quell'illusione di potere e invulnerabilitÀ che puÃ’ ispirare e facilitare l'aggressivitÀ”; infatti, “venendogli meno la guida cognitiva” l'individuo adirato torna a far ricorso alle risposte piÙ primitive. Gli impulsi provenienti dal sistema limbico aumentano e i piÙ crudi esempi di brutalitÀ assurgono al ruolo di guide.

COME UN BALSAMO.

Data questa analisi della collera, Zillmann vede due possibili modalitÀ di intervento. Un primo modo per disinnescarla È quello di fermarsi sui pensieri che la alimentano mettendoli in discussione; infatti, lo scoppio d'ira iniziale viene incoraggiato e confermato dal nostro primo, originale giudizio su un'interazione, mentre le successive rivalutazioni hanno l'effetto di spegnere le fiamme. Anche la tempestivitÀ dell'intervento conta; quanto piÙ presto si agisce sul ciclo della collera, tanto piÙ l'intervento si rivelerÀ efficace. In effetti, si puÃ’ ottenere una completa sedazione purché l'informazione atta a mitigare la collera arrivi prima che si agisca dietro il suo potente impulso.

Il fatto che una migliore comprensione della situazione abbia il potere di sgonfiare la collera emerge chiaramente da un altro esperimento di Zillmann, nel quale un assistente villano (anche stavolta d'accordo con lui) insultava e provocava i volontari che stavano pedalando su delle biciclette da camera. Quando si diede ai volontari la possibilitÀ di vendicarsi della villania dell'assistente (anche in questo caso dandogli una valutazione negativa, nella convinzione che sarebbe stata usata per vagliare la sua candidatura per un lavoro), essi lo fecero con grande soddisfazione. Ma in una variante dell'esperimento un'altra assistente entrava dopo che i volontari erano stati provocati, proprio prima che fosse loro data la possibilitÀ di vendicarsi, e avvertiva il suo collega sgarbato che era atteso nell'atrio al telefono. Uscendo, egli fece commenti sprezzanti anche su di lei. Ma la donna non se la prese, e dopo che quello fu uscito, spiegÃ’ che era sottoposto a pressioni tremende, fuori di sé per i suoi imminenti esami orali di diploma. Dopo di ciÃ’, i volontari adirati, avendo la possibilitÀ di vendicarsi, decisero di non farlo; piuttosto, espressero compassione per l'assistente e per il suo stato.

Queste informazioni, che hanno un effetto calmante, consentono una rivalutazione degli eventi che altrimenti provocano la collera. Tuttavia, esistono condizioni specifiche per cogliere l'opportunitÀ di questa 'de-escalation'. Zillmann ha constatato che tali informazioni hanno effetto nel caso in cui la collera sia di livello moderato; quando l'emozione È assurta al livello di furia, l'arrivo di queste informazioni non fa effetto a causa di quella che egli chiama “incapacitÀ cognitiva” - in altre parole, in tali condizioni l'individuo non È piÙ in grado di pensare lucidamente. Quando È giÀ furioso, egli liquida le informazioni che dovrebbero attenuare la sua collera con un “Questo È davvero troppo!” oppure, come spiega eufemisticamente Zillmann, con le “piÙ tremende volgaritÀ messegli a disposizione dalla lingua inglese”.

L'INCENDIO SI SPEGNE.

'Una volta, quando avevo circa tredici anni, in un accesso di collera, uscii di casa gridando che non vi avrei piÙ fatto ritorno. Era una bellissima giornata d'estate e camminai a lungo per viali incantevoli finché, gradualmente, la tranquillitÀ e la bellezza che mi circondavano ebbero su di me un effetto calmante e confortante, e dopo qualche ora tornai pentito e alquanto ammorbidito. Da allora, quando sono in collera, se appena posso, faccio sempre cosÃŒ, e trovo che sia la cura migliore'.

Questo È il racconto di un soggetto che partecipÒ a uno dei primissimi studi sulla collera, compiuto nel 1899 (6). Esso costituisce ancora un ottimo esempio del secondo sistema per disinnescare la collera: raffreddarsi fisiologicamente, aspettando che l'ondata di adrenalina si estingua, in un ambiente nel quale ci siano scarse probabilitÀ di imbattersi in altri fattori che possano stimolare l'ira. Nel corso di una lite, ad esempio, ciÒ significa allontanarsi per qualche tempo dagli altri. Durante il periodo di raffreddamento, l'individuo puÒ frenare la sequenza di pensieri ostili cercando di distrarsi. La distrazione, come ha constatato Zillmann, È un meccanismo molto potente per alterare gli stati d'animo, e questo per una ragione semplicissima: È difficile restare in collera quando stiamo passando dei momenti piacevoli. Lo stratagemma, ovviamente, sta nel raffreddare la collera fino al punto in cui si possano effettivamente 'passare' momenti piacevoli.

L'analisi di Zillmann sulle diverse modalitÀ in cui la collera cresce e diminuisce spiega molti dei risultati ottenuti da Diane Tice sulle strategie che gli individui affermano di usare per smorzare la collera. Una strategia relativamente efficace consiste nell'allontanarsi per starsene da soli mentre l'emozione va via via scemando. Molti uomini traducono questa strategia nell'uscire in macchina - un riscontro che impone una certa prudenza quando si guida (e che, come mi confessÃ’ Tice, la ispirÃ’ a guidare stando piÙ sulla difensiva). Forse un'alternativa piÙ sicura È quella di fare una lunga passeggiata; anche l'attivitÀ fisica contribuisce a dissipare la collera. Altrettanto utili possono essere le tecniche di rilassamento, come la respirazione profonda e il rilassamento muscolare, forse perché modificano la fisiologia dell'organismo facendola passare da uno stato di attivazione generale - caratteristico della collera - a uno stato di minore attivazione - e forse anche perché servono a distrarre da qualunque fattore possa innescare questa emozione. L'attivitÀ fisica funziona piÙ o meno per le stesse ragioni: dopo essere stato portato ad alti livelli di attivazione fisiologica durante lo sforzo fisico, l'organismo, una volta cessata l'attivitÀ, ritorna a un livello di attivazione inferiore.

Tuttavia, questo periodo di raffreddamento non funzionerÀ se sarÀ impiegato per seguire i pensieri che innescano la collera; ciascuno di quei pensieri È infatti di per se stesso un fattore scatenante minore che puÒ provocare altre reazioni a cascata. Nella sua inchiesta sulle strategie usate per controllare la collera, Tice ha constatato che le distrazioni in senso lato aiutano a calmare questa emozione; la televisione, il cinema, la lettura e altre attivitÀ simili interferiscono con i pensieri di risentimento che alimentano la collera nelle sue forme piÙ violente. Tuttavia, Tice scoprÌ che il lasciarsi andare concedendosi delle gratificazioni - ad esempio uscire a fare acquisti e mangiare leccornie - non ha molto effetto; È troppo facile perseverare nella sequenza di pensieri negativi mentre si percorre in lungo e in largo un centro commerciale o si divora una fetta di torta al cioccolato.

A queste strategie possiamo aggiungere quelle sviluppate da Redford Williams, uno psichiatra della Duke University che cercava di aiutare individui abitualmente ostili ad alto rischio di cardiopatie, a controllare la propria irritabilitÀ (7). Una delle sue raccomandazioni consiste nell'usare l'autoconsapevolezza per bloccare i pensieri cinici e ostili non appena essi si presentano, e nel metterli per iscritto. Una volta che i pensieri negativi vengono fissati in questo modo, È possibile metterli in discussione e rivalutarli; come constatÒ lo stesso Zillmann, perÒ, questo approccio funziona meglio se si interviene prima che la collera si sia tramutata in vera e propria furia.

IL MITO DELLO SFOGO.

Mi trovavo a New York ed ero appena salito su un taxi quando un giovane che stava attraversando la strada si fermÃ’ davanti a noi aspettando di poter passare. L'autista, impaziente di partire, suonÃ’ il clacson, facendo cenno al giovane di togliersi dalla strada. Per tutta risposta ricevette uno sguardo minaccioso e un gesto osceno.

“Brutto figlio di puttana!” gridÃ’ l'autista, e fece uno scatto in avanti premendo nello stesso tempo sull'acceleratore e il freno. Di fronte a questa minaccia letale, il giovane si spostÃ’ a mala pena di lato, con fare torvo, e colpÃŒ il taxi con un pugno mentre quello si muoveva a passo d'uomo nel traffico. L'autista replicÃ’ vomitandogli addosso una spaventosa litania di imprecazioni.

Mentre ci muovevamo, l'uomo, ancora visibilmente agitato, mi disse: “Non puoi farti prendere a pesci in faccia da chiunque. Bisogna pur reagire - almeno ci si sente meglio!”.

La catarsi, ossia questo dare sfogo alla rabbia - viene a volte magnificata come un sistema per controllare l'emozione. La teoria, molto diffusa, sostiene che dopo “ci si sente meglio”. Tuttavia, stando ai risultati di Zillmann, c'È un argomento anche contro la strategia dello sfogo. Esso È stato avanzato fin dagli anni Cinquanta, quando gli psicologi cominciarono a saggiare sperimentalmente gli effetti della catarsi e, di volta in volta, scoprirono che dare sfogo alla collera contribuiva poco o nulla a dissiparla (anche se, a causa della natura seduttiva di questa emozione, poteva dare una sensazione di soddisfazione) (8). In alcune condizioni specifiche, abbandonarsi a una collera violenta puÃ’ essere una strategia efficace: ad esempio, quando essa viene espressa direttamente alla persona che ne È il bersaglio, o quando ripristina un senso di autocontrollo o raddrizza un'ingiustizia, oppure ancora quando infligge all'altro una “giusta punizione” impedendogli di fare qualcosa di male senza perÃ’ assumere i contorni della rappresaglia. Tuttavia, poiché la collera ha una natura incendiaria, questo puÃ’ essere piÙ facile a dirsi che a farsi (9).

Tice scoprÃŒ che il dare libero sfogo alla collera È uno dei modi peggiori per raffreddarla: di solito gli scoppi di collera alimentano l'attivazione del cervello emozionale, lasciando l'individuo ancora piÙ adirato, di certo non piÙ calmo. Tice constatÃ’ che quando la gente le raccontava di avere espresso tutta la propria collera alla persona che l'aveva provocata, l'effetto netto era stato quello di prolungare lo stato d'animo negativo invece di porgli fine. Una tattica di gran lunga piÙ efficace era quella in primo luogo di raffreddarsi, e solo dopo, in modo piÙ costruttivo e sicuro di sé, confrontarsi con l'altro per ricomporre la disputa. Io stesso sentii Chogyam Trungpa, un maestro tibetano, rispondere a chi gli aveva chiesto quale fosse il modo migliore di controllare la collera dicendo: “Non sopprimetela. Ma non agite mai sotto il suo impulso.”

- Strategie per lenire l'ansia.

'Oh, no! La marmitta fa un rumore che non mi piace E se dovessi portarla dal meccanico? Accidenti, non posso permettermelo Dovrei ritirare dei soldi dai risparmi per il college di Jamie E se non ce la facessi a pagargli gli studi? Quel giudizio negativo la scorsa settimana, a scuola e se la sua media fosse troppo bassa e non riuscisse a entrare al college? Questo maledetto rumore della marmitta!'

E cosÌ la mente agitata precipita in una spirale senza fine da melodramma di bassa lega, nella quale una serie di preoccupazioni porta alla successiva, senza tregua. Il passo citato sopra È stato riportato da Lizabeth Roemer e Thomas Borkovec, entrambi psicologi della Pennsylvania State University, la cui ricerca sulla preoccupazione - alla base di tutti i tipi di ansia - ha elevato questo argomento - prima ritenuto appannaggio dei nevrotici - al rango di interesse scientifico (10).

Naturalmente, finché la preoccupazione ha un ruolo positivo, tutto va bene; meditando su un problema - ossia impiegando un tipo di riflessione costruttiva simile alla preoccupazione - lo si puÃ’ risolvere. In effetti, la reazione fisiologica che sta alla base della preoccupazione È la vigilanza nei confronti del potenziale pericolo - una reazione che senza dubbio È stata essenziale ai fini della sopravvivenza nel corso dell'evoluzione. Quando la paura mette il cervello emozionale in uno stato di agitazione, parte dell'ansia che ne risulta serve a fissare l'attenzione sulla minaccia contingente, costringendo la mente a escogitare un modo per controllarla, ignorando temporaneamente qualunque altra cosa. La preoccupazione È, in un certo senso, un ripercorrere mentalmente gli eventi, in modo da isolare ciÃ’ che potrebbe andare male e decidere come affrontare il problema; la funzione della preoccupazione in quanto reazione È quella di escogitare soluzioni positive nelle situazioni pericolose della vita, anticipandole prima che si presentino.

Il problema sorge nel caso in cui le preoccupazioni diventino croniche e ripetitive - nel caso, insomma, in cui continuino a riciclarsi all'infinito, senza mai far intravedere una soluzione positiva. Un'analisi attenta della preoccupazione cronica mostra che essa ha tutti gli attributi di un “sequestro” emozionale di bassa intensitÀ: le preoccupazioni sembrano spuntare dal nulla, sono incontrollabili, generano un costante ribollire d'ansia, sono inaccessibili alla ragione e costringono l'individuo a considerare il problema da un'unica, inflessibile, prospettiva. Quando questo ciclo di preoccupazione persiste e si intensifica, esso sfuma in veri e propri “sequestri” emozionali, ossia nei disturbi ansiosi: fobie, ossessioni e compulsioni, attacchi di panico. In ciascuno di questi disturbi la preoccupazione assume una connotazione distinta: nel paziente fobico, le ansie si fissano sulla situazione oggetto della paura; in quello ossessivo, sulla necessitÀ di evitare una qualche calamitÀ temuta; nel caso degli attacchi di panico, infine, le preoccupazioni possono concentrarsi sulla paura di morire o sulla prospettiva stessa degli attacchi.

In tutte queste condizioni, il comune denominatore È rappresentato dal fatto che la preoccupazione finisce per sfuggire ad ogni controllo. Ad esempio, una donna che era in cura per un disturbo ossessivo-compulsivo, eseguiva una serie di rituali che occupavano gran parte delle sue ore di veglia: docce di quarantacinque minuti, diverse volte al giorno; lavaggio delle mani per cinque minuti, venti o piÙ volte al giorno. Non poteva sedersi se prima non aveva passato uno straccio imbevuto di alcol sul sedile per sterilizzarlo. Né avrebbe mai toccato un bambino o un animale - entrambi erano “troppo sporchi”. Tutte queste compulsioni scaturivano dalla sua paura morbosa dei germi; temeva costantemente che, rinunciando al suo continuo lavare e sterilizzare, si sarebbe ammalata e sarebbe morta (11).

Una donna in cura per un “disturbo ansioso generalizzato” - il termine psichiatrico per indicare una persona costantemente preoccupata - rispose come segue al terapeuta che le chiese di esprimere le proprie preoccupazioni a voce alta per un minuto:

'Forse non faccio bene a farlo. E' una cosa talmente artificiale che probabilmente non darÀ indicazioni sul problema reale, e noi È a quello che dobbiamo arrivare Perché se non arriviamo al problema reale, io non starÃ’ mai bene. E se non starÃ’ bene non sarÃ’ mai felice' (12).

In questa esibizione virtuosistica di preoccupazioni sulle preoccupazioni, la stessa richiesta di preoccuparsi per un minuto l'aveva indotta, nel giro di pochi secondi, a contemplare una catastrofe esistenziale: “Non sarÃ’ mai felice”. Di solito le preoccupazioni seguono questo schema; si tratta cioÈ di un racconto narrato a se stessi, nel quale si salta da una preoccupazione all'altra e che molto spesso comprende pensieri catastrofici e la visione di qualche terribile tragedia. Quasi sempre le preoccupazioni sono espresse parlando all'orecchio della mente, e non agli occhi - in parole, non in immagini -, un fatto, questo, che È significativo ai fini del controllo della preoccupazione.

Borkovec e colleghi cominciarono a studiare la preoccupazione 'per sé' mentre stavano cercando una cura per l'insonnia. Altri ricercatori avevano osservato che l'ansia si presenta in due forme: 'cognitiva' - ossia sotto forma di pensieri preoccupanti - e 'somatica' - con i classici sintomi, quali la sudorazione, l'aumento della frequenza cardiaca, la tensione muscolare. Nei pazienti sofferenti di insonnia, Borkovec constatÃ’ che il problema principale non era lo stato di attivazione somatica: a tenerli svegli erano invece i loro pensieri invadenti e importuni. Costoro erano preda di preoccupazioni croniche, e non riuscivano a smettere di preoccuparsi, indipendentemente da quanto sonno avessero. L'unica cosa che li aiutava a prender sonno era quella di distogliere la loro mente dalle preoccupazioni, facendoli concentrare sulle sensazioni prodotte con una tecnica di rilassamento. In breve, le preoccupazioni potevano essere bloccate se si riusciva ad allontanare da esse l'attenzione.

La maggior parte degli individui preoccupati tuttavia, non sembra ricorrere a questa strategia. La ragione, secondo Borkovec, ha a che fare con la parziale gratificazione offerta dalla preoccupazione, che produce un potente effetto di rinforzo sull'abitudine. C'È, a quanto sembra, qualcosa di positivo nelle preoccupazioni: esse sono un sistema per affrontare potenziali minacce, pericoli nei quali ci si potrebbe imbattere. La funzione della preoccupazione - quando essa serve al suo scopo - È quella di identificare mentalmente questi pericoli e di riflettere sulle strategie per affrontarli. Ma non sempre la preoccupazione esplica cosÌ bene la sua funzione. Di solito - soprattutto quando si tratta di preoccupazione cronica -, essa non fa emergere nuove soluzioni e nuove prospettive. Invece di escogitare soluzioni per questi potenziali problemi, coloro che sono cronicamente afflitti dalle preoccupazioni solitamente si limitano a rimuginare sul pericolo, immergendosi a capofitto nel terrore associato a tali pensieri, senza riuscire a liberarsene. Costoro si preoccupano per moltissime cose, la maggior parte delle quali, non ha di fatto alcuna probabilitÀ di verificarsi; nella vita, essi vedono il pericolo lÀ dove gli altri non lo scorgono affatto.

CiÃ’ nonostante, questi pazienti raccontarono a Borkovec che il preoccuparsi li aiutava, e che le loro preoccupazioni si autoperpetuavano in una spirale infinita di pensieri dominati dall'angoscia. Ma perché la preoccupazione tende a diventare quella che ha tutta l'aria di una vera e propria dipendenza mentale? Stranamente, come osserva Borkovec, l'abitudine di preoccuparsi si autorinforza, proprio come la tendenza alla superstizione. Poiché l'individuo si preoccupa per una serie di cose che hanno una bassissima probabilitÀ di verificarsi - una persona amata che muore in un incidente aereo, la possibilitÀ di fallire, e altre simili eventualitÀ - c'È qualcosa di magico intorno a queste preoccupazioni, almeno per il primitivo sistema limbico. Come un amuleto che scongiuri il presagio di un male, la tendenza psicologica È quella di attribuire alla preoccupazione il merito di allontanare il pericolo oggetto dell'ossessione.

PREOCCUPARSI - UN LAVORO COME UN ALTRO.

'Questa donna si era trasferita a Los Angeles dal Midwest, allettata da un lavoro presso un editore, che perÃ’ subito dopo fu assorbito da un altro, lasciandola disoccupata. Essendo passata alla libera professione come scrittrice, si scontrÃ’ con un mercato erratico, che a volte la sommergeva di lavoro, a volte non le consentiva di pagare l'affitto. Spesso doveva stare a contare le telefonate, e per la prima volta le capitÃ’ di rimanere senza copertura sanitaria - un fatto, questo, che la turbÃ’ molto: si scopriva a fare pensieri catastrofici sulla propria salute, sicura che ogni mal di testa fosse il sintomo di un tumore al cervello o immaginandosi coinvolta in un incidente stradale ogni volta che le capitava di dover prendere l'auto. Spesso si perdeva in un lungo fantasticare pullulante di preoccupazioni - un miscuglio di angosce. CiÃ’ nonostante, diceva di essere dipendente dalle proprie preoccupazioni quasi come da una droga'.

Borkovec scoprÌ un altro beneficio inaspettato delle preoccupazioni. Mentre l'individuo È immerso in esse, sembra non rendersi conto delle sensazioni soggettive di ansia che ne derivano - in particolare non fa caso alla tachicardia, alla sudorazione e all'agitazione - e con il protrarsi delle preoccupazioni, sembra effettivamente riuscire a sopprimere parte di quell'ansia - almeno stando a quanto si deduce dalla frequenza cardiaca. La sequenza È probabilmente la seguente: la persona incline alla preoccupazione percepisce qualcosa che evoca l'immagine di una minaccia o di un pericolo potenziale; quella catastrofe immaginaria a sua volta scatena un leggero attacco d'ansia. L'individuo sprofonda allora in una lunga serie di pensieri tormentosi, ciascuno dei quali introduce un altro motivo di preoccupazione; mentre l'attenzione continua a spostarsi lungo questa penosa sequenza, il fatto stesso di concentrarsi su tali pensieri allontana la mente dall'immagine catastrofica che ha scatenato l'ansia. Le immagini, ha scoperto Borkovec, innescano l'ansia fisiologica in modo molto piÙ potente dei pensieri; pertanto, l'immersione nelle preoccupazioni, che porta ad escludere le immagini catastrofiche, allevia in parte l'esperienza dell'ansia. E, in una certa misura, la preoccupazione viene anche rinforzata, come antidoto contro quella stessa ansia che ha suscitato.

Tuttavia, le preoccupazioni croniche sono anche autofrustranti nel momento in cui assumono la forma di idee rigidamente stereotipate e non di atti creativi che avvicinino effettivamente alla soluzione del problema. Questa rigiditÀ È palese non solo nel contenuto della preoccupazione, la quale non fa che ripetere le stesse idee all'infinito. Anche a livello neurologico, sembra esserci una certa rigiditÀ corticale, un deficit nella capacitÀ del cervello emozionale di rispondere con flessibilitÀ al mutare delle circostanze. In breve, la preoccupazione cronica funziona positivamente solo per certi versi: allevia un poco l'ansia, questo È vero, ma senza mai risolvere il problema.

Se c'È una cosa che i pazienti cronicamente in preda alla preoccupazione non possono fare È quella di seguire i consigli che spesso gli vengono impartiti: “Smettila di preoccuparti” (o, peggio ancora, “Non preoccuparti, cerca di essere allegro”). Dal momento che le preoccupazioni croniche sembrano essere episodi di leggera intensitÀ innescati a livello dell'amigdala, si presentano spontaneamente. E per la loro stessa natura, una volta comparse nella mente, vi persistono. Dopo molte sperimentazioni, perÃ’, Borkovec scoprÃŒ alcune semplici misure che possono aiutare a controllare l'inclinazione alla preoccupazione anche quando essa si È instaurata da lunghissimo tempo. Il primo passo È l'autoconsapevolezza, sta cioÈ nel riconoscere quanto prima gli episodi fonte di preoccupazione; l'ideale sarebbe di riuscire a coglierli non appena l'immagine catastrofica scatena il ciclo preoccupazione-ansia, o al massimo, subito dopo. Borkovec insegna questo approccio in primo luogo addestrando gli individui a monitorare gli stimoli che inducono l'ansia, e soprattutto a identificare le situazioni e il flusso di pensieri e immagini che inducono la preoccupazione e le sensazioni fisiologiche associate all'ansia. Con la pratica, l'individuo riesce a identificare le preoccupazioni a uno stadio molto precoce. Egli impara anche le tecniche di rilassamento da applicare nel momento in cui avverte l'insorgere della preoccupazione e si esercita quotidianamente in modo da essere in grado di servirsene all'istante, quando ne avrÀ bisogno.

Le tecniche di rilassamento, perÃ’, non bastano da sé. Questi pazienti devono anche mettere attivamente in discussione i pensieri che generano preoccupazione, altrimenti la spirale dell'ansia continuerÀ a ripresentarsi. PerciÃ’, il passo successivo È quello di assumere un atteggiamento critico verso i loro assunti: È molto probabile che l'evento temuto si verifichi? E' necessariamente vero che esiste solo una (o nessuna) alternativa al lasciare che esso accada? Si possono prendere delle misure efficaci al riguardo? E' veramente utile indugiare all'infinito in questi stessi pensieri ansiosi?

Questa combinazione di attenzione sui propri pensieri e di sano scetticismo agirebbe, presumibilmente, come un freno sull'attivazione neurale alla base di un leggero stato d'ansia. Probabilmente, l'induzione attiva di tali pensieri puÃ’ attivare il circuito che inibisce l'innesco della preoccupazione da parte del sistema limbico; allo stesso tempo, l'induzione attiva di uno stato di rilassamento contrasta i segnali ansiogeni che il cervello emozionale sta inviando a tutto l'organismo.

Borkovec sottolinea che queste strategie innescano un'attivitÀ mentale incompatibile con la preoccupazione. Quando si permette che un pensiero molesto si ripeta all'infinito senza metterlo in discussione, a poco a poco il suo potere persuasivo aumenta; quando invece lo si mette in discussione, contemplando tutta una gamma di punti di vista ugualmente plausibili, ci si vieta di considerarlo vero e di accettarlo ingenuamente. Questo metodo si È rivelato utile contro la preoccupazione cronica perfino in alcune persone in cui il disturbo era abbastanza serio da richiedere una diagnosi psichiatrica.

D'altro canto, nel caso di coloro le cui preoccupazioni sono talmente gravi da sfociare nella fobia, nel disturbo ossessivo-compulsivo o negli attacchi di panico, puÒ essere prudente - effettivamente un segno di autoconsapevolezza - ricorrere all'uso di farmaci per spezzare il circolo vizioso. Tuttavia, una volta interrotta la terapia, per diminuire la probabilitÀ che i disturbi ansiosi si ripresentino sarÀ necessario riaddestrare il circuito emozionale con la terapia (13).

- Controllare la malinconia.

La tristezza È lo stato d'animo per liberarsi del quale È generalmente richiesto lo sforzo maggiore; Diane Tice riscontrÒ che le persone dimostrano grande inventiva quando cercano di eludere la malinconia. Naturalmente non È opportuno sfuggire a qualsiasi tipo di tristezza; anch'essa, come ogni altro stato d'animo, ha i suoi aspetti positivi: mette un freno al nostro interesse per le distrazioni e i piaceri, fissa l'attenzione su ciÒ che abbiamo perduto, e - almeno per il momento - ci sottrae l'energia per intraprendere nuove imprese. In breve, essa instaura una sorta di ritiro riflessivo dalle occupazioni frenetiche della vita, lasciandoci in uno stato di sospensione che ci consente di elaborare il lutto per la perdita, di meditare sul suo significato, di adeguarci psicologicamente ad essa e, infine, di fare nuovi progetti che ci consentiranno di sopravvivere.

Il senso di privazione È utile; la depressione completa non lo È. William Styron ha descritto in modo eloquente “le molte, terribili, manifestazioni della malattia”: fra di esse l'odio per se stessi, un senso di inutilitÀ, una “fredda mancanza di gioia” mentre “cresce dentro di me la tristezza, un senso di terrore e alienazione e, soprattutto, un'ansia soffocante” (14). E poi c'erano i sintomi intellettuali: “confusione, incapacitÀ di concentrarsi e vuoti di memoria”; in uno stadio successivo, poi, la sua mente era “completamente dominata da distorsioni anarchiche” mentre aumentava “la sensazione che i processi di pensiero fossero inghiottiti da una marea tossica e indescrivibile che cancellava ogni risposta piacevole nei confronti del mondo vivente”. C'erano anche i tipici effetti fisici: la sonnolenza, la sensazione di essere indifferente come uno zombie, “una specie di intorpidimento, un infiacchimento, ma soprattutto una strana fragilitÀ”, insieme a una “nervosa irrequietezza”. E poi c'era la perdita del piacere: “Il cibo, come qualunque altra cosa rientrasse nella sfera dei sensi, era assolutamente privo di sapore”. Infine, c'era il venir meno della speranza quando “la grigia pioggia dell'orrore” portava con sé una disperazione talmente palpabile da sembrare un dolore fisico - un dolore cosÃŒ insopportabile che il suicidio pareva davvero una soluzione.

In questa depressione maggiore, la vita È come paralizzata; nulla di nuovo vi puÒ emergere. Sono gli stessi sintomi della depressione a farci presagire una sospensione della vita. Per Styron, farmaci e terapie non furono di alcun aiuto; solo il passare del tempo e il rifugio offerto da una clinica riuscirono infine a dissipare il suo profondo sconforto. Ma per la maggior parte degli individui, soprattutto nei casi meno gravi, la psicoterapia puÒ rivelarsi utile, come pure i trattamenti farmacologici - ad esempio a base di fluoxetina, ma ci sono numerosi altri composti che possono offrire un certo aiuto, soprattutto nel caso della depressione maggiore.

A questo punto intendo perÃ’ attirare l'attenzione sulla tristezza, che È di gran lunga piÙ comune e che, in corrispondenza del limite superiore, sconfina in quella che in gergo tecnico È la “depressione subclinica” - in altre parole, la comune malinconia. Si tratta di un tipo di sconforto che l'individuo riesce a gestire da sé, purché abbia le risorse interiori per farlo. Purtroppo, alcune delle strategie alle quali si ricorre piÙ spesso per vincere questo stato d'animo possono fallire, lasciando l'individuo in condizioni peggiori di prima. Una di tali strategie consiste semplicemente nello starsene da soli - una scelta spesso invitante per chi si sente giÙ di morale; altrettanto spesso perÃ’, essa non fa altro che aggiungere alla tristezza un senso di solitudine e di isolamento. Questo puÃ’ in parte spiegare come mai Tice constatÃ’ che la tattica piÙ diffusa per combattere la depressione era la socializzazione: andar fuori a mangiare, a vedere una partita di baseball o al cinema - insomma - fare qualcosa con gli amici o i familiari. Questa strategia funziona bene quando il suo effetto netto È quello di liberare la mente dell'individuo dalla sua tristezza. Ma se egli si serve dell'occasione di socializzare solo per rimuginare ulteriormente su ciÃ’ che ha provocato lo scoramento, questa strategia non farÀ che prolungare il suo stato.

In effetti, il grado in cui l'individuo continua a rimuginare sulla propria depressione È uno dei principali fattori che determinano se il suo stato persisterÀ o andrÀ via via dissipandosi. Il continuo preoccuparsi su ciÃ’ che ci deprime, non fa che rendere la depressione ancora piÙ intensa e prolungata. Nell'individuo depresso, la preoccupazione puÃ’ assumere forme diverse, tutte concentrate su alcuni aspetti della depressione stessa - su quanto ci sentiamo stanchi, sulle nostre poche energie e la nostra scarsa motivazione o, ancora, sul poco lavoro che riusciamo a fare. Solitamente nessuna di queste riflessioni È accompagnata da un'azione concreta volta a risolvere il problema. Secondo Susan Nolen-Hoeksma, psicologa di Stanford, che ha studiato il penoso rimuginare tipico dei pazienti depressi, altre preoccupazioni comuni sono “l'isolarsi, e pensare a quanto ci si sente male; temere che il coniuge possa rifiutarci perché siamo depressi; e continuare a chiedersi se si passerÀ in bianco anche la prossima notte” (15).

A volte costoro giustificano questo tipo di meditazione dicendo che stanno cercando di “capire meglio se stessi”: in realtÀ, stanno innescando sentimenti di tristezza senza far nulla che possa davvero migliorare il loro stato d'animo. Nell'ambito della terapia, la riflessione profonda sulle cause della propria depressione puÃ’ essere utilissima, purché porti a un buon livello di comprensione di se stessi, o ad azioni che modifichino le cause della depressione. Ma un'immersione passiva nella tristezza non fa che peggiorare la situazione. Queste penose riflessioni possono infatti anche creare condizioni ancora piÙ deprimenti. Nolen-Hoeksma porta l'esempio di una donna depressa, che lavorava come rappresentante e passava ore ed ore a preoccuparsi del suo stato al punto da non andare piÙ a visitare i clienti. Le sue vendite pertanto diminuirono, e questo generÃ’ in lei una sensazione di fallimento alimentando cosÃŒ la sua depressione. Ma se la donna avesse cercato di reagire provando a distrarsi, avrebbe potuto benissimo immergersi nella sua attivitÀ usandola per allontanare la tristezza dalla propria mente. CosÃŒ facendo, sarebbe stato meno probabile assistere alla diminuzione delle vendite, e l'esperienza della conclusione di qualche buon affare avrebbe potuto rinforzare la sua sicurezza in se stessa, attenuando in qualche modo la depressione.

Secondo quando ha potuto constatare Nolen-Hoeksma, quando sono depresse, le donne sono molto piÙ inclini al rimuginare degli uomini. Nolen-Hoeksma ritiene che questo possa spiegare almeno in parte il fatto che la depressione viene diagnosticata nelle donne con una frequenza doppia rispetto agli uomini. Naturalmente, entrano in gioco anche altri fattori, ad esempio il fatto che le donne sono piÙ disposte a comunicare il proprio disagio psicologico; oppure il fatto che nella loro vita ci siano piÙ motivi per essere depresse. Gli uomini, dal canto loro, tendono ad affogare la propria depressione nell'alcol, e vanno soggetti all'etilismo in misura doppia rispetto alle donne.

In alcuni studi, la terapia cognitiva mirata a modificare questi penosi schemi di pensiero si È dimostrata utile come il trattamento farmacologico nella cura della depressione clinica leggera, e anche migliore di quello nell'evitare le recidive. In questa vera e propria battaglia, le strategie dimostratesi particolarmente efficaci sono due (16). Una È quella di imparare a mettere in discussione i pensieri oggetto delle ruminazioni - a mettere in dubbio la loro validitÀ e a escogitare alternative piÙ positive. L'altra, È quella di programmare ad hoc eventi piacevoli che ci distraggano.

Uno dei motivi che spiegano l'utilitÀ della distrazione sta nel fatto che i pensieri del depresso sono automatici, e si insinuano nella sua mente senza essere stati in qualche modo sollecitati. Anche quando i pazienti depressi cercano di sopprimere i propri pensieri deprimenti, spesso non riescono a trovare alternative; una volta cominciata, l'ondata di questi pensieri ha un potente effetto magnetico sulle associazioni mentali. Ad esempio, quando le persone depresse sono invitate a formulare frasi di cinque parole, riescono molto meglio a comporre messaggi deprimenti (“Il futuro sembra molto triste”) piuttosto che ottimistici (“Il futuro sembra molto luminoso”) (17).

La tendenza della depressione ad autoperpetuarsi influenza anche il tipo di distrazioni scelte dalle persone. Alcuni pazienti depressi, invitati a scegliere in una lista diversi modi - alcuni allegri, altri molto meno - per distrarsi da qualcosa di triste (ad esempio il funerale di un amico) scelsero con maggior frequenza le attivitÀ malinconiche. Richard Wenzlaff, lo psicologo della Texas University che condusse questi studi, È arrivato alla conclusione che gli individui giÀ depressi dovrebbero compiere uno sforzo particolare per fissare la propria attenzione su qualcosa di decisamente allegro, stando bene attenti a non scegliere inavvertitamente attivitÀ che possano trascinare il loro stato d'animo ancora piÙ in basso - ad esempio, un film strappalacrime o un romanzo tragico.

STRATEGIE PER TIRARSI SU.

'Immaginate di essere alla guida della vostra auto su una strada che non conoscete, ripida e piena di curve, immersa nella nebbia. Improvvisamente un veicolo sbuca da una strada laterale a pochi metri da voi - troppo pochi perché riusciate a frenare in tempo. Il vostro piede È sul freno, premuto disperatamente al massimo, e l'auto inchioda, strisciando contro la fiancata dell'altra vettura. Proprio prima che le lamiere si incastrino e i vetri esplodano andando in frantumi, vi rendete conto che l'altro veicolo È pieno di bambini dev'essere il piccolo pullman che li porta all'asilo Poi, nell'improvviso silenzio che segue la collisione, si leva un coro di pianti. Correte a vedere, e vi accorgete che uno dei bambini giace a terra immobile. Siete travolti dal rimorso e dalla disperazione'

Wenzlaff usÒ nei suoi esperimenti scenari laceranti come questo per sconvolgere i volontari che dovevano poi cercare di levarsi dalla mente la scena mentre, per nove minuti, scrivevano appunti sul proprio flusso di pensieri. Ogni volta che, mentre stavano scrivendo, l'immagine della scena tragica si intrometteva nella loro mente, essi facevano un segno sul foglio. Col tempo, la maggior parte dei volontari pensava sempre di meno alla scena; i soggetti piÙ depressi, perÒ, via via che il tempo passava, mostrarono invece un accentuato aumento di pensieri molesti centrati sulla scena in questione, e arrivavano perfino a riferirsi ad essa in modo implicito in quegli stessi pensieri che avrebbero dovuto distrarli.

Ma non basta: i volontari inclini alla depressione cercavano di distrarsi ricorrendo ad altri pensieri tormentosi. Come mi disse Wenzlaff: “I pensieri vengono associati nella mente non solo in base al loro contenuto, ma a seconda dello stato d'animo. Esiste una specie di serbatoio di pensieri negativi che vengono in mente con grande facilitÀ quando ci si sente depressi. I soggetti depressi tendono a creare reti di associazioni molto potenti fra questi pensieri che perciÃ’, una volta evocato un certo stato d'animo negativo, sono piÙ difficili da sopprimere. Paradossalmente, i pazienti depressi sembrano usare argomenti deprimenti per liberarsi la mente da un altro pensiero pure deprimente, il che non fa che suscitare in loro emozioni sempre piÙ negative”.

Secondo una teoria, il pianto potrebbe essere un modo naturale per abbassare i livelli delle sostanze chimiche che innescano la sofferenza a livello cerebrale. Sebbene il pianto possa a volte interrompere un attacco di tristezza, esso puÃ’ anche lasciare l'individuo ossessionato sui motivi della disperazione. L'idea di un “bel pianto” È fuorviante: il pianto che rinforza la tendenza al rimuginare non fa che prolungare l'infelicitÀ. Le distrazioni spezzano la catena dei pensieri che perpetuano e alimentano la tristezza; una delle principali teorie per spiegare l'efficacia della terapia elettroconvulsiva nelle depressioni piÙ gravi È che essa causa una perdita della memoria a breve termine - in altre parole, i pazienti si sentono meglio perché non riescono piÙ a ricordare i motivi della loro tristezza. In ogni caso, Diane Tice constatÃ’ che molte persone riferivano di liberarsi da una leggera tristezza ricorrendo a distrazioni quali la lettura, la televisione e il cinema, i videogiochi e i puzzle; altri ancora dormivano o sognavano a occhi aperti, ad esempio programmando una vacanza immaginaria. Wenzlaff aggiunge che le distrazioni piÙ efficaci sono quelle che modificano l'umore - un evento sportivo entusiasmante, un film divertente, un libro che tira su il morale. (A questo punto si impone un ammonimento: alcune attivitÀ distraenti possono, di per se stesse, perpetuare la depressione. Studi compiuti su soggetti che passavano moltissimo tempo guardando la televisione hanno messo in evidenza che, una volta spento l'apparecchio, essi erano generalmente piÙ depressi di quando lo avevano acceso!).

La ginnastica aerobica, osserva Tice, È una delle tattiche piÙ efficaci per dissipare una leggera depressione, come pure altri stati d'animo negativi. La riserva, in questo caso, È che i benefici della ginnastica sull'umore sono massimi per gli individui pigri che di solito non fanno molta attivitÀ fisica. Nel caso di coloro che fanno tutti i giorni un po' di movimento, quali che siano i possibili benefici di questa attivitÀ, essi sono probabilmente massimi nel momento in cui viene instaurata l'abitudine. In veritÀ, coloro che fanno abitualmente attivitÀ fisica possono sperimentare anche un effetto contrario sullo stato d'animo, cominciando a sentirsi male quando saltano il loro programma di allenamento. L'attivitÀ fisica sembra efficace perché modifica lo stato fisiologico causato dallo stato d'animo negativo: la depressione È caratterizzata da un basso grado di attivazione fisiologica, e la ginnastica aerobica pone invece l'organismo in uno stato di forte attivazione. Per lo stesso motivo, le tecniche di rilassamento, che riducono lo stato di attivazione fisiologica, vanno molto bene per allentare l'ansia (caratterizzata da un elevato stato di attivazione) ma non sono altrettanto efficaci per la depressione. Ciascuno di questi approcci sembra funzionare in quanto spezza il ciclo della depressione o dell'ansia portando il cervello a un livello di attivazione incompatibile con lo stato emozionale che lo tiene in scacco.

Un altro antidoto molto diffuso contro la depressione, È quello di tirarsi su con il cibo e altri piaceri sensuali. I metodi piÙ comuni usati dai depressi per consolarsi, andavano dal fare bagni caldi al mangiare i cibi preferiti, dall'ascolto della musica, al sesso. Regalarsi qualcosa o concedersi una leccornia per liberarsi di uno stato d'animo negativo era una strategia particolarmente comune fra le donne, come anche l'andare in giro a far spese, sebbene limitato anche al solo guardare le vetrine. Fra gli studenti universitari, Tice riscontrÒ che il cibo era un antidoto contro la tristezza tre volte piÙ comune fra le donne che non fra gli uomini; questi, dal canto loro, avevano probabilitÀ cinque volte superiori di rivolgersi all'alcol o alle droghe nei momenti di sconforto. Il problema legato all'uso del cibo o dell'alcol come antidoti sta ovviamente nella probabilitÀ che essi falliscano: il troppo mangiare scatena sensi di colpa; l'alcol, poi, ha un effetto depressivo sul sistema nervoso centrale, e pertanto si rivela un rimedio peggiore del male.

Una tecnica piÙ costruttiva per sollevarsi il morale, secondo Diane Tice, È quella di prepararsi un piccolo trionfo o un facile successo: affrontare un lavoro di casa a lungo rimandato o sbrigare qualche altra incombenza della quale si desidera liberarsi. Per lo stesso motivo, tutto quanto contribuisce a migliorare l'immagine di sé ha un effetto rasserenante, anche se si tratta solo di vestirsi bene o di truccarsi.

Uno degli antidoti piÙ potenti contro la depressione - e al di fuori della terapia, fra quelli meno usati - È il 'reinquadramento cognitivo', ossia il cercare di considerare la situazione in modo diverso. E' naturale piangere per la fine di una relazione e indugiare nell'autocommiserazione, ad esempio dicendo a se stessi che “ciÃ’ significa che resterÃ’ sempre solo”; d'altra parte questo atteggiamento rende sicuramente piÙ profondo il senso di disperazione. Un buon antidoto contro la tristezza consiste invece nel fare, per cosÃŒ dire, un passo indietro, e nel pensare a tutti quegli aspetti della relazione che lasciavano a desiderare e nei quali voi e il vostro partner non eravate molto ben assortiti - in altre parole, l'antidoto sta nel vedere la perdita in modo diverso, sotto una luce piÙ positiva. Per lo stesso motivo, i pazienti oncologici, indipendentemente dalla gravitÀ delle loro condizioni, sono di umore migliore se riescono a pensare a un altro paziente in uno stato peggiore (“Dopo tutto non sto cosÃŒ male, io almeno posso camminare”); quelli che si confrontano con le persone sane sono i piÙ depressi (18). Questi confronti verso il basso - verso situazioni meno felici della nostra - hanno un effetto sorprendentemente rasserenante: improvvisamente ciÃ’ che sembrava assolutamente deprimente non appare piÙ in una luce cosÃŒ negativa.

Un'altra strategia efficace per sollevare il morale È quella di aiutare altre persone in difficoltÀ. Poiché la depressione È alimentata da pensieri e preoccupazioni riferiti al sé, nel momento stesso in cui empatizziamo con altre persone sofferenti e le aiutiamo, ci sentiamo sollevati. Nello studio condotto da Tice, l'intraprendere un'attivitÀ di volontariato - di qualunque tipo si trattasse - si rivelÃ’ uno dei modi migliori per modificare il proprio stato d'animo; era anche, perÃ’, uno dei piÙ rari.

Infine, alcune persone riescono a trovare sollievo dalla propria melanconia rivolgendosi a un potere trascendentale. Tice mi disse: “La preghiera, se sei molto religioso, puÃ’ aiutarti in tutti gli stati d'animo e soprattutto nel caso della depressione”.

I repressori: la negazione ottimista.

“Diede un calcio nello stomaco al suo compagno di camera” comincia la frase. Che prosegue poi: “ ma voleva solo accendere la luce”.

Questa trasformazione di un atto di aggressione in un errore innocente, per quanto poco plausibile, È un atto di repressione colto in vivo. La frase venne composta da uno studente universitario che aveva partecipato come volontario a uno studio sui 'repressori', cioÈ su quegli individui che abitualmente e automaticamente sembrano cancellare dalla propria consapevolezza ogni turbamento emotivo. Il frammento iniziale della frase - “Diede un calcio nello stomaco al suo compagno di camera” - venne proposto a questo studente nell'ambito di un test nel quale egli doveva completare alcune frasi. Altri test dimostrarono che questo piccolo atto di evitamento faceva parte di uno schema molto piÙ generale, che lo portava nella massima parte dei casi a desintonizzarsi dai turbamenti emotivi (19). Sebbene inizialmente i ricercatori avessero considerato i repressori come un esempio dell'incapacitÀ di sentire emozioni - forse in questo affini agli alessitimici - attualmente essi sono ritenuti in realtÀ dei veri e propri esperti nella regolazione delle emozioni. Costoro sono talmente bravi a tamponare i propri sentimenti negativi da non essere nemmeno consapevoli della negativitÀ. Invece di chiamarli “repressori”, come fanno comunemente i ricercatori, un'espressione piÙ adatta potrebbe essere 'imperturbabili'.

Gran parte di questa ricerca, effettuata principalmente da Daniel Weinberger, uno psicologo che ora lavora alla Case Western Reserve University, dimostra che sebbene queste persone possano sembrare calme e imperturbabili, a volte possono fremere per turbamenti psicologici dei quali sono ignare. Durante il test di completamento delle frasi, veniva anche monitorato il livello di attivazione fisiologica dei volontari. La maschera di calma imperturbabile indossata dai repressori era smentita dall'agitazione rilevabile nel loro organismo: di fronte alla frase sul compagno di camera violento e ad altre dello stesso tenore, tutti questi soggetti davano segni di ansia: ad esempio, presentavano un aumento della frequenza cardiaca, della sudorazione e della pressione ematica. Tuttavia, se interrogati, dicevano di sentirsi perfettamente calmi.

Questo continuo desintonizzarsi da emozioni come la collera e l'ansia non È un comportamento insolito: stando a Weinberger esso È riscontrabile in circa una persona su sei. In teoria, i bambini potrebbero imparare a diventare imperturbabili in moltissimi modi. Potrebbe trattarsi di una strategia per sopravvivere a una situazione angosciosa come quella di avere un genitore etilista in una famiglia dove il problema viene negato. In un altro caso, il bambino potrebbe avere uno o entrambi i genitori essi stessi “repressori”, i quali quindi trasmetterebbero l'esempio di una perenne allegria o di una caparbia resistenza verso emozioni fonte di turbamento. Oppure, questo comportamento potrebbe semplicemente essere ereditato. Sebbene nessuno possa dire per ora con precisione in che modo tale comportamento compaia nel bambino, sta di fatto che quando i repressori raggiungono l'etÀ adulta sono freddi e padroni di sé nelle circostanze piÙ difficili.

Rimane, naturalmente, il problema di capire quanto calmi e freddi essi siano in realtÀ. Riescono davvero ad essere inconsapevoli delle manifestazioni fisiche delle emozioni penose, oppure si tratta solo di ostentazione? La risposta a questo interrogativo È venuta dalla brillante ricerca di Richard Davidson, uno psicologo della Wisconsin University e uno dei primi collaboratori di Weinberger. Davidson faceva compiere libere associazioni mentali a persone dal comportamento imperturbabile sottoponendo loro una lista di parole, la maggior parte delle quali era neutrale, mentre alcune avevano significati ostili o a sfondo sessuale che quasi sempre inducono ansia. Come rivelavano le loro reazioni fisiche, questi soggetti presentavano tutti i segni fisiologici del turbamento in risposta a tali parole non neutrali, sebbene mostrassero un tentativo di sterilizzarle associandole quasi sempre ad altre parole innocenti. Ad esempio, se la prima parola era “odio”, la risposta poteva essere “amore”.

Lo studio di Davidson traeva vantaggio dal fatto che (nelle persone destrimani) un centro chiave nell'elaborazione delle emozioni negative si trova nella metÀ destra del cervello, mentre quello del linguaggio È a sinistra. Quando l'emisfero destro riconosce che una parola produce turbamento, trasmette l'informazione attraverso il corpo calloso - la grande via di comunicazione fra le due metÀ del cervello - inviandola al centro del linguaggio, che in risposta emette una parola. Usando un complesso sistema di lenti, Davidson riuscÌ a proporre ai soggetti sperimentali una parola in modo che la vedessero solo in una metÀ del loro campo visivo. A causa delle connessioni neurali del sistema visivo, se la parola era mostrata nella metÀ sinistra del campo visivo, essa veniva riconosciuta dapprima dalla metÀ destra del cervello, cioÈ da quella sensibile al turbamento. Se la parola compariva nella sola metÀ destra del campo visivo, il segnale veniva inviato al lato sinistro del cervello senza essere prima valutato relativamente alla sua capacitÀ di indurre turbamento.

Quando le parole venivano presentate all'emisfero destro, c'era un tempo di latenza prima che gli imperturbabili emettessero una risposta - ma solo se la parola alla quale stavano rispondendo era di quelle non 'neutrali'. Essi non mostravano tempo di latenza alcuno quando si misurava la velocitÀ di associazione a parole neutrali. Il tempo di latenza compariva 'solo' quando le parole erano presentate all'emisfero destro. In breve, la loro imperturbabilitÀ sembrava dovuta a un meccanismo neurale che rallentava il trasferimento dell'informazione causa di turbamento, o interferiva con esso. CiÒ implica che questi soggetti 'non' simulino la loro mancanza di consapevolezza sul proprio grado di turbamento; È il loro stesso cervello a nascondere loro quell'informazione. PiÙ precisamente, i sentimenti allegri che nascondono queste percezioni fonte di disturbo scaturiscono dalle elaborazioni dei lobi prefrontali. Con sua grande sorpresa, quando Davidson misurÒ il livello di attivitÀ dei lobi prefrontali dei soggetti imperturbabili, essi presentavano una netta predominanza a sinistra - il centro delle sensazioni positive - e molto meno a destra, il centro della negativitÀ.

Queste persone, mi disse Davidson, “si presentano in una luce positiva, con uno stato d'animo ottimista”. “Negano di essere turbati dallo stress e, mentre sono seduti a riposo, mostrano un'attivazione frontale sinistra associata a sensazioni positive. Questa attivitÀ cerebrale È probabilmente la chiave delle loro asserzioni positive, nonostante lo stato di attivazione fisiologica in cui si trovano, faccia pensare a una sofferenza.” La teoria di Davidson È che, in termini di attivitÀ cerebrale, vivere le realtÀ stressanti vedendole in una luce positiva È un impegno che richiede molte energie. L'aumentato stato di attivazione fisiologica potrebbe essere dovuto al prolungato tentativo dei circuiti neurali di mantenere i sentimenti positivi o di sopprimere o inibire tutti quelli negativi.

In breve, l'imperturbabilitÀ È un tipo di negazione ottimista, una dissociazione positiva - e, forse, un indizio dei meccanismi neurali che entrano in gioco negli stati dissociativi piÙ gravi come quelli che si verificano, ad esempio, nel disturbo da stress post-traumatico. Nel caso di persone che mostrano semplicemente di avere un animo sereno, afferma Davidson, “essa sembra essere una strategia ben riuscita per l'autoregolazione emozionale”, sebbene non si conosca il prezzo che tutto questo impone all'autoconsapevolezza.

6. INTELLIGENZA EMOTIVA: UNA CAPACITA' FONDAMENTALE.

'Solo una volta, in tutta la mia vita, mi È capitato di essere paralizzato dalla paura. Avvenne al primo anno di universitÀ durante un esame di calcolo, per il quale non avevo aperto libro. Ricordo ancora l'aula verso la quale mi stavo dirigendo, quella mattina di primavera, con il cuore appesantito dai cattivi presentimenti. Quella mattina, perÒ, non vedevo nulla dalle finestre, e in effetti non vedevo nemmeno l'aula nella quale avevo seguito vari corsi. Mentre trovavo posto proprio vicino alla porta, tenevo lo sguardo fisso su una macchia del pavimento di fronte a me. Non appena aprii il fascicolo con la copertina blu contenente le domande del test, sentii il cuore pulsarmi nelle orecchie e in fondo allo stomaco il sapore dell'angoscia.

Diedi un'unica occhiata veloce alle domande. Senza speranza. Per un'ora fissai quella pagina, mentre la mia mente correva alle inevitabili conseguenze. Gli stessi pensieri si ripetevano all'infinito, una sequenza interminabile di paura e tremore. Sedevo immobile, come un animale paralizzato dal curaro a metÀ di un movimento. Quello che mi colpisce di piÙ nel ricordo di quel momento di terrore È il pensiero di come fosse soggiogata la mia mente. Non passai quell'ora nel disperato tentativo di mettere insieme qualcosa che potesse avere una vaga sembianza di soluzione. Non sognavo a occhi aperti. Me ne stavo semplicemente lÌ seduto a contemplare il mio terrore, aspettando che quel supplizio finisse' (1).

Il racconto di quell'ora d'angoscia È mio, e fino a oggi esso rappresenta per me la prova piÙ convincente dell'impatto devastante che la sofferenza psicologica puÒ avere sulla luciditÀ mentale. Ora mi rendo conto che il mio tormento molto probabilmente stava a testimoniare la capacitÀ del cervello emozionale di prendere il sopravvento sul cervello razionale - addirittura, la sua capacitÀ di paralizzarlo.

Gli insegnanti sanno benissimo quanto i turbamenti emotivi interferiscano con la vita mentale. Quando sono ansiosi, adirati o depressi gli studenti non imparano; chi si trova in questi stati d'animo non assorbe informazioni né È in grado di applicarle proficuamente. Come abbiamo visto nel capitolo 5, quando sono forti, le emozioni negative dirottano l'attenzione dell'individuo sulle proprie preoccupazioni, interferendo con i suoi eventuali tentativi di concentrarsi su qualcos'altro. In veritÀ, il fatto che i sentimenti diventino talmente invadenti e molesti da sopraffare tutti gli altri pensieri, sabotando continuamente ogni tentativo di prestare attenzione ad altri compiti contingenti, quali che siano, ci segnala che essi stanno sconfinando nel patologico. Nell'individuo che sta vivendo un divorzio lacerante o nel figlio di una coppia che stia facendo quell'esperienza - la mente non si sofferma a lungo sulla quotidiana routine lavorativa o scolastica, che al confronto appare banale; nel paziente clinicamente depresso, i pensieri di autocommiserazione e disperazione, la mancanza di speranza e il senso di impotenza hanno la precedenza su tutti gli altri.

Quando le emozioni sopraffanno la concentrazione, quel che viene effettivamente annientato È una capacitÀ mentale che gli scienziati cognitivi chiamano “memoria di lavoro”, ossia l'abilitÀ di tenere a mente tutte le informazioni rilevanti per portare a termine ciÃ’ a cui ci stiamo dedicando. La memoria di lavoro puÃ’ essere occupata da informazioni banali come le cifre di un numero telefonico, o complesse come le fila di una trama intricata elaborata da un romanziere. Nella vita mentale, la memoria di lavoro È una funzione esecutiva per eccellenza, che rende possibili tutti gli altri sforzi intellettuali, dal pronunciare una frase ad affrontare una proposizione logica ingarbugliata (2). La memoria di lavoro ha sede nella corteccia prefrontale, che, ricorderete, È il luogo in cui si incontrano sensazioni ed emozioni (3). Quando i circuiti del sistema limbico che affluiscono alla corteccia prefrontale sono in preda alla sofferenza emotiva, a rimetterci È proprio l'efficienza della memoria di lavoro; in altri termini, non riusciamo piÙ a pensare lucidamente, come ebbi io stesso a constatare durante il mio terrificante esame di calcolo.

Passeremo ora invece a considerare l'effetto di una motivazione positiva - la prevalenza di sentimenti di entusiasmo, fervore e fiducia in se stessi - ai fini della realizzazione dei propri obiettivi. Studi condotti su atleti olimpionici, musicisti di fama mondiale e grandi maestri di scacchi hanno messo in evidenza che l'aspetto comune a tutti questi individui È la capacitÀ di automotivarsi in modo da sopportare durissimi programmi di studio o allenamento (4). Si tenga presente, inoltre, che sempre piÙ spesso questi programmi devono essere intrapresi fin dall'infanzia, visto che il grado di eccellenza richiesto per prestazioni a livello mondiale È sempre piÙ elevato. Ai Giochi Olimpici del 1992, i tuffatori dodicenni della squadra cinese avevano al proprio attivo un numero di tuffi pari a quello degli atleti americani, che perÒ avevano giÀ passato i vent'anni: i tuffatori cinesi, infatti, si sottopongono ad allenamenti rigorosi fin dall'etÀ di quattro anni. Allo stesso modo, i piÙ grandi virtuosi di violino del nostro secolo hanno cominciato a studiare intorno ai cinque anni; e i campioni internazionali di scacchi vengono iniziati al gioco verso i sette anni, mentre quelli che si affermano solo a livello nazionale iniziano a dieci. Cominciare prima costituisce un vantaggio in termini di tempo: nella migliore accademia musicale di Berlino, gli allievi di violino piÙ brillanti, tutti di etÀ compresa fra i venti e i venticinque anni, avevano alle loro spalle diecimila ore di studio, mentre gli allievi di secondo livello ne avevano al proprio attivo circa settemilacinquecento.

Probabilmente, il fattore che sembra discriminare gli individui che svolgono attivitÀ competitive ai massimi livelli dagli altri soggetti con abilitÀ pressappoco simili, È proprio il fatto che i primi, fin da giovanissimi, riescono a sopportare anni e anni di addestramento durissimo. E tale ostinazione dipende soprattutto dai tratti emotivi della personalitÀ, ad esempio dalla capacitÀ di provare entusiasmo ed essere perseveranti, nonostante gli insuccessi.

Senza contare le altre capacitÀ innate, la gratificazione, in termini di successo nella vita, ottenuta grazie alla motivazione, appare evidente se si considerano le eccezionali prestazioni scolastiche e professionali degli studenti di origine asiatica che vivono in America. Un attento esame dei dati indica che questi soggetti hanno mediamente un Q.I. di appena due o tre punti superiore a quello dei bianchi (5). Tuttavia, stando alle professioni - avvocato e medico - che molti di essi intraprendono una volta diventati adulti, nel loro insieme si comportano come se avessero un Q.I. molto piÙ alto - l'equivalente di 110 nel caso dei nippoamericani e di 120 in quello dei cinoamericani (6). A quanto pare, ciÃ’ È dovuto al fatto che, fin dai primi anni di scuola, i bambini asiatici si impegnano nello studio molto piÙ dei bianchi. Sanford Dorenbusch, un sociologo di Stanford che ha esaminato piÙ di diecimila studenti della scuola superiore, scoprÃŒ che quelli di origine asiatica dedicavano ai loro compiti un numero di ore superiore del 40 per cento rispetto agli altri. “Mentre la maggior parte dei genitori americani È disposta ad accettare i punti deboli del proprio figlio sottolineando invece le sue particolari abilitÀ, nel caso dei genitori asiatici, l'atteggiamento mentale È questo: 'Se non vai bene, dovrai studiare qualche ora di piÙ la sera, e se ancora questo non basta, vorrÀ dire che ti alzerai un po' prima la mattina'. Essi sono convinti che chiunque possa ottenere buoni risultati scolastici, purché si impegni a dovere.” In breve, una forte etica culturale del lavoro si traduce in motivazione, entusiasmo e perseveranza maggiori - in altre parole, in un vantaggio sul piano emotivo.

Nella misura in cui le emozioni intralciano o potenziano le nostre capacitÀ di pensare, di fare progetti, di risolvere problemi, di sottoporci a un addestramento in vista di un obiettivo lontano, e altre ancora, esse non fanno che definire i limiti della nostra capacitÀ di usare abilitÀ mentali innate, e pertanto determinano il nostro successo nella vita. Ancora, nella misura in cui le nostre azioni sono motivate da sentimenti di entusiasmo e di piacere - o anche da un grado ottimale di ansia - sono proprio tali sentimenti a spingerci verso la realizzazione. In questo senso, l'intelligenza emotiva È un'abilitÀ fondamentale che influenza profondamente tutte le altre, di volta in volta facilitandone l'espressione, o interferendo con esse.

- Controllo degli impulsi: il test delle caramelle.

Immaginate di avere quattro anni e che qualcuno vi faccia la seguente proposta: se aspetti che io ritorni da una commissione, avrai in premio due caramelle. Se non puoi aspettare, ne avrai solo una, ma subito. Si tratta di una sfida che mette alla prova qualunque bambino di quell'etÀ e che riproduce su scala ridotta l'eterna battaglia fra impulso e repressione, id ed ego, desiderio e autocontrollo, gratificazione e rinvio. In queste condizioni, la scelta operata dal bambino È un valido test che offre una rapida interpretazione non solo del suo carattere, ma anche della traiettoria che egli probabilmente percorrerÀ nella sua vita.

Forse non esiste una capacitÀ psicologica piÙ importante del saper resistere agli impulsi. Essa È alla base di ogni tipo di autocontrollo emotivo, poiché tutte le emozioni, per loro stessa natura, si traducono in un impulso ad agire. Ricorderete che il significato etimologico della parola 'emozione' È “muovere”. A livello di funzione cerebrale, la capacitÀ di resistere a quell'impulso, di bloccare il movimento incipiente, molto probabilmente si esprime nell'inibizione dei segnali inviati dal sistema limbico alla corteccia motrice, sebbene per adesso questa interpretazione resti ancora solo un'ipotesi. In ogni caso, in uno studio importante, bambini di quattro anni vennero sottoposti al test della caramella; i risultati ottenuti hanno dimostrato quanto sia fondamentale la capacitÀ di reprimere le emozioni e di resistere all'impulso. Cominciato dallo psicologo Walter Mischel negli anni Sessanta presso una scuola materna del campus della Stanford University, lo studio arruolÃ’ principalmente bambini figli di docenti, studenti laureati e altri impiegati dell'universitÀ, che vennero seguiti dall'etÀ di quattro anni fino al conseguimento del diploma di scuola media superiore (7).

Alcuni di questi bambini di quattro anni riuscirono ad aspettare il ritorno dello sperimentatore, per quella che sicuramente dev'essere sembrata loro un'eternitÀ - in realtÀ quindici-venti minuti. Per aiutarsi nella lotta, i bambini si coprivano gli occhi per non dover guardare l'oggetto della tentazione, oppure appoggiavano la testa sul braccio, parlando fra sé e sé, cantavano, giocavano con le mani o i piedi - qualcuno cercÃ’ perfino di mettersi a dormire. Questi coraggiosi bimbetti ottennero la ricompensa delle due caramelle. Ma altri, piÙ impulsivi, afferrarono una caramella, quasi sempre dopo che lo sperimentatore aveva lasciato la stanza da pochi secondi per fare la sua “commissione”.

Il fatto che le modalitÀ con le quali i bambini gestivano l'impulso del momento avesse un notevole potere diagnostico, venne chiarito dodici-quattordici anni dopo, quando questi stessi bambini, ormai adolescenti, furono rintracciati. Le differenze, a livello emotivo e sociale, fra chi aveva afferrato subito la caramella e chi aveva saputo aspettare era evidentissima. I soggetti che all'etÀ di quattro anni avevano resistito alla tentazione, da adolescenti dimostravano di possedere una maggiore competenza sociale: erano efficaci a livello personale, sicuri di sé e piÙ capaci di tener testa alle frustrazioni della vita. Le probabilitÀ che questi giovani andassero in pezzi, si paralizzassero o regredissero quando erano sottoposti a stress, o che si innervosissero o si disorganizzassero sotto pressione, erano inferiori; essi accettavano le sfide e perseguivano i propri obiettivi senza rinunciare nemmeno di fronte alle difficoltÀ; avevano fiducia in se stessi, ed erano a loro volta degni di fiducia; prendevano l'iniziativa e si immergevano nei progetti. Non solo: a distanza di piÙ di dieci anni, questi adolescenti erano ancora capaci di perseguire i propri obiettivi, rinviando la gratificazione.

I soggetti che a quattro anni non avevano resistito alla tentazione, che complessivamente ammontavano circa al 30 per cento del gruppo, tendevano perÃ’ ad avere meno qualitÀ di questo tipo, condividendo invece un profilo psicologico relativamente piÙ inquieto. Durante l'adolescenza, era probabile che essi scansassero i contatti sociali a causa della timidezza; che fossero facilmente turbati dalle frustrazioni, testardi e indecisi; che pensassero a se stessi come “cattivi” o privi di valore; che regredissero o si paralizzassero di fronte allo stress; che fossero diffidenti e risentiti perché convinti di non “ottenere abbastanza”; ancora, era piÙ probabile che questi giovani andassero soggetti alla gelosia e all'invidia e che reagissero all'irritazione in modo tagliente, innescando cosÃŒ liti e conflitti. Inoltre, nonostante fossero passati tutti quegli anni, essi erano ancora incapaci di rinviare le gratificazioni.

CiÒ che traspare in tono minore giÀ nei primi stadi di crescita, con gli anni si sviluppa in una vasta gamma di competenze nella sfera emotiva e sociale. La capacitÀ di frenare i propri impulsi È alla base di moltissimi sforzi dell'adulto, dal mettersi a dieta al prendere la laurea in medicina. Alcuni bambini, anche a soli quattro anni, erano giÀ padroni delle fondamentali tecniche di quest'abilitÀ: sapevano interpretare la situazione sociale, riconoscendo che in quel caso specifico il rinvio era conveniente; sapevano come distogliere l'attenzione dalla tentazione proprio lÌ di fronte a loro; e, infine, riuscivano a distrarsi senza abbandonare l'obiettivo che si erano prefissi - le due caramelle.

Fatto ancora piÙ sorprendente, quando i bambini del primo esperimento vennero nuovamente sottoposti a test, a distanza di anni, quando ormai adolescenti stavano terminando la scuola superiore, quelli che da piccoli avevano aspettato pazientemente si dimostrarono studenti di gran lunga superiori a quelli che dieci anni prima avevano agito spinti dal capriccio. Secondo le valutazioni dei loro genitori, essi erano piÙ competenti sul piano scolastico: sapevano esprimere verbalmente le proprie idee in modo piÙ chiaro, usavano il ragionamento, sapevano concentrarsi, fare progetti e attenersi ad essi ed erano anche piÙ avidi di apprendere. Fatto assai sorprendente, nei test Sat essi ottenevano punteggi molto superiori. Gli adolescenti che da bambini avevano afferrato subito la caramella avevano un punteggio medio di 524 nell'area verbale e di 528 in quella “matematica”; un terzo del campione dei soggetti che avevano saputo aspettare piÙ a lungo aveva, rispettivamente, punteggi medi di 610 e 652, con una differenza nel punteggio totale di ben 210 punti (8).

I risultati ottenuti dai bambini di quattro anni nel test sul rinvio della gratificazione costituiscono un fattore predittivo dei futuri punteggi Sat due volte piÙ potente di quanto non sia, alla stessa etÀ, il Q.I.; quest'ultimo diventa un fattore predittivo piÙ potente solo dopo che i bambini hanno imparato a leggere (9). Questo indica che la capacitÀ di rinviare la gratificazione contribuisce in modo importante e indipendente dallo stesso Q.I. al potenziale intellettuale dell'individuo. (Una scarsa capacitÀ di controllare i propri impulsi nell'infanzia È anche un potente fattore predittivo della delinquenza in anni successivi, e anche in questo caso si rivela piÙ efficace del Q.I.) (10). Come vedremo nella Quinta parte del libro, sebbene alcuni sostengano che il Q.I. sia immodificabile e che pertanto costituisca una limitazione insormontabile alle potenzialitÀ del bambino, numerose prove dimostrano la possibilitÀ di apprendere alcune abilitÀ della sfera emotiva, quali ad esempio la capacitÀ di controllare gli impulsi e di interpretare accuratamente una situazione sociale.

Quella che Walter Mischel, autore dello studio, descrive con l'espressione alquanto infelice “rinvio della gratificazione autoimposto e diretto a un fine” È forse l'essenza stessa dell'autoregolazione delle emozioni; la capacitÀ di negare l'impulso in vista e al servizio di un obiettivo, indipendentemente dal fatto che si tratti di fare un affare, di risolvere un'equazione algebrica o di aggiudicarsi la Stanley Cup. Questi risultati sottolineano il ruolo dell'intelligenza emotiva in quanto meta-abilitÀ che determina la misura in cui gli individui sono in grado di usare le loro altre capacitÀ mentali.

- Umor nero e pensieri confusi.

'Sono preoccupata per mio figlio. Ha appena cominciato a giocare con la squadra di football dell'universitÀ, e perciÒ qualche volta capiterÀ che si faccia male. E' talmente snervante guardarlo mentre gioca, che ho smesso di andare alle sue partite. Sono sicura che a lui dispiace che non vado a vederlo giocare, ma È proprio chiedermi troppo'.

Questa donna È in terapia per l'ansia e si rende conto che le sue continue preoccupazioni interferiscono con il tipo di vita che vorrebbe condurre (11). Ma quando viene il momento di prendere una semplice decisione, ad esempio stabilire se andare o meno a vedere il figlio che gioca a football, la sua mente viene sommersa da un'ondata di pensieri catastrofici. Non È libera di scegliere; le preoccupazioni annientano la sua razionalitÀ.

Come abbiamo visto, la preoccupazione È alla base degli effetti nocivi esercitati dall'ansia su tutti i tipi di prestazione mentale. Naturalmente, essa È, in un certo senso, una risposta utile mal gestita, una preparazione mentale troppo sollecita a una minaccia annunciata. Ma se questa attivitÀ mentale viene costretta su una monotona routine che imbriglia l'attenzione impedendo tutti i tentativi di concentrarla altrove, ecco che la preoccupazione diventa una disastrosa interferenza cognitiva.

L'ansia insidia l'intelletto. Immaginiamo, ad esempio, un lavoro stressante per il quale È necessaria la costante presenza intellettuale dell'individuo, come È quello del controllore del traffico aereo; in un'occupazione del genere, chi È costantemente afflitto da un elevato livello di ansia È quasi sicuramente destinato a fallire, o subito, giÀ in fase di addestramento, o in seguito, sul campo. Rispetto agli altri, gli individui ansiosi hanno maggiori probabilitÀ di fallire, anche se hanno punteggi superiori nei test d'intelligenza, come ha dimostrato uno studio su 1790 studenti che si stavano preparando come controllori del traffico aereo (12). L'ansia puÒ, inoltre, sabotare prestazioni scolastiche di tutti i tipi: 126 studi, effettuati su piÙ di 36000 persone, hanno riscontrato che quanto piÙ un individuo È soggetto all'ansia, tanto piÙ scadenti sono le sue prestazioni scolastiche, indipendentemente da come si decida di misurarle - punteggi, medie di votazioni, o test di rendimento (13).

Quando si chiede a individui inclini alla preoccupazione di eseguire un compito cognitivo, ad esempio di classificare oggetti ambigui in due categorie e di raccontare che cosa pensano mentre lo stanno facendo, i loro processi decisionali vengono disorganizzati da pensieri negativi come: “Non riuscirÃ’ mai a farlo”, “Sono proprio negato per questo tipo di test”, e simili. In realtÀ, quando si chiese a un gruppo di individui di controllo, poco inclini a preoccuparsi, di farlo intenzionalmente per quindici minuti, la loro capacitÀ di svolgere lo stesso compito peggiorÃ’ nettamente. Viceversa, se si concedeva agli individui con tendenza alla preoccupazione un intervallo di quindici minuti per rilassarsi prima di intraprendere il compito assegnato - uno stratagemma che riduceva la loro agitazione - essi non avevano problemi nel portarlo a termine (14).

L'ansia generata dai test venne studiata scientificamente per la prima volta negli anni Sessanta da Richard Alpert; egli mi confessÃ’ che il suo interesse per la materia era scaturito dal fatto che spesso, quando era studente, il nervosismo aveva abbassato il suo rendimento agli esami, mentre il suo collega Ralph Haber aveva constatato che la pressione che precedeva la prova lo aiutava a dare il meglio (15). Insieme ad altri studi, la loro ricerca dimostrÃ’ che esistono due tipi di studenti ansiosi: quelli la cui ansia compromette la prestazione scolastica, e quelli che riescono a far bene nonostante lo stress - o, forse, proprio grazie ad esso (16). L'aspetto paradossale dell'ansia da esame sta in questo: la stessa preoccupazione di far bene che costituisce un'efficace motivazione negli studenti come Haber, spronandoli a studiare molto per prepararsi e dare una buona prestazione, puÃ’ rendere vani gli sforzi di altri. Per gli individui troppo ansiosi, come Alpert, l'ansia pre-esame interferisce con la capacitÀ di pensare e la memoria indispensabili affinché lo studio risulti efficace, e durante il test sopprime la luciditÀ mentale essenziale per ben riuscire.

Il numero di preoccupazioni che gli individui riferiscono di avere durante un esame È un fattore predittivo diretto del fallimento della loro prova (17). Le risorse mentali impiegate in un'attivitÀ cognitiva - la preoccupazione - vengono sottratte dalle risorse disponibili per elaborare altre informazioni: se durante un esame siamo preoccupati di fallire, presteremo meno attenzione alle risposte da dare. Le nostre preoccupazioni diventano cosÌ teorie che si autoverificano: in altre parole, non solo predicono il disastro, ma ci spingono verso di esso.

D'altro canto, le persone che sanno imbrigliare le proprie emozioni possono servirsi dell'ansia anticipatoria - causata, tanto per fare un esempio, da un discorso da tenere a breve, o da un esame imminente - come motivazione per prepararsi bene, e quindi per ben riuscire. I testi classici di psicologia descrivono il rapporto fra ansia e prestazione - compresa la prestazione intellettuale - come una curva a U rovesciata. Il picco della U corrisponde al rapporto ottimale fra ansia e prestazione, lÀ dove un livello moderato di nervosismo serve da spinta verso un'ottima prestazione. Un livello di ansia troppo basso - il primo ramo della U - produce apatia o comunque una motivazione troppo scarsa per impegnarsi a fondo; un'ansia esagerata - l'altro ramo della U - si traduce invece nel sabotaggio di qualunque tentativo di successo.

Un leggero stato di esaltazione - 'ipomania', come viene chiamata in gergo tecnico - sembra lo stato ottimale per l'attivitÀ degli scrittori e di altri individui impegnati in compiti creativi che richiedono fluiditÀ di pensiero e fantasia; questa condizione mentale si trova in prossimitÀ del picco della U rovesciata. Ma se l'euforia sfugge al controllo e sconfina decisamente nella mania - come accade nel caso delle oscillazioni di umore nei pazienti maniacodepressivi - l'agitazione compromette la capacitÀ di pensare in modo abbastanza coerente da poter scrivere bene, nonostante le idee fluiscano liberamente (per la veritÀ, troppo liberamente affinché se ne possa seguire anche una sola abbastanza lontano da ottenerne un prodotto finito).

Il buon umore, finché dura, aumenta la capacitÀ di pensare in modo flessibile, consentendo di raggiungere livelli di complessitÀ maggiori e semplificando la risoluzione di problemi, indipendentemente dal fatto che si tratti di questioni intellettuali o interpersonali. CiÃ’ implica che per aiutare qualcuno a riflettere su un problema potremmo raccontargli una barzelletta. Una bella risata, come l'esaltazione, sembra aiutare l'individuo a pensare in modo piÙ aperto e piÙ libero, consentendogli di cogliere nessi che altrimenti gli sarebbero sfuggiti - una capacitÀ mentale, questa, importante non solo nella creativitÀ, ma anche nel riconoscimento di relazioni complesse e nella previsione delle conseguenze di una particolare decisione.

I benefici prodotti sull'intelletto da una buona risata sono piÙ evidenti quando si deve risolvere un problema che richiede una soluzione creativa. In uno studio, si scoprÃŒ che i soggetti riuscivano a risolvere meglio un rompicapo, da tempo usato dagli psicologi per saggiare le potenzialitÀ creative, se avevano appena guardato un video di “papere” televisive (18). Nel test, ogni soggetto ha in dotazione una candela, dei fiammiferi e una scatola di puntine da disegno e deve attaccare la candela a una parete in modo da poterla poi accendere senza versare cera sul pavimento. Di fronte a questo problema, la maggior parte delle persone cade in quella che viene definita “fissitÀ funzionale”, ossia pensa di usare gli oggetti nel modo piÙ convenzionale. Ma chi aveva appena visto il filmato divertente, aveva maggiori probabilitÀ di escogitare un uso alternativo della scatola di puntine, e perciÃ’ proponeva una soluzione creativa, quella cioÈ di fissare la scatola alla parete utilizzando le puntine, e poi usarla come portacandela.

Anche i leggeri cambiamenti di umore possono far vacillare il pensiero. Quando fanno progetti o prendono decisioni, gli individui di buon umore tendono a percepire positivamente la situazione, il che li porta a essere piÙ espansivi e ottimisti. Questo avviene in parte perché la memoria È una funzione specifica per ogni stato, e quindi quando siamo di buon umore ricordiamo un maggior numero di eventi positivi; se pensiamo ai pro e ai contro di una certa azione mentre ci sentiamo bene, la memoria orienta il nostro giudizio in una direzione positiva, ad esempio aumentando le possibilitÀ che scegliamo una condotta leggermente avventurosa o rischiosa.

Per lo stesso motivo, il cattivo umore orienta la memoria in una direzione negativa, aumentando le probabilitÀ che la scelta dell'individuo cada su un'opzione eccessivamente prudente dettata dalla paura. Quando sono completamente sbrigliate, le emozioni intralciano l'intelletto. Ma, come abbiamo visto nel capitolo 5, È comunque possibile riportarle sotto il nostro controllo; questa competenza È una capacitÀ fondamentale, che facilita l'espressione di tutti gli altri tipi di intelligenza. Consideriamo alcuni esempi calzanti: i vantaggi comportati dalla speranza e dall'ottimismo e i momenti edificanti in cui l'individuo supera se stesso.

- Il vaso di Pandora e Pollyanna: il potere del pensiero positivo.

Nell'ambito di un test, alcuni studenti universitari vennero messi di fronte alla seguente situazione ipotetica:

'Sebbene vi foste posti l'obiettivo di prendere un B, quando vi restituiscono il punteggio del vostro primo esame, che inciderÀ sulla vostra votazione finale per un 30 per cento, ricevete un D. Adesso È passata una settimana da quando l'avete saputo. Che cosa fate?' (19)

In questo caso, tutta la differenza sta nella capacitÀ di sperare. La risposta data da studenti che possedevano un elevato livello di tale capacitÀ fu che avrebbero studiato di piÙ ed escogitato una serie di contromisure per aumentare la votazione finale. Gli studenti capaci di nutrire solo moderate speranze pensavano a vari modi con i quali alzare la propria media, ma erano molto meno determinati dei primi ad andare fino in fondo. Comprensibilmente, gli studenti poco inclini alla speranza rinunciavano a far conti, demoralizzati.

Il problema, d'altra parte, non È solo teorico. Quando C. R. Snyder, lo psicologo della Kansas University che fece questo studio, confrontÒ i reali risultati accademici delle matricole, scoprÌ che la loro naturale propensione alla speranza, classificata in due categorie, come elevata o scarsa, era un fattore predittivo delle votazioni del primo semestre piÙ efficace del Sat (che È altamente correlato al Q.I., e presumibilmente dovrebbe prevedere il successo universitario). Anche qui, in soggetti con capacitÀ intellettuali pressappoco simili, erano le doti nella sfera emotiva a far pendere la bilancia da una parte o dall'altra.

La spiegazione di Snyder era la seguente: “Gli studenti piÙ inclini alla speranza si prefiggono obiettivi piÙ ambiziosi e sanno quanto devono impegnarsi per raggiungerli. Quando si confrontano i risultati accademici di studenti con doti intellettuali equivalenti, ciÃ’ che li distingue È proprio la speranza” (20).

Come narra la ben nota leggenda, Pandora, una principessa dell'antica Grecia, ricevette in dono dagli dÈi invidiosi della sua bellezza un vaso misterioso. Sebbene fosse stata ammonita di non aprirlo mai, un giorno, sopraffatta dalla curiositÀ e dalla tentazione, Pandora sollevÒ il coperchio per sbirciarvi dentro; ma cosÌ facendo liberÒ all'esterno le grandi piaghe che affliggono il mondo - malattie, turbamenti, follia. Nel fondo del vaso rimase l'unico antidoto che puÒ rendere sopportabili le miserie della vita al genere umano - la speranza, appunto.

I ricercatori moderni sono sempre piÙ consapevoli del fatto che la speranza non si limita a offrire briciole di consolazione in una landa di dolore; essa ha invece un ruolo sorprendentemente potente nella nostra vita, in quanto costituisce un vantaggio in situazioni diverse, influenzando il rendimento scolastico o la capacitÀ di sopportare impegni gravosi. La speranza, in senso tecnico, È qualcosa di piÙ della visione solare di un futuro roseo. Snyder la definisce piÙ specificamente come la “convinzione di avere sia la volontÀ che i mezzi per raggiungere i propri obiettivi, quali che siano”.

Gli individui tendono a essere diversi gli uni dagli altri proprio per la loro tendenza a sperare nel senso specificato da Snyder. Alcuni si ritengono capaci di trarsi d'impiccio o di risolvere i problemi, mentre altri, semplicemente, non credono di possedere l'energia, la capacitÀ o i mezzi per raggiungere gli obiettivi che si sono prefissi. Gli individui con un'elevata inclinazione alla speranza, ha constatato Snyder, hanno in comune alcuni aspetti fra i quali la capacitÀ di automotivarsi, la sensazione di avere le risorse necessarie per raggiungere i propri obiettivi, l'abilitÀ di rassicurare se stessi nei momenti difficili convincendosi che le cose andranno meglio, e una flessibilitÀ sufficiente a escogitare modi diversi per raggiungere gli obiettivi prefissati o a modificarli se essi diventano impossibili; infine, la capacitÀ di frantumare un compito di formidabile difficoltÀ in tanti piÙ piccoli e maneggevoli.

Dal punto di vista dell'intelligenza emotiva, sperare significa non cedere a un'ansia tale da sopraffarci, non assumere atteggiamenti disfattisti o non arrendersi alla depressione di fronte a imprese difficili o all'insuccesso. In effetti, nel perseguire i propri obiettivi, le persone capaci di sperare sono meno soggette alla depressione, meno ansiose e soffrono meno sul piano emotivo.

- Ottimismo: il grande fattore motivante.

Gli americani appassionati di nuoto riponevano grandi speranze in Matt Biondi, membro della squadra statunitense alle Olimpiadi del 1988. Alcuni giornalisti sportivi avevano osannato Biondi, affermando che probabilmente avrebbe uguagliato il record di Mark Spitz che nel 1972 si era aggiudicato sette medaglie d'oro. Ma nella sua prima gara, i 200 metri stile libero, Biondi ottenne uno straziante terzo posto, e nella gara successiva, i 100 metri farfalla, si vide soffiare l'oro nelle ultime bracciate.

I cronisti sportivi pensavano che le due batoste avrebbero demoralizzato Biondi compromettendo le gare successive. Ma l'atleta si riprese dalla sconfitta, e vinse l'oro nelle cinque gare che seguirono. Un osservatore che non rimase sorpreso dal successo di Biondi fu Martin Seligman, psicologo della Pennsylvania University che, al principio dell'anno, aveva sottoposto l'atleta ad alcuni test per saggiarne l'ottimismo. In un esperimento con Seligman, durante una manifestazione sportiva nella quale Biondi doveva testare al massimo le sue capacitÀ, l'allenatore gli comunicÃ’ un tempo peggiore di quello ottenuto in realtÀ. Nonostante la notizia demoralizzante, quando si chiese a Biondi di riposare e di ritentare, la sua prestazione - che in realtÀ era giÀ stata eccellente - fu ancora migliore. Ma quando si ripeté lo stesso esperimento con altri membri della squadra - dimostratisi pessimisti nell'ambito di altri test - le prestazioni al secondo tentativo furono peggiori (21).

Essere ottimista, come pure essere inclini alla speranza, significa nutrire forti aspettative che, in generale, gli eventi della vita volgeranno al meglio nonostante i fallimenti e le frustrazioni. Dal punto di vista dell'intelligenza emotiva, l'ottimismo È un atteggiamento che impedisce all'individuo di sprofondare nell'apatia o nella depressione e di scivolare nella disperazione di fronte a situazioni difficili. Come nel caso della speranza, che È sua stretta parente, l'ottimismo si rivela fonte di grandi vantaggi (purché, naturalmente, si tratti di un ottimismo realistico; un ottimismo troppo ingenuo puÃ’ essere disastroso) (22).

Seligman definisce l'ottimismo sulla base del modo in cui gli individui spiegano a se stessi i propri successi e i propri fallimenti. Gli ottimisti attribuiscono il fallimento a dettagli che possono essere modificati in modo da garantirsi buoni risultati nei futuri tentativi, mentre i pessimisti si assumono di persona la colpa dell'insuccesso, attribuendolo ad aspetti o circostanze durevoli che essi non hanno la possibilitÀ di modificare. Queste diverse spiegazioni si ripercuotono profondamente sul modo in cui le persone reagiscono agli eventi della vita. Ad esempio, di fronte a una delusione (come il vedersi rifiutato per un impiego) gli ottimisti tendono a reagire attivamente e con un atteggiamento pieno di speranza, formulando un piano d'azione o cercando l'aiuto e il consiglio di qualcuno; essi considerano l'insuccesso come qualcosa alla quale si puÃ’ rimediare. I pessimisti, invece, reagiscono a tali fallimenti dando per scontato il fatto di non poter far nulla affinché le cose vadano meglio la volta successiva; costoro pertanto non fanno nulla per risolvere il problema e attribuiscono l'insuccesso a qualche carenza personale che li affliggerÀ per sempre.

Come la speranza, anche l'ottimismo È un fattore predittivo del successo scolastico. In uno studio su cinquecento studenti appena immatricolati nel 1984 alla Pennsylvania University, i punteggi ottenuti in un test sull'ottimismo si rivelarono un miglior fattor predittivo delle votazioni del primo anno di quanto non fossero i punteggi conseguiti nei test Sat o le stesse votazioni di diploma. Seligman, che studiÃ’ questi soggetti, afferma: “Gli esami di ammissione all'universitÀ misurano il talento, mentre il modo in cui un individuo spiega i propri insuccessi puÃ’ dirci se ha un atteggiamento rinunciatario. E' la combinazione di un ragionevole talento con la capacitÀ di resistere alla sconfitta che porta al successo. Quello che manca nei test di abilitÀ È una misura della motivazione. E' necessario sapere se un individuo continuerÀ ad andare avanti anche quando la situazione diventerÀ frustrante. La mia impressione È che, dato un determinato livello di intelligenza, il reale successo di un individuo sia funzione non solo del talento, ma anche della capacitÀ di sopportare la sconfitta” (23).

Una delle dimostrazioni piÙ eloquenti del potere dell'ottimismo come fattore motivante È stata ottenuta da uno studio di Seligman sugli agenti della compagnia assicurativa MetLife. In qualunque tipo di vendita È essenziale saper accogliere un rifiuto facendo buon viso a cattivo gioco, ma questa capacitÀ diventa fondamentale quando si ha a che fare con un prodotto come le polizze assicurative, per le quali il rapporto fra rifiuti e contratti stipulati puÒ essere tanto alto da scoraggiare. Per questo motivo circa tre quarti degli agenti assicurativi abbandonano il loro lavoro nell'arco dei primi tre anni. Seligman scoprÌ che, nei primi due anni di lavoro, fra i nuovi venditori, quelli che erano per loro natura ottimisti vendevano il 37 per cento in piÙ rispetto ai colleghi pessimisti. E durante il primo anno, i pessimisti abbandonavano il lavoro con una frequenza doppia rispetto agli ottimisti.

Ma non basta: Seligman persuase la MetLife ad assumere un particolare gruppo di aspiranti agenti che aveva ottenuto un elevato punteggio in un test per l'ottimismo ma aveva fallito la normale selezione (in cui una gamma di capacitÀ viene valutata confrontando le risposte degli aspiranti con un profilo standard basato sulle risposte fornite da agenti di successo). Nel primo e nel secondo anno di lavoro, le vendite concluse da questo particolare gruppo superarono quelle dei pessimisti rispettivamente del 21 e del 57 per cento. La ragione per cui l'ottimismo conferisce un cosÃŒ grande vantaggio in un lavoro di vendita È che si tratta di un atteggiamento intelligente dal punto di vista emozionale. Per un venditore, ogni rifiuto equivale a dover incassare una piccola sconfitta. Il modo in cui l'individuo reagisce emozionalmente a quella sconfitta È fondamentale per la capacitÀ di darsi una motivazione sufficiente ad andare avanti. Quando gli insuccessi aumentano, il morale piÙ deteriorarsi rendendo sempre piÙ problematico il semplice gesto di alzare il telefono per la chiamata successiva. Il rifiuto È particolarmente difficile da sopportare per un individuo di indole pessimista, che lo interpreta dicendo a se stesso “Sono un vero fallimento in questo campo; non riuscirÃ’ a vendere nemmeno un chiodo” - un atteggiamento sicuramente destinato a suscitare apatia e disfattismo, se non anche depressione. Gli ottimisti, d'altro canto, dicono a se stessi “Sto usando l'approccio sbagliato” oppure “L'ultima persona che ho chiamato doveva essere di cattivo umore, tutto qui”. Individuando la ragione del proprio fallimento non in se stessi, ma in qualche aspetto della circostanza, essi riescono a modificare il proprio approccio nella telefonata successiva. Mentre la disposizione mentale del pessimista conduce alla disperazione, quella dell'ottimista diffonde speranza.

La 'forma mentis' positiva o negativa puÒ benissimo dipendere dal temperamento innato; alcune persone tendono per natura verso l'uno o l'altro atteggiamento. Ma come vedremo anche nel capitolo 14, il temperamento puÒ essere modificato dall'esperienza. L'ottimismo e la speranza - proprio come il senso di impotenza e la disperazione - possono essere appresi. Alla base di entrambi c'È una visione che gli psicologi chiamano 'self-efficacy', ossia la convinzione di avere il controllo sugli eventi della propria vita e di poter accettare le sfide nel momento in cui esse si presentano. Lo sviluppo di una competenza di qualunque tipo rafforza questa sensazione aumentando la disponibilitÀ dell'individuo a correre dei rischi e a tentare imprese sempre piÙ difficili. A sua volta, il superare queste difficoltÀ aumenta il senso di 'self-efficacy'. Questo atteggiamento aumenta le probabilitÀ che gli individui facciano il miglior uso delle proprie capacitÀ - o che facciano quanto È necessario per svilupparle.

Albert Bandura, uno psicologo di Stanford che ha compiuto gran parte delle ricerche sulla 'self-efficacy', riassume bene questo concetto: “Le convinzioni che le persone nutrono sulle proprie capacitÀ hanno un profondo effetto su queste ultime. La capacitÀ non È una proprietÀ fissa; c'È un'enorme variabilitÀ di prestazioni. Chi È dotato di 'self-efficacy' si riprende dai fallimenti; costoro si accostano alle situazioni pensando a come fare per gestirle, senza preoccuparsi di ciÃ’ che potrebbe eventualmente andare storto” (24).

- Il flusso, ossia la neurobiologia dell'eccellenza.

Ecco come un compositore descrive i momenti in cui dÀ il meglio di sé nel proprio lavoro:

'Ti trovi in un tale stato di estasi che ti senti quasi come se non esistessi. L'ho sperimentato diverse volte di persona. La mia mano sembra non avere legami con me, e io non ho nulla a che fare con ciÒ che sta accadendo. Me ne sto semplicemente seduto lÌ a guardare, in uno stato di timore reverenziale e meraviglia. E tutto questo poi scorre via dileguandosi' (25).

Questa descrizione È eccezionalmente simile a quelle di centinaia di altri uomini e donne - scalatori, campioni di scacchi, chirurghi, giocatori di pallacanestro, ingegneri, dirigenti, e perfino archivisti quando parlano di un momento nel quale hanno superato se stessi in un'attivitÀ che amano. Lo stato che essi descrivono È stato definito “flusso” da Mihaly Csikszentmihalyi, lo psicologo della Chicago University che nel corso di vent'anni di ricerche ha raccolto molte di queste descrizioni di prestazioni ad alto livello (26). Gli atleti conoscono questo stato di grazia come “the zone” - la zona - lÀ dove l'eccellenza non richiede sforzo, e la folla e gli avversari spariscono in uno stato di beato e costante assorbimento nell'attimo presente. Diane Roffe-Steinrotter, la sciatrice che colse un oro alle Olimpiadi invernali del 1994, dopo aver terminato la sua gara disse di non ricordarne nulla, tranne di essere sprofondata in uno stato di rilassamento: “Mi sentivo come una cascata” (27).

Riuscire a entrare nel flusso È la massima espressione dell'intelligenza emotiva; il flusso rappresenta forse il massimo livello di imbrigliamento e sfruttamento delle emozioni al servizio della prestazione e dell'apprendimento. Nel flusso le emozioni non sono solamente contenute e incanalate, ma positive, energizzate e in armonia con il compito cui ci si sta dedicando. Essere intrappolati nella noia della depressione o nell'agitazione dell'ansia significa essere fuori dal flusso. CiÒ nonostante il flusso (o forse una sorta di microflusso) È un'esperienza che quasi tutti di tanto in tanto sperimentano, soprattutto quando le prestazioni uguagliano o superano i limiti personali. Il modo migliore per descrivere questo stato È forse quello di ricorrere alla metafora di due persone che fanno l'amore e sono colte dall'estasi - la fusione di due individui in un'unica entitÀ, al tempo stesso fluida e armoniosa.

Questa esperienza È stupenda: la caratteristica del flusso È una sensazione di gioia spontanea, perfino di rapimento. Poiché il flusso ci fa sentire cosÃŒ bene, esso È di per se stesso gratificante. Si tratta di uno stato in cui la consapevolezza si fonde con le azioni e nel quale gli individui sono assorbiti in ciÃ’ che stanno facendo e prestano attenzione esclusivamente al loro compito. In veritÀ, riflettere troppo su ciÃ’ che sta accadendo - lo stesso pensiero “sto facendo un lavoro fantastico” - puÃ’ interrompere la sensazione del flusso. L'attenzione È talmente concentrata che gli individui sono consapevoli solo della ristretta gamma di percezioni immediatamente legate a ciÃ’ che stanno facendo, e perdono ogni cognizione dello spazio e del tempo. Un chirurgo, ad esempio, ricordava una difficile operazione nel corso della quale era entrato in uno stato di flusso; una volta terminato l'intervento, notÃ’ delle macerie sul pavimento della sala operatoria e chiese che cosa fosse accaduto. Rimase sorpreso nel sentire che mentre era intento al suo lavoro, parte del soffitto era crollata: al momento non ci aveva minimamente fatto caso.

Il flusso È uno stato in cui l'individuo si disinteressa di sé, l'opposto del rimuginare e del preoccuparsi. Invece di perdersi nella preoccupazione e nel nervosismo, gli individui sono talmente assorbiti da quanto stanno facendo che perdono completamente la consapevolezza di se stessi e si spogliano delle piccole preoccupazioni della vita quotidiana - salute, conti, e perfino l'ansia di far bene. In questo senso, i momenti di flusso sono privi di ego. Paradossalmente, l'individuo in stato di flusso mostra un controllo magistrale su ciÃ’ che sta facendo e le sue risposte sono perfettamente sincronizzate con le mutevoli esigenze della circostanza. Sebbene l'individuo in uno stato di flusso dia prestazioni al massimo livello, non È mai preoccupato di far bene, non indugia a pensare al successo o al fallimento: il puro e semplice piacere dell'atto in se stesso basta a motivarlo.

Ci sono diversi modi per entrare nel flusso. Uno È quello di concentrarsi esclusivamente e intenzionalmente su ciÒ che si sta facendo; uno stato di profonda concentrazione È l'essenza stessa del flusso. All'ingresso di questa zona, sembra esserci un circuito a 'feedback'; forse, per trovare la calma e la concentrazione indispensabili per cominciare È necessario uno sforzo considerevole, un primo passo che richiede una certa disciplina. Ma una volta che la concentrazione comincia ad affermarsi, essa si autoalimenta, sia offrendo un sollievo dai turbamenti emotivi, sia consentendo di eseguire il compito senza sforzo.

L'individuo puÃ’ entrare in questa “zona” anche quando trova un'attivitÀ nella quale È abile e vi si impegna a un livello che gli richiede un leggero sforzo. Come mi disse Csikszentmihalyi: “Gli individui sembrano concentrarsi in modo ottimale quando si richiede loro qualcosa in piÙ del solito, ed essi sono in grado di darlo. Se si pretende troppo poco, si annoiano. Se devono tenere sotto controllo troppe cose, diventano ansiosi. Il flusso È possibile in quella fragile zona che si trova fra la noia e l'ansia” (28).

Il piacere spontaneo, la grazia e l'efficacia che caratterizzano il flusso sono incompatibili con i “sequestri” emozionali, nei quali gli impulsi provenienti dal sistema limbico tengono sotto sequestro, appunto, il resto del cervello. Nel flusso l'attenzione È rilassata pur essendo altamente concentrata. Si tratta di una concentrazione molto diversa da quella che si ottiene quando, stanchi o annoiati, si cerca di prestare attenzione a qualcosa; diversa da quando la nostra mente È messa sotto assedio da sentimenti invadenti e importuni quali l'ansia o la collera.

Il flusso È uno stato privo di interferenze emotive - se si esclude un leggero sentimento di estasi, irresistibile, e altamente motivante. Quell'estasi sembra essere un prodotto collaterale della concentrazione, quella stessa concentrazione che È un prerequisito del flusso. In veritÀ, la letteratura sulle tradizioni contemplative classiche descrive stati di assorbimento mentale sperimentati come pura beatitudine: un flusso indotto da nulla piÙ che un'intensa concentrazione.

Osservare qualcuno che si trova nello stato di flusso dÀ l'impressione che i compiti difficili siano facili; la prestazione ad altissimo livello sembra naturale e comune. Questa impressione riflette ciÃ’ che accade nel cervello, dove si ha un paradosso simile: i compiti piÙ difficili sono eseguiti con un dispendio di energia mentale minimo. Il cervello in stato di flusso È “freddo”; lo stato di attivazione e di inibizione dei circuiti neurali È in perfetta armonia con quanto È richiesto dalle circostanze. Quando l'individuo si impegna in attivitÀ che attirano senza sforzo la sua attenzione mantenendola poi concentrata, il suo cervello si “calma”, nel senso che si ha una riduzione dello stato di attivazione cerebrale (29). Questa scoperta È notevole, dal momento che lo stato di flusso consente agli individui di affrontare le imprese piÙ difficili, sia che si tratti di giocare contro un maestro di scacchi, sia che si debba risolvere un complesso problema matematico. Ci si aspetterebbe che queste imprese cosÃŒ impegnative richiedano una 'maggiore' attivitÀ corticale, non il contrario. Ma uno degli aspetti chiave del flusso È proprio che esso si manifesta solo nell'intorno dell'eccellenza, lÀ dove le capacitÀ sono ben esercitate e i circuiti neurali piÙ efficienti.

Una concentrazione forzata - alimentata dalla preoccupazione - produce un aumento dell'attivitÀ corticale. Ma la zona del flusso e della prestazione ottimale sembra essere un'oasi di efficienza corticale, nella quale viene consumato un minimo indispensabile di energia mentale. Questo È logico, forse, se si pensa al tipo di attivitÀ magistrale che consente all'individuo di entrare nel flusso: avendo la padronanza delle mosse necessarie per compiere una data impresa - di tipo fisico, come scalare una parete di roccia, o di tipo mentale, come programmare un computer - il cervello puÒ essere piÙ efficiente. I movimenti ben esercitati richiedono uno sforzo cerebrale molto inferiore di quelli appena appresi o ancora troppo difficili. Allo stesso modo, quando il cervello sta lavorando in modo meno efficiente a causa dell'affaticamento o del nervosismo, come accade, ad esempio, alla fine di una giornata lunga e stressante, si ha una riduzione della precisione corticale, accompagnata dall'attivazione di troppe aree; uno stato neurale che a livello soggettivo viene percepito come una notevole distrazione (30). Lo stesso accade nel caso della noia. Ma quando il cervello funziona al massimo dell'efficienza, come nel flusso, c'È una precisa relazione fra le aree attive e le esigenze del compito che si sta svolgendo. In questo stato, anche il lavoro piÙ gravoso invece di sfinirci sembra darci piacevolmente la carica.

- Apprendimento e flusso: un nuovo modello di educazione.

Poiché il flusso emerge nella “zona” in cui un'attivitÀ stimola l'individuo ad esprimere al meglio le proprie capacitÀ, con l'aumentare di queste ultime, per entrare nel flusso saranno necessari maggiori stimoli. Se un compito È troppo semplice, risulta noioso; se È troppo difficile, genera ansia invece di guidarci nel flusso. Si puÃ’ sostenere che la maestria È stimolata dall'esperienza del flusso - in altre parole, che la motivazione a fare qualcosa sempre meglio, si tratti di suonare il violino, di ballare o di compiere ricerche di genetica molecolare, consiste, almeno in parte, in uno stato di flusso durante l'esecuzione. In effetti, in uno studio compiuto su duecento artisti a distanza di diciott'anni dal momento in cui avevano lasciato la scuola d'arte, Csikszentmihalyi scoprÃŒ che erano diventati artisti veri solo quelli che da studenti avevano assaporato la gioia pura e semplice del dipingere. I soggetti che ai tempi dell'accademia avevano attinto le loro motivazioni nei sogni di fama e di denaro, in massima parte abbandonarono l'arte una volta preso il diploma.

Csikszentmihalyi conclude: “I pittori devono desiderare, sopra ogni altra cosa, dipingere. Se di fronte alla sua tela l'artista comincia a chiedersi a quanto potrÀ venderla, o che cosa ne penseranno i critici, egli non riuscirÀ ad aprire nuovi orizzonti. La realizzazione creativa dipende dalla dedizione totale a un unico scopo” (31).

Proprio come il flusso È un prerequisito per raggiungere l'eccellenza in un mestiere, in una professione o in un'arte, lo stesso vale anche per l'apprendimento. In modo assolutamente indipendente dalle potenzialitÀ misurate dai test di rendimento scolastico, i giovani che quando studiano entrano in uno stato di flusso riescono meglio. Gli studenti di una scuola a indirizzo scientifico di Chicago - i cui allievi, sottoposti a un test avanzato di matematica si erano tutti classificati fra i migliori, e cioÈ in quel 5 per cento che costituiva la fascia superiore - vennero classificati dai loro insegnanti come soggetti ad alto o basso rendimento. Poi venne monitorato il modo in cui essi erano soliti passare il loro tempo; ogni studente portava con sé un cicalino che suonava a caso in diversi momenti della giornata; in corrispondenza del segnale gli studenti dovevano mettere per iscritto l'attivitÀ nella quale erano impegnati e specificare di quale umore fossero. Non deve sorprendere il fatto che i soggetti a “basso rendimento” passassero solo circa quindici ore alla settimana studiando a casa, molto di meno delle ventisette totalizzate dai loro compagni ad “alto rendimento”. I soggetti a basso rendimento passavano la maggior parte delle ore non dedicate allo studio impegnandosi in attivitÀ di socializzazione, frequentando amici o familiari.

Quando si passÃ’ ad analizzare i loro stati d'animo, emerse un risultato significativo. Tutti i soggetti, a “basso” o “alto rendimento” passavano moltissimo tempo durante la settimana in attivitÀ che trovavano noiose, e che non stimolavano in alcun modo le loro capacitÀ, ad esempio guardando la televisione. Questo, dopo tutto, È il destino dei teenager. Ma la differenza fondamentale stava nel loro modo di vivere l'esperienza dello studio. Ai soggetti ad “alto rendimento”, esso procurava la stimolazione piacevole e coinvolgente tipica del flusso nel 40 per cento del tempo che vi dedicavano. Ma nel caso dei soggetti a “basso rendimento”, lo studio produceva uno stato di flusso solo nel 16 per cento del tempo che vi veniva dedicato; molto spesso, invece, esso generava ansia, e l'impresa si rivelava superiore alle loro capacitÀ. I soggetti a “basso rendimento” non provavano piacere né entravano nello stato di flusso mentre studiavano, ma quando si dedicavano alle attivitÀ di socializzazione. In breve, gli studenti che ottengono risultati pari o superiori al loro potenziale vengono attratti dallo studio perché questa attivitÀ li guida in uno stato di flusso. Purtroppo, i soggetti a “basso rendimento”, non desiderando impegnarsi nelle attivitÀ che li avrebbero guidati al flusso, vengono privati della gioia dello studio e corrono il rischio di veder limitato il livello intellettuale delle attivitÀ che troveranno piacevoli in futuro (32).

Howard Gardner, lo psicologo di Harvard che ha sviluppato la teoria delle intelligenze multiple, ritiene che il flusso, e gli stati positivi che lo caratterizzano, facciano parte del modo piÙ salutare di insegnare ai bambini, quello cioÈ di dar loro una motivazione interiore, invece di spronarli con le minacce o con la promessa di una ricompensa. “Dovremmo usare gli stati mentali positivi dei bambini per attrarli verso l'apprendimento negli ambiti in cui essi possono sviluppare delle competenze” mi disse Gardner. “Il flusso È uno stato interiore che indica che il bambino È impegnato in modo corretto. Essi devono trovare qualcosa che gli piaccia, e farla. Quando si annoiano, i bambini diventano aggressivi e fanno capricci, mentre quando sono sopraffatti da un compito diventano ansiosi sul proprio rendimento scolastico. Ma quando c'È qualcosa che ci interessa veramente e riusciamo a trarre piacere dall'impegno che essa ci richiede, allora impariamo al meglio.”

La strategia adottata in molte scuole dove si sta mettendo in pratica il modello delle intelligenze multiple di Gardner È imperniata sull'identificazione del profilo di competenze naturali del bambino, facendo leva sui suoi punti di forza e puntellando i suoi lati deboli. Un bambino che abbia un talento naturale per la musica o il movimento, ad esempio, entrerÀ in uno stato di flusso piÙ facilmente in quegli ambiti che non in altri nei quali È meno capace. La conoscenza del profilo del bambino puÃ’ aiutare l'insegnante a presentargli un argomento nel modo a lui piÙ congeniale, cosÃŒ da fornirgli una stimolazione ideale, sia che ci si trovi al livello di un corso di recupero, che a quello di un corso avanzato. In questo modo l'apprendimento diventa piÙ piacevole, ben lontano dal risvegliare paure o dal suscitare la noia. “La nostra speranza È che, riuscendo a entrare in uno stato di flusso mentre apprendono, i bambini siano incoraggiati ad accettare sfide anche in altre aree” afferma Gardner, aggiungendo che, stando all'esperienza, effettivamente avviene proprio cosÃŒ.

PiÙ in generale, il modello del flusso indica che il raggiungimento dell'eccellenza in una qualunque capacitÀ o campo di conoscenze dovrebbe, in linea ideale, avvenire in modo naturale, quando il bambino viene attratto nelle aree che suscitano spontaneamente il suo interesse - essenzialmente in quelle che gli piacciono. Quando il bambino comprende che l'impegno in quel campo - non importa se si tratta della danza, della matematica o della musica - È fonte del piacere assicurato dallo stato di flusso, questa passione iniziale puÃ’ rappresentare il punto di partenza per raggiungere elevati livelli di prestazione. E poiché il mantenimento dello stato di flusso comporta che si superino i limiti delle proprie abilitÀ, ecco una motivazione fondamentale per fare sempre meglio - qualcosa che rende il bambino felice. Quello che abbiamo appena delineato, naturalmente, È un modello dell'apprendimento e dell'educazione piÙ positivo di quello con cui la maggior parte di noi si È scontrata a scuola. Chi non ricorda la scuola, almeno in parte, come una serie di noiosissime interminabili ore disseminate qua e lÀ da momenti di grande ansia? Cercare lo stato di flusso attraverso l'apprendimento È un modo piÙ umano, naturale e probabilmente anche piÙ efficace per mettere le emozioni al servizio dell'educazione.

In generale, tutto questo conferma quanto sia fondamentale la capacitÀ di incanalare le emozioni verso il raggiungimento di un fine produttivo; essa puÒ manifestarsi nel controllo degli impulsi e nel rinvio delle gratificazioni, nel regolare i nostri stati d'animo in modo che essi facilitino invece di ostacolare il pensiero razionale, nel trovare la motivazione per insistere e provare - provare ancora - nonostante gli insuccessi, oppure nel trovare i modi per entrare nello stato di flusso e dare quindi prestazioni ottimali: in ogni caso, tutti questi comportamenti indicano che, applicata ai nostri sforzi, l'emozione puÒ rivelarsi un motore potente, capace di dare loro maggiore efficacia.

7. LE RADICI DELL'EMPATIA.

Torniamo a Gary, il brillante chirurgo alessitimico che faceva tanto soffrire la fidanzata Ellen ignorando non solo i propri sentimenti, ma anche quelli di lei. Come la maggior parte degli alessitimici, egli mancava di empatia e di intuito. Se Ellen diceva di sentirsi giÙ, Gary non la capiva, né riusciva a condividere il suo stato; se lei parlava d'amore, lui cambiava argomento. Gary criticava in modo “costruttivo” le azioni di Ellen, senza rendersi conto che questo atteggiamento non la aiutava, ma la faceva sentire attaccata.

L'empatia si basa sull'autoconsapevolezza; quanto piÙ aperti siamo verso le nostre emozioni, tanto piÙ abili saremo anche nel leggere i sentimenti altrui (1). Gli alessitimici come Gary, che non hanno alcuna idea di ciÒ che essi stessi provano, sono completamente perduti quando devono sapere che cosa senta chiunque altro intorno a loro. Dal punto di vista emotivo, È come se fossero sordi. Si lasciano sfuggire tutte le coloriture emotive delle parole e delle azioni altrui - un particolare tono di voce, un significativo cambiamento di posizione, un silenzio eloquente o un tremito rivelatore.

Confusi sui propri sentimenti, gli alessitimici sono ugualmente sconcertati quando altre persone esprimono i loro. Questa incapacitÀ di registrare i sentimenti altrui È un gravissimo deficit dell'intelligenza emotiva ed È una tragica menomazione del nostro essere umani. In qualunque tipo di rapporto, la radice dell'interesse per l'altro sta nell'entrare in sintonia emozionale, nella capacitÀ di essere empatici.

Questa capacitÀ, che ci consente di sapere come si sente un altro essere umano, entra in gioco in moltissime situazioni, da quelle tipiche della vita professionale - si pensi alla giornata lavorativa di un venditore o un dirigente - a quelle della vita privata - le relazioni sentimentali e i rapporti fra genitori e figli - o ancora, nella compassione e nell'azione politica. Anche l'assenza di empatia È significativa: essa si osserva nei criminali psicopatici, negli stupratori e nei molestatori di bambini.

Raramente le emozioni dell'individuo vengono verbalizzate; molto piÙ spesso esse sono espresse attraverso altri segni. La chiave per comprendere i sentimenti altrui sta nella capacitÀ di leggere i messaggi che viaggiano su canali di comunicazione non verbale: il tono di voce, i gesti, l'espressione del volto, e simili. Insieme ai suoi studenti, Robert Rosenthal, uno psicologo di Harvard, È probabilmente l'autore delle ricerche piÙ estese sulla capacitÀ umana di leggere questi messaggi non verbali. Rosenthal ha messo a punto un test per saggiare l'empatia, il Pons (Profile of Nonverbal Sensitivity, Profilo della sensibilitÀ non verbale); il test si avvale di una serie di videocassette nelle quali una giovane donna esprime sentimenti che vanno dall'ilaritÀ all'amore materno (2). Le scene spaziano dalla rappresentazione di una violenta gelosia alla richiesta di perdono, da una manifestazione di gratitudine a una seduzione. Il video È stato girato in modo da oscurare, in ciascun ritratto, uno o piÙ canali di comunicazione non verbale; in alcune scene, ad esempio, oltre ad essere stato escluso l'audio, sono stati bloccati tutti gli altri canali, tranne quello rappresentato dall'espressione facciale. In altre scene, vengono mostrati solo i movimenti del corpo, e cosÌ via, per tutti i principali canali di comunicazione non verbale; in questo modo gli osservatori sono costretti a individuare l'emozione servendosi di un unico canale.

Nei test, condotti su piÙ di settemila persone negli Stati Uniti e in altri diciotto paesi, la capacitÀ di leggere i sentimenti altrui da indizi non verbali comportava diversi vantaggi, fra i quali una maggiore adeguatezza emotiva, simpatia, estroversione e - il che non dovrebbe sorprendere - una maggiore sensibilitÀ. In generale, le donne sono piÙ brave degli uomini in questo tipo di empatia. Gli individui la cui prestazione andava migliorando nel corso dei quarantacinque minuti del test - segno, questo, che erano in grado di fare appello all'empatia - avevano anche rapporti migliori con l'altro sesso. L'empatia aiuta nella vita sentimentale, e neanche questo dovrebbe sorprenderci.

In conformitÀ con i risultati ottenuti relativamente ad altri elementi dell'intelligenza emotiva, fra i punteggi Pons assegnati all'acuitÀ empatica e i punteggi Sat, il Q.I. o i test di rendimento scolastico vennero riscontrate solo correlazioni casuali. L'indipendenza dell'empatia dall'intelligenza accademica È stata confermata anche usando una versione del Pons ideata appositamente per i bambini. Nei test, eseguiti su 1011 bambini, i soggetti con attitudine a leggere i sentimenti espressi in modo non verbale erano fra i piÙ amati dai loro compagni, e al tempo stesso quelli emotivamente piÙ stabili (3). Questi soggetti avevano inoltre un rendimento scolastico migliore, anche se, in media, i loro Q.I. non erano piÙ alti di quelli di bambini meno abili nella lettura dei messaggi non verbali - il che mostra come l'empatia faciliti il buon rendimento scolastico (o anche, come porti gli insegnanti a preferire i soggetti empatici agi altri).

Se È vero che la normale modalitÀ di espressione della mente razionale È la parola, quella delle emozioni È invece di natura non verbale. Quando le parole di un individuo non sono in armonia con quanto egli comunica con il tono di voce, i gesti o altri canali non verbali, la veritÀ va ricercata nel 'come' quell'individuo sta comunicando, non tanto in ciÒ che dice. Una regola empirica usata nella ricerca sulla comunicazione È che il 90 per cento o piÙ di un messaggio emotivo viene comunicato attraverso canali non verbali. E tali messaggi - l'ansia che traspare dal tono di voce, l'irritazione tradita dalla rapiditÀ di un gesto - sono quasi sempre recepiti in modo inconscio, senza prestare particolare attenzione alla natura del messaggio stesso, ma semplicemente ricevendolo e rispondendogli. Le capacitÀ che ci consentono di fare ciÒ in modo piÙ o meno efficace vengono, in massima parte, apprese in modo implicito.

- Come si sviluppa l'empatia.

Quando Hope, di soli nove mesi, vide un'altra bambina cadere, gli occhi le si riempirono di lacrime; la piccola arrancÃ’ carponi dalla mamma per farsi consolare, come se a farsi male fosse stata lei, e non l'amichetta. E Michael, di quindici mesi, andÃ’ a prendere il proprio orsacchiotto per darlo al suo amico Paul, che piangeva; poiché quello continuava a disperarsi, Michael andÃ’ a prendergli la copertina che usava per farsi coraggio. Entrambi questi piccoli atti di comprensione e premura vennero osservati da madri istruite a registrare tali episodi di empatia quando si verificavano (4). I risultati dello studio indicano che È possibile rintracciare il germe dell'empatia fin nella prima infanzia. Praticamente, dal giorno stesso della nascita i neonati sono turbati dal pianto di un altro bambino - una reazione che alcuni considerano come il precursore dell'empatia (5).

Gli psicologi dello sviluppo hanno scoperto che i bambini molto piccoli provano sentimenti di sofferenza simpatica prima di rendersi pienamente conto della propria esistenza come entitÀ separata dalle altre. Anche a pochi mesi dalla nascita, i bambini reagiscono al turbamento altrui come a un turbamento proprio, ad esempio piangendo alla vista delle lacrime di un altro bambino. A circa un anno, in una situazione analoga, cominciano a rendersi conto che la sofferenza non appartiene a loro ma a qualcun altro, sebbene sembrino ancora confusi sul da farsi. In una ricerca condotta da Martin L. Hoffman alla New York University, ad esempio, un bambino di un anno portÃ’ la propria madre da un amichetto che piangeva affinché lo confortasse, ignorando la madre del bambino, che si trovava anch'essa nella stanza. Questa confusione si osserva anche quando, intorno a un anno di etÀ, i bambini imitano la sofferenza altrui, forse per meglio comprendere ciÃ’ che l'altro sta provando; ad esempio, se una bambina si fa male alle dita, un'altra bimbetta di un anno potrebbe mettersi la mano in bocca per vedere se fa male anche a lei. Alla vista del pianto della sua mamma, un bambino si stropicciÃ’ gli occhi, sebbene non ci fossero lacrime da asciugare.

Questo 'mimetismo motorio', come viene chiamato, È il significato tecnico originale della parola 'empatia', nell'accezione in cui essa venne usata la prima volta negli anni Venti da E. B. Titchener, uno psicologo americano. Questo significato È leggermente diverso da quello con il quale la parola greca 'empatheia', “sentire dentro”, venne originariamente introdotta nell'inglese: si trattava di un termine inizialmente usato dai teorici dell'estetica per indicare la capacitÀ di percepire l'esperienza soggettiva altrui. Secondo la teoria di Titchener, l'empatia scaturiva da una sorta di imitazione fisica della sofferenza altrui, che poi evocava gli stessi sentimenti anche nell'imitatore. Egli cercava una parola che fosse distinta da 'simpatia', la benevola compassione che si puÃ’ provare per la sofferenza altrui ma che non comporta alcuna condivisione. Il mimetismo motorio svanisce dal repertorio dei bambini intorno all'etÀ di due anni e mezzo, quando essi capiscono che il dolore altrui È diverso dal proprio e riescono a consolare meglio gli altri. Ecco un tipico episodio, tratto dal diario di una madre:

'Il bambino di una vicina piange e Jenny si avvicina e prova a dargli dei biscotti. Lo segue e comincia a piagnucolare anche lei. Poi cerca di accarezzargli i capelli, ma lui la respinge Il bambino si calma ma Jenny sembra ancora preoccupata. Continua a portargli giocattoli e a battergli amichevolmente la manina sulla testa e le spalle' (6).

A questo punto del loro sviluppo i bambini cominciano a differire gli uni dagli altri per la loro sensibilitÀ verso i turbamenti emotivi altrui; alcuni, come Jenny, ne sono acutamente consapevoli, mentre altri sembrano desintonizzarsi. Una serie di studi condotti da Marian Radke-Yarrow e Carolyn Zahn-Waxler al National Institute of Mental Health ha dimostrato che gran parte di questa differenza di empatia era legata al modo in cui i genitori riprendevano i propri figli. I bambini erano piÙ empatici quando il rimprovero comprendeva un forte richiamo dell'attenzione sulla sofferenza e il disagio che il loro comportamento sbagliato aveva causato a qualcun altro. In altre parole, quando essi dicevano: “Guarda come l'hai fatta soffrire”, invece di “E' stata una cattiveria”. Radke-Yarrow e Zahn-Waxler scoprirono inoltre che l'empatia dei bambini si forma osservando il modo in cui gli altri reagiscono alla sofferenza altrui; imitando ciÃ’ che vedono, i bambini sviluppano un repertorio di risposte empatiche, che usano soprattutto quando aiutano altre persone che stanno soffrendo.

- Il bambino ben sintonizzato.

Sarah aveva venticinque anni quando diede alla luce due gemelli, Mark e Fred. Mark, secondo lei, le somigliava di piÙ, mentre Fred era piÙ simile al padre. Questa percezione probabilmente fu all'origine della differenza, significativa sebbene appena percettibile, del suo modo di trattare i due bambini. Quando i gemelli ebbero tre mesi, Sarah cercava spesso di incrociare lo sguardo di Fred, e quando lui girava la faccia, lei cercava nuovamente di guardarlo negli occhi; Fred rispondeva allora voltandosi piÙ enfaticamente. Quando la madre desisteva, Fred ricominciava a guardarla, e il ciclo di inseguimento e allontanamento ricominciava daccapo - spesso con il risultato di lasciare Fred in lacrime. Con Mark, invece, Sarah non cercÃ’ mai di imporre il contatto visivo come faceva con Fred. Mark poteva interrompere il contatto quando voleva, e lei non cercava di ristabilirlo. Una differenza piccola, certo, ma significativa. Un anno piÙ tardi, Fred era considerevolmente piÙ pauroso di Mark; uno dei modi in cui mostrava la sua paura era di interrompere il contatto visivo con le altre persone, proprio come faceva con la madre all'etÀ di tre mesi, distogliendo lo sguardo o abbassandolo. Mark, d'altro canto, guardava la gente dritto negli occhi; quando voleva interrompere il contatto, girava leggermente la testa verso l'alto e poi di lato, con un sorriso di vittoria. Sarah e i suoi gemelli vennero osservati cosÃŒ meticolosamente nell'ambito di una ricerca condotta da Daniel Stern, uno psichiatra che allora lavorava alla facoltÀ di medicina della Cornell University (7). Stern È affascinato dai piccoli, ripetuti scambi che hanno luogo fra genitori e figli; e crede che i fondamenti della vita emotiva vengano posti in questi momenti di grande intimitÀ. Di tutti questi istanti, i piÙ critici sono quelli che consentono al bambino di sapere che le sue emozioni incontrano l'empatia dell'altro, sono accettate e ricambiate, in un processo che Stern chiama 'attunement' - “sintonizzazione”. La madre dei gemelli era in sintonia emotiva con Mark, mentre non lo era con Fred. Stern sostiene che gli infiniti momenti di sintonizzazione e desintonizzazione fra genitori e figli plasmano le aspettative emotive che gli adulti immettono nel rapporto - forse molto di piÙ di quanto non facciano gli eventi piÙ drammatici dell'infanzia.

La sintonizzazione avviene tacitamente: viene inserita come un elemento ritmico della relazione. Stern ha studiato il processo con precisione microscopica videoregistrando per ore il comportamento delle madri con i propri bambini. Egli ha scoperto che attraverso la sintonizzazione, le madri comunicano ai figli di percepire i loro sentimenti. Supponiamo, ad esempio, che una bambina emetta un gridolino di piacere: la madre confermerÀ quella sensazione dondolandola leggermente, parlando amorevolmente con lei o intonando la propria voce su quella della piccola. Oppure, immaginiamo che un bambino scuota il suo sonaglio e che la madre gli risponda con un rapido dondolio. In questo tipo di interazione, il messaggio di conferma sta nel fatto che la madre presenta piÙ o meno lo stesso livello di eccitazione del piccolo. Questi piccoli gesti finalizzati a entrare in sintonia con il proprio bambino danno a quest'ultimo la sensazione rassicurante di essere emotivamente collegato alla madre: Stern ha riscontrato che quando interagiscono con i figli le madri emettono questo messaggio circa una volta al minuto. La sintonizzazione È molto diversa dalla semplice imitazione. “Se imiti un bambino” mi disse Stern “questo dimostra solamente che sai quel che egli sta facendo ma non come effettivamente si senta mentre lo fa. Se vuoi comunicargli che percepisci le sue sensazioni, devi riprodurgli i suoi sentimenti interiori in un altro modo. E' solo allora che il bambino sa di essere compreso.”

Nella vita adulta, il fare l'amore È l'atto che forse si avvicina di piÙ a questa sintonizzazione fra madre e figlio. Secondo Stern, l'atto sessuale “implica la percezione dello stato soggettivo dell'altro: la condivisione del desiderio, un'armonia di intenzioni, e un'attivazione reciproca sincronizzata”; le risposte degli amanti mostrano una sintonia che dÀ implicitamente la percezione di un rapporto profondo (8). Nel migliore dei casi, fare l'amore È un atto di empatia reciproca; nel peggiore, invece, esso manca completamente di questa reciprocitÀ emotiva.

- Il prezzo della mancata sintonizzazione.

Stern sostiene che il bambino, facendo riferimento a questi ripetuti momenti di sintonizzazione, comincia a sviluppare la percezione che gli altri possano e vogliano condividere i suoi sentimenti. Questa sensazione sembra emergere intorno agli otto mesi, quando il bambino comincia a capire di essere un'entitÀ separata dagli altri, per poi continuare, durante tutta la vita, a formarsi attraverso le relazioni intime. Quando i genitori non sono in sintonia con il figlio, la situazione induce in lui un profondo turbamento. In un esperimento, Stern fece in modo che le madri rispondessero deliberatamente troppo o troppo poco ai propri bambini, invece di entrare in sintonia con loro; i bambini reagivano immediatamente con preoccupazione e disagio.

La prolungata assenza di sintonia fra genitori e figli impone al bambino un costo enorme in termini emozionali. Quando un genitore non riesce mai a mostrare alcuna empatia con una particolare gamma di emozioni del bambino - gioia, pianto, bisogno di essere cullato - questi comincia a evitare di esprimerle, e forse anche di provarle. In questo modo, presumibilmente, numerose emozioni cominciano ad essere cancellate dal repertorio delle relazioni intime, soprattutto se, anche in seguito durante l'infanzia, quei sentimenti continuano ad essere copertamente o apertamente scoraggiati.

Per lo stesso motivo, i bambini possono arrivare a preferire una gamma di emozioni infelici, a seconda di quali di esse vengono ricambiate dai genitori. Perfino i bambini piccolissimi “colgono” gli stati d'animo: i figli di madri depresse, ad esempio, a soli tre mesi rispecchiavano lo stato d'animo delle loro madri quando giocavano con loro, mostrando un maggior numero di sentimenti di collera e tristezza, e molta meno curiositÀ e interesse spontanei, rispetto ai bambini le cui madri non erano depresse (9).

Nello studio di Stern una madre reagiva sempre a un livello inferiore a quello del proprio bambino, che alla fine imparÃ’ ad essere passivo. Stern sostiene che “un bambino trattato in quel modo impara a ragionare cosÃŒ: 'quando sono eccitato non riesco a ottenere che anche mia madre si ecciti allo stesso modo, perciÃ’ tanto vale che non ci provi nemmeno'“. Tuttavia, nelle relazioni “riparative” c'È speranza: “Le relazioni della vita - con amici o parenti, ad esempio, o nella psicoterapia - riplasmano in continuazione il modo di relazionarsi dell'individuo. Uno squilibrio insorto a un certo punto della vita puÃ’ essere corretto piÙ tardi; si tratta di un processo continuo che dura tutta la vita”.

In veritÀ, diverse teorie della psicoanalisi ritengono che la relazione terapeutica fornisca esattamente un correttivo emozionale di questo tipo, un'esperienza riparatrice di sintonizzazione. 'Rispecchiare' È il termine usato da alcuni teorici della psicoanalisi per riferirsi al terapeuta che riflette al cliente la comprensione del suo stato interiore, proprio come fa una madre in sintonia con il proprio bambino. La sincronia emozionale È una consapevolezza cosciente esteriore, non formulata, sebbene un paziente possa bearsi nella sensazione di essere riconosciuto e profondamente compreso.

Nell'arco di tutta la vita, il prezzo da pagare per la mancanza di sintonia durante l'infanzia puÒ essere molto alto - e non solo per il bambino. In uno studio su criminali che commisero i delitti piÙ efferati e violenti si scoprÌ che essi avevano fatto la spola da una famiglia adottiva all'altra, o erano stati allevati in orfanotrofi: in altre parole, avevano delle biografie che lasciavano intuire trascuratezza emozionale e ben poche opportunitÀ di entrare in sintonia con gli altri (10).

Mentre la trascuratezza emozionale sembra smorzare l'empatia, nei soggetti sottoposti a violenze psicologiche intense e prolungate - ad esempio minacce crudeli e sadiche, umiliazioni e completa miseria - si osservano conseguenze paradossali. I bambini che sopportano tali abusi possono infatti diventare ipersensibili alle emozioni altrui; si tratta di una reazione derivante da una vigilanza post-traumatica agli indizi segnalanti una minaccia. Questa preoccupazione ossessiva per i sentimenti altrui È tipica dei bambini che subiscono abusi psicologici, i quali in etÀ adulta vanno incontro a quegli alti e bassi emozionali, intensi e mercuriali, a volte diagnosticati come “disturbo borderline della personalitÀ”. Molti di tali pazienti riescono a percepire molto bene i sentimenti altrui, ed È assai comune che riferiscano di aver subito violenze psicologiche durante l'infanzia.

- La neurologia dell'empatia.

Come accade tanto spesso in neurologia, la descrizione di casi stravaganti e bizzarri È stata il primo indizio verso la scoperta della base cerebrale dell'empatia. Un articolo pubblicato nel 1975, ad esempio, descriveva diversi casi di pazienti con particolari lesioni localizzate nel lobo frontale destro e che presentavano uno strano deficit: erano incapaci di comprendere i messaggi emozionali dal tono di voce, sebbene fossero perfettamente in grado di capirne le parole. Per loro, un “grazie” sarcastico, animato dall'irritazione o da sincera gratitudine era sempre portatore dello stesso significato neutrale. Nel 1979, un altro studio descrisse pazienti con lesioni localizzate in altre regioni dell'emisfero destro, che avevano un deficit diverso nella loro percezione emozionale. Questi soggetti erano incapaci di esprimere le proprie emozioni con il tono di voce e i gesti. Essi erano consapevoli di ciÃ’ che provavano, solo che non riuscivano a comunicarlo. Le regioni corticali oggetto delle lesioni descritte avevano forti connessioni con il sistema limbico, come non mancarono di osservare i diversi autori.

Questi studi furono passati in rassegna da Leslie Brothers, uno psichiatra del California Institute of Technology, che li analizzÃ’ per scrivere un importantissimo articolo sulla biologia dell'empatia (12). Analizzando sia i dati neurologici, sia gli studi comparativi condotti sugli animali, Brothers indicÃ’ l'amigdala e le sue connessioni con le aree associative della corteccia visiva come parte di un circuito cerebrale fondamentale per l'empatia.

Gran parte della ricerca neurologica sull'argomento È stata condotta su animali, soprattutto su primati non umani. Il fatto che in questi animali esista l'empatia - o “comunicazione emozionale”, come preferisce chiamarla Brothers - traspare in modo evidente non solo da diversi aneddoti, ma anche da numerosi studi. In uno di essi, coppie di scimmie rhesus vennero addestrate a temere un suono particolare che gli veniva sempre presentato in associazione a uno shock elettrico. Gli animali imparavano poi a evitare lo shock spingendo una leva ogni qualvolta udivano il suono. In seguito, i membri di ciascuna coppia vennero alloggiati in gabbie separate, e l'unica comunicazione permessa fra loro era una televisione a circuito chiuso, che consentiva a entrambe di vedere l'immagine della faccia dell'altra. Poi, una sola delle due scimmie sentiva il suono temuto, che induceva in lei un'espressione di spavento. In quel momento, l'altro animale, vedendo la paura sulla faccia della compagna, spingeva la leva per evitarle lo shock - un atto che possiamo definire di empatia, se non proprio di altruismo.

Una volta accertato che i primati non umani leggono le emozioni sulla faccia dei propri simili, i ricercatori impiantarono elettrodi lunghi e sottili nel cervello delle scimmie, facendo attenzione a non causare lesioni. La registrazione, consentita da questi particolari elettrodi, dell'attivitÀ di singoli neuroni della corteccia visiva e dell'amigdala permise di dimostrare che, quando una scimmia vedeva la faccia dell'altra, l'informazione induceva una scarica neuronale dapprima nella corteccia visiva, e poi nell'amigdala. Questa via, naturalmente, È un percorso standard per le informazioni che inducono un'attivazione emozionale. Ma quel che era sorprendente, in questi risultati, È che essi permisero anche di identificare alcuni neuroni della corteccia visiva che sembrano scaricare 'solo' in risposta a particolari espressioni facciali o a gesti specifici, come l'apertura minacciosa della bocca, una smorfia di paura, o un atteggiamento di docile sottomissione. Questi neuroni sono distinti da altri, pur presenti nella stessa regione, che rispondono alla vista di facce familiari. Tali dati sembrano indicare che il cervello È costruito fin dal principio per rispondere all'espressione di emozioni specifiche - in altre parole, che l'empatia È una premessa biologica.

Un'altra ricerca che ha dimostrato il ruolo chiave della via nervosa che connette l'amigdala alla corteccia nell'interpretazione delle emozioni e nella risposta ad esse È, secondo Brothers, quella condotta su scimmie allo stato selvatico, alle quali dette connessioni venivano resecate chirurgicamente. Quando gli animali operati si riunivano al proprio gruppo, erano ancora in grado di competere con gli altri nello svolgimento di compiti ordinari quali il foraggiamento e l'arrampicarsi sugli alberi. Ma queste povere scimmie avevano perso completamente la percezione di come rispondere emozionalmente agli altri membri del gruppo. Se un'altra scimmia tentava un approccio amichevole, gli animali operati scappavano via; essi finirono per condurre una vita da emarginati, eludendo il contatto con i membri del loro gruppo.

Le stesse regioni corticali nelle quali sono concentrati i neuroni specifici per le emozioni, sono anche, come osserva Brothers, quelle con il maggior numero di connessioni con l'amigdala; la lettura delle emozioni coinvolge il circuito fra amigdala e corteccia, che ha un ruolo fondamentale nell'orchestrare le risposte appropriate. Per i primati non umani, “il valore per la sopravvivenza di un tale sistema È ovvio”, osserva Brothers. “La percezione dell'approccio di un altro individuo dovrebbe dare origine - molto velocemente - a una [risposta fisiologica] specifica fatta su misura, a seconda che l'intenzione sia quella di mordere, di accingersi a una tranquilla seduta di 'bellezza', o di copulare” (13).

La ricerca di Robert Levenson, psicologo della California University di Berkeley, indica come anche in noi esseri umani l'empatia possa avere una base fisiologica simile. Levenson ha studiato alcune coppie di coniugi i cui membri cercavano di indovinare ciÒ che provasse il partner durante un'accesa discussione (14). Il metodo È semplice: la coppia viene videoregistrata e le reazioni fisiologiche dei due partner sono misurate mentre essi parlano di un penoso problema che grava sul loro matrimonio (a chi tocchi rimproverare i figli, le abitudini riguardanti le spese, e simili). Ogni partner, poi, rivede il nastro e spiega, momento per momento, quali fossero i suoi sentimenti durante la discussione. Poi lo stesso soggetto rivede una seconda volta la registrazione, cercando ora di leggere i sentimenti dell''altro'.

La massima accuratezza empatica si osservava in quei coniugi che, guardando il partner, 'ne mimavano la fisiologia'. In altre parole, quando la reazione del coniuge era un'abbondante sudorazione, anche loro reagivano in modo analogo; quando il partner presentava un calo della frequenza cardiaca, anche il cuore del coniuge rallentava. In breve, il loro corpo mimava, attimo per attimo, le impercettibili reazioni fisiche del partner. I soggetti che invece si limitavano a ripetere quella che era stata la loro risposta fisiologica durante l'interazione originale non riuscivano a immaginare ciÃ’ che avesse provato il partner. L'empatia era possibile solo quando il corpo dei membri della coppia era in sincronia.

Questo indica che quando il cervello emozionale sta scatenando una forte reazione - ad esempio, una collera violenta - l'empatia È scarsa o addirittura assente. Per essere empatico, il soggetto deve essere abbastanza calmo e recettivo da poter ricevere i sottili segnali emozionali emessi da un'altra persona e mimarli nel proprio cervello emozionale.

- Empatia ed etica: le radici dell'altruismo.

“E cosÃŒ non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te”: ecco uno dei versi piÙ famosi della letteratura inglese. Il sentimento di John Donne parla al nostro cuore del legame fra empatia e attenzione partecipe: il dolore altrui È dolore nostro. Provare un sentimento insieme a un altro essere umano significa essere emozionalmente partecipi. In questo senso, l'opposto di 'empatia' È 'antipatia'. Spesso l'atteggiamento empatico entra in gioco quando si formulano giudizi morali, in quanto i problemi etici comportano la presenza di vittime potenziali. Per non ferire i sentimenti di un amico, È giusto mentire? Dovreste mantenere la promessa di visitare un amico ammalato o accettare invece un invito a cena arrivato all'ultimo momento? In quali casi si deve mantenere in funzione l'apparecchiatura che tiene in vita qualcuno che altrimenti morirebbe?

Tali questioni morali sono state formulate da Martin Hoffman, un ricercatore che si occupa di empatia; egli sostiene che le radici della moralitÀ siano da ricercarsi nell'empatia, dal momento che gli individui si sentono spinti ad aiutare gli altri - qualcuno che soffre, È in pericolo o patisce per una privazione - proprio perché empatizzano con queste potenziali vittime e quindi ne condividono la pena (15). Al di lÀ di questo legame immediato esistente fra empatia e altruismo nelle relazioni interpersonali, Hoffman propone che la stessa capacitÀ di provare un affetto empatico, in altre parole di mettersi nei panni degli altri, induca la gente a seguire certi principi morali.

Hoffman ritiene che l'empatia vada sviluppandosi in modo naturale a partire dall'infanzia. Come abbiamo visto, a un anno di etÀ un bambino si sente profondamente a disagio quando ne vede un altro cadere e comincia a piangere; il suo rapporto con l'altro È talmente forte e immediato da indurlo a mettersi il pollice in bocca e a seppellire la testa nel grembo della madre, come se si fosse fatto male lui stesso. Dopo il primo anno di vita, quando acquistano una maggior consapevolezza del fatto di essere entitÀ distinte dagli altri, i bambini cercano di consolare attivamente un coetaneo che piange offrendogli, ad esempio, degli orsacchiotti. GiÀ all'etÀ di due anni, i bambini cominciano a rendersi conto che i sentimenti degli altri sono diversi dai loro, e perciÒ diventano piÙ sensibili ai segnali che rivelano i sentimenti altrui; a questo punto, ad esempio, i bambini possono rendersi conto che il modo migliore di aiutare un altro che piange senza ferirne l'orgoglio non È certo quello di attirare un'inopportuna attenzione su di lui.

Verso la fine dell'infanzia emerge il livello piÙ avanzato di empatia; i bambini, infatti, sono ora in grado di comprendere la sofferenza anche al di lÀ della situazione contingente, e capiscono che la condizione o la posizione nella vita possono essere causa di uno stato di sofferenza cronico. A questo punto essi possono provare sentimenti di pena per un intero gruppo, ad esempio per i poveri, gli oppressi e gli emarginati. Questa comprensione, nell'adolescenza, puÒ portare al radicarsi di convinzioni morali imperniate sul desiderio di alleviare l'infelicitÀ e l'ingiustizia.

L'empatia È alla base di molti aspetti del giudizio e dell'azione morale. Uno di essi È la “collera empatica”, che John Stuart Mill descriveva come “il sentimento naturale di vendetta [] reso applicabile dall'intelletto e dalla simpatia a [] quei mali che ci offendono perché feriscono gli altri”; Mill chiamÃ’ questo sentimento il “guardiano della giustizia”. Un altro esempio nel quale l'empatia porta all'azione morale È quando lo spettatore di un evento si sente spinto a intervenire a favore della vittima; la ricerca dimostra che quanto maggiore È l'empatia provata dallo spettatore per la vittima, tanto piÙ probabile sarÀ il suo intervento. Ci sono alcune prove del fatto che il livello di empatia provata dagli individui influenza anche i loro giudizi morali. Ad esempio, studi condotti in Germania e negli Stati Uniti hanno rivelato che quanto maggiore È l'empatia degli individui, tanto piÙ essi approvano il principio secondo il quale le risorse dovrebbero essere distribuite in base alle reali esigenze della gente (16).

- La vita senza empatia - il molestatore e il sociopatico.

Eric Eckardt fu implicato in un crimine infame: guardia del corpo della pattinatrice Tonya Harding, Eckardt aveva assoldato dei delinquenti affinché tendessero un agguato a Nancy Kerrigan, rivale della Harding per la medaglia d'oro nel pattinaggio artistico alle Olimpiadi del 1994. Nell'aggressione, la Kerrigan si fece male a un ginocchio, e questo la costrinse a starsene a riposo durante quelli che dovevano essere mesi fondamentali per il suo allenamento. Ma quando Eckardt vide la Kerrigan singhiozzante alla televisione, fu improvvisamente pervaso dal rimorso, e cercÃ’ un amico con il quale confidarsi, innescando cosÃŒ la sequenza di avvenimenti che portÃ’ all'arresto degli aggressori. Questo È il potere dell'empatia.

Di solito, perÃ’, essa È tragicamente assente in coloro che commettono i crimini piÙ abietti. Una condotta psicologicamente disturbata È un tratto comune negli stupratori, nei molestatori di bambini e in molti individui che scaricano la propria violenza sui familiari: essi sono incapaci di empatia. L'insensibilitÀ verso il dolore delle proprie vittime consente a questi soggetti di mentire a se stessi, incoraggiando cosÃŒ il proprio comportamento criminale. Nel caso degli stupratori, la menzogna sarÀ “Le donne vogliono davvero essere violentate” oppure “Se resiste, È solo perché vuole fare un gioco duro”; nel caso dei molestatori “Non sto facendo del male alla bambina, sto solo dimostrandole amore”, oppure “Questa non È che un'altra forma di affetto”; e in quello dei genitori fisicamente violenti con i figli “Non È che disciplina”. Queste autogiustificazioni sono un campione fra quelle che individui in cura per questi problemi riferivano di aver detto a se stessi mentre brutalizzavano le loro vittime o si preparavano a farlo.

In questi individui, la cancellazione dell'empatia verso le proprie vittime fa quasi sempre parte di un ciclo emozionale che precipita i loro atti crudeli. Osserviamo la sequenza emozionale che porta solitamente a un crimine sessuale, ad esempio a una molestia nei confronti di una bambina (17). Il ciclo comincia quando il molestatore si sente in qualche modo turbato: in collera, depresso o solo. Questi sentimenti possono essere innescati, ad esempio, dalla vista di una coppia felice alla televisione, e quindi dalla depressione derivante dal sentirsi solo. Il molestatore cerca allora sollievo in una delle sue fantasie preferite, di solito imperniata sulla calda amicizia con una bambina; essa assume poi i contorni di una fantasia sessuale e si conclude con la masturbazione. In seguito, il molestatore prova un temporaneo sollievo dal suo abbattimento, ma si tratta di un fenomeno di breve durata; la depressione e la solitudine ritornano ancora piÙ forti. Egli comincia allora a pensare di mettere in atto la propria fantasia, giustificando a se stesso il progetto dicendo “Non c'È nulla di male, se la bambina non avrÀ lesioni fisiche” e “Se una bambina davvero non vuole avere un rapporto sessuale con me, puÃ’ fermarmi”.

A questo punto il molestatore vede la vittima attraverso le lenti della sua fantasia perversa, senza empatizzare con i veri sentimenti di una bambina reale in quella situazione. Questo distacco emozionale caratterizza tutti gli eventi successivi - da quando egli escogita un piano per trovarsi da solo con la bambina, alla fase in cui ripercorre mentalmente nei minimi dettagli tutto quanto ha previsto, fino al momento dell'esecuzione materiale del piano. Tutto avviene come se la bambina coinvolta non avesse sentimenti suoi; piuttosto, il molestatore proietta su di lei l'atteggiamento cooperativo della bambina della sua fantasia. I sentimenti di lei - repulsione, paura, disgusto - non vengono registrati nella mente del molestatore: se lo fossero, “rovinerebbero” tutto.

Questa completa mancanza di empatia per le proprie vittime È al centro dei nuovi trattamenti messi a punto per i molestatori di bambini e altri criminali di questo tipo. In uno dei programmi di cura piÙ promettenti, questi soggetti leggevano strazianti resoconti di crimini simili ai propri, raccontati dalla prospettiva della vittima. Essi guardavano anche un video in cui le vittime raccontavano fra le lacrime l'esperienza della molestia. I criminali poi dovevano scrivere qualcosa sul loro stesso atto di violenza dal punto di vista della vittima, immaginando che cosa avesse provato. Essi leggevano questo resoconto nel corso della loro terapia di gruppo, e cercavano di rispondere, immedesimandosi con la vittima, alle domande che venivano loro poste sull'aggressione. Infine, il criminale affrontava una messa in scena simulata del proprio crimine, stavolta perÒ recitando la parte della vittima.

William Pithers, lo psicologo del carcere del Vermont che ha sviluppato questo tipo di terapia, mi disse: “L'empatia con la vittima modifica la percezione a tal punto che la negazione del dolore, anche nelle proprie fantasie, diventa difficile”, e pertanto rafforza la motivazione a combattere i propri perversi impulsi sessuali. Gli autori di crimini sessuali che avevano partecipato a questo programma durante la carcerazione, dopo il rilascio incorrevano nello stesso reato in misura dimezzata rispetto a quelli non sottoposti al trattamento. Senza questa motivazione iniziale, ispirata dall'empatia, la parte restante del trattamento non funziona.

Sebbene possa esserci una piccola speranza di instillare un senso di empatia in personalitÀ violente quali i molestatori di bambini, se ne puÒ invece nutrire molta meno nei confronti di un altro tipo di criminale, lo psicopatico (piÙ recentemente chiamato 'sociopatico' come diagnosi psichiatrica). Gli psicopatici sono tipi interessanti, notoriamente del tutto privi di rimorso anche per gli atti piÙ crudeli e spietati. La psicopatia, ossia l'incapacitÀ di sentire empatia o compassione di sorta, e anche rimorsi di coscienza, È uno dei disturbi emozionali piÙ sconcertanti. La freddezza dello psicopatico sembra essere imperniata su un'incapacitÀ di spingersi oltre le connessioni emozionali piÙ superficiali. I criminali piÙ crudeli, ad esempio i serial killer che godono sadicamente della sofferenza delle proprie vittime prima della morte, sono l'incarnazione stessa della psicopatia (18).

Gli psicopatici sono anche mentitori spregiudicati, disposti a dire qualunque cosa per ottenere ciÃ’ che vogliono, e manipolano le emozioni della vittima con lo stesso cinismo. Consideriamo Faro, un membro di una banda di Los Angeles che, durante una sparatoria in auto descritta piÙ con orgoglio che con rimorso, ferÃŒ una madre con il suo bambino, rimasti poi paralizzati. Trovandosi in macchina con Leon Bing, che stava scrivendo un libro su bande di Los Angeles come quelle dei Crips e dei Bloods, Faro voleva mettersi in mostra. Disse allora a Bing che avrebbe fatto “la faccia del matto” ai “due damerini” che si trovavano nella macchina che li precedeva. Ecco il resoconto di Bing:

'Il guidatore, sentendosi osservato, lancia un'occhiata alla mia auto. I suoi occhi entrano in contatto con quelli di Faro, e si spalancano per un istante. Poi interrompe il contatto, abbassa lo sguardo, lo rivolge altrove. E non ho dubbi su ciÃ’ che ho visto in quegli occhi: era paura'.

Faro diede poi a Bing una dimostrazione dello sguardo che aveva lanciato all'autista:

'Mi guarda diritto negli occhi e tutto, nella sua faccia, cambia e si modifica, come per effetto di un trucco in una ripresa al rallentatore. Diventa una faccia da incubo, una cosa paurosa. E' un'espressione pregna di minaccia: se ricambierai lo sguardo, se lo sfiderai, sarÀ meglio per te che tu sia in grado di difenderti. Il suo aspetto tradisce che non gliene importa di nulla, né della tua vita, né della sua' (19).

Naturalmente, in un comportamento complesso come il crimine, ci sono molte spiegazioni plausibili che non fanno appello a meccanismi biologici. Ad esempio, una capacitÀ emozionale perversa - quella di spaventare gli altri - potrebbe avere un valore di sopravvivenza nei quartieri violenti, come potrebbe anche averlo il ricorrere al crimine; in questi casi troppa empatia potrebbe rivelarsi controproducente. In veritÀ, un'opportunistica mancanza di empatia potrebbe essere una “virtÙ” in molti ruoli della vita, ad esempio in quello del “poliziotto cattivo” durante gli interrogatori, o in quello del finanziere senza scrupoli. Uomini che hanno fatto i torturatori per governi dispotici, ad esempio, raccontano che appresero a dissociarsi dai sentimenti delle proprie vittime in modo da poter fare il loro “lavoro”. Ci sono molte vie che portano alla manipolazione.

Uno dei modi piÙ terribili in cui puÃ’ manifestarsi questa mancanza di empatia È stato scoperto accidentalmente in uno studio sui piÙ feroci mariti violenti. La ricerca ha rivelato un'anomalia fisiologica in molti di questi soggetti, che regolarmente picchiano le proprie mogli o le minacciano con coltelli o armi da fuoco: essi lo fanno in uno stato mentale freddo e calcolatore, e non perché in preda alla furia (20). Quando la loro collera aumenta, ecco emergere l'anomalia: la loro frequenza cardiaca diminuisce invece di diventare sempre piÙ alta, come accade normalmente quando la collera diventa rabbia violenta. CiÃ’ significa che essi diventano piÙ calmi dal punto di vista fisiologico, proprio nel momento in cui si fanno invece piÙ bellicosi e violenti. La loro violenza sembra essere un atto di terrorismo calcolato, un metodo per controllare le loro mogli incutendo in loro il terrore.

Questi mariti freddamente brutali sono diversi dalla maggior parte degli altri uomini che picchiano le loro mogli. Intanto, È molto piÙ probabile che essi siano violenti anche al di fuori delle mura domestiche, e che restino implicati in risse da bar e in liti fra colleghi o con altri membri della famiglia. E mentre la maggior parte degli uomini che diventano violenti con le proprie mogli lo fanno spinti dall'impulso, infuriati perché si sentono respinti o sono gelosi, o per la paura di essere abbandonati, questi violenti calcolatori si accaniscono invece contro le proprie mogli senza apparenti ragioni - e una volta che cominciano, non c'È nulla che la donna possa fare (nemmeno cercare di scappare) che sembri contenere la loro violenza.

Alcuni ricercatori che studiano i criminali psicopatici sospettano che la loro fredda capacitÀ di manipolazione, ad esempio l'assenza di empatia o di attenzione per l'altro, possa a volte derivare da un difetto di natura neurale (nota *). Una possibile base fisiologica dello spietato comportamento dello psicopatico È stata dimostrata in due modi; entrambi suggeriscono l'implicazione di vie neurali che portano al sistema limbico. In un caso, le onde cerebrali dei soggetti vengono misurate mentre essi cercano di decifrare alcune parole anagrammate. Le parole vengono mostrate molto velocemente, per appena un decimo di secondo o pressappoco. La maggior parte delle persone reagisce in modo diverso a parole neutrali come 'sedia' e a parole con una forte valenza emozionale, come ad esempio 'uccidere'; esse riescono a decidere piÙ rapidamente se la parola anagrammata È una di quelle con valenza emozionale, e in risposta a tali parole il cervello mostra onde caratteristiche, che non compaiono in risposta alle parole neutrali. Ma gli psicopatici non presentano nessuna di queste due reazioni: il loro cervello non mostra le onde caratteristiche in risposta alle parole con valenza emozionale né costoro rispondono piÙ rapidamente ad esse; ciÃ’ indica una disorganizzazione delle connessioni fra le aree corticali sede delle abilitÀ verbali, che riconoscono la parola, e il sistema limbico, che le attribuisce l'emozione.

Robert Hare, lo psicologo della British Columbia University che ha compiuto questa ricerca, interpreta questi risultati ipotizzando che gli psicopatici abbiano una comprensione solo superficiale delle parole con valenza emozionale, un deficit che riflette la loro superficialitÀ piÙ generale in campo affettivo. La durezza degli psicopatici, secondo Hare, si basa in parte anche su un altro schema fisiologico che egli aveva scoperto in precedenti ricerche e che indica un'irregolaritÀ nella funzione dell'amigdala e dei circuiti ad essa collegati: gli psicopatici sul punto di ricevere uno shock elettrico non mostrano alcun segno di paura, risposta che sarebbe peraltro ovvio attendersi nelle persone normali in procinto di provare dolore (21). Poiché la prospettiva del dolore non innesca un'ondata di ansia, Hare sostiene che gli psicopatici non si preoccupano di essere puniti per ciÃ’ che fanno. E poiché essi stessi non sentono paura, non hanno empatia alcuna - né compassione - per la paura e il dolore delle proprie vittime.

NOTA * Un invito alla prudenza: se in certi tipi di criminalitÀ sono in gioco dei meccanismi biologici - ad esempio un difetto neurale nell'empatia - ciÃ’ non significa che tutti i criminali abbiano dei problemi biologici, né che ci sia una sorta di marker biologico del crimine. Su questo problema È infuriata una controversia; la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che tale marker non esista, come sicuramente non c'È nemmeno un “gene per la criminalitÀ”. Anche se in alcuni casi la mancanza di empatia puÃ’ avere una base biologica, ciÃ’ non significa assolutamente che tutti coloro che condividono questi tratti biologici debbano scivolare nel crimine; anzi, nella maggior parte dei casi, ciÃ’ non avverrÀ affatto. La mancanza di empatia dovrebbe essere considerata insieme a tutti quegli altri fattori - forze di ordine psicologico, economico e sociale - che contribuiscono a spingere l'individuo verso la criminalitÀ.

8. LE ARTI SOCIALI.

Come accade tanto spesso fra i bambini di cinque anni e i loro fratelli minori, Len ha perso la pazienza con Jay, il fratellino di due anni e mezzo che ha buttato alla rinfusa i pezzi del Lego con cui stavano giocando. Trasportato da un impeto di collera, Len morde Jay, che scoppia in lacrime. La madre, sentendo il pianto di Jay accorre e sgrida Len, ordinandogli di metter via gli oggetti della contesa - i pezzi del Lego. Messo di fronte a questa imposizione - che sicuramente dev'essergli sembrato un grossolano errore giudiziario - Len scoppia a sua volta in lacrime. Ancora indispettita, la madre si rifiuta di rincuorarlo.

Ma Len si vede offrire consolazione da una fonte alquanto improbabile: Jay, che sebbene originariamente fosse la parte lesa, adesso È preoccupato per il pianto del fratello maggiore e si dÀ da fare per calmarlo. Lo scambio fra i due si svolge pressappoco cosÌ (1):

“Len, no” implora Jay. “Basta piangere, dÀi. Basta piangere.”

Ma Len continua. Vista fallire la sua perorazione diretta, Jay va a chiamare la mamma per conto di Len: “Len piange, mamma. Len piange. Guarda. Jay fa vedere. Len piange”.

E tornando da Len, Jay adotta un atteggiamento materno, battendo amichevolmente sulla spalla del fratello in lacrime e rassicurandolo con fare consolatore: “Su, Len. Non piangere piÙ”.

Ma Len continua a singhiozzare, nonostante i tentativi di conforto. E allora Jay ripiega su un'altra tattica, offrendogli amichevolmente una mano a mettere via nella scatola i pezzi del Lego: “Ah, Len. Li metto via io per Lennie, eh?”.

Anche cosÃŒ, le lacrime non si fermano. Jay, pieno di risorse, cerca allora un'altra strategia, la distrazione. Mostrando al fratello un'automobilina, Jay cerca di distogliere la sua attenzione dalla piccola tragedia che lo ha appena colpito. “C'È un omino dentro. Che cos'È Len? Che cos'È?”

Len non È interessato: È inconsolabile; le sue lacrime non hanno fine. Persa la pazienza, la madre ricorre alla classica minaccia dei genitori: “Vuoi che te le suoni?” alla quale Len risponde con un “No” scosso dai singulti.

“E allora smettila” conclude la madre con fermezza, forse un po esasperata.

Attraverso i singhiozzi, Len farfuglia un patetico, affannoso “Ci sto provando”.

Questo scatena lo stratagemma finale di Jay: presa a prestito la fermezza e l'autoritÀ della madre, minaccia: “Basta piangere Len! Ti sculaccio sul sedere!”.

Questo microdramma rivela l'eccezionale sofisticazione emotiva che un bimbetto di appena trenta mesi puÒ mettere in atto nel tentativo di contenere le emozioni di qualcun altro. Nei suoi pressanti tentativi di consolare il fratello, Jay attinge da un vasto repertorio di strategie, che vanno da una semplice preghiera, al cercare un alleato nella mamma (da quella parte, perÒ, nessun aiuto), al tentativo di confortare fisicamente il fratello, di dargli una mano e di distrarlo, per finire poi con le minacce e gli ordini diretti. Senza dubbio Jay puÒ contare su un arsenale che a suo tempo dev'essere stato utilizzato con lui in analoghi momenti di tensione. Non importa: ciÒ che conta È che nonostante la sua tenerissima etÀ, in caso di necessitÀ Jay riesca a metterli prontamente in pratica.

Naturalmente, come sanno tutti i genitori di bambini piccoli, l'esibizione di empatia e di capacitÀ consolatorie di cui si È reso protagonista Jay non È assolutamente universale. Forse, È altrettanto probabile che un bambino di quell'etÀ intraveda nel turbamento del fratello una possibilitÀ di vendetta, e che quindi faccia tutto quanto È in suo potere per rendere quel turbamento anche piÙ profondo. Le stesse abilitÀ, infatti, possono essere usate anche per stuzzicare o per tormentare un fratello. Ma anche questa meschinitÀ rivela l'emergere di una capacitÀ emozionale fondamentale, quella cioÈ di conoscere i sentimenti dell'altro e di agire in modo da modificarli. Essere in grado di gestire le emozioni altrui È un'abilitÀ fondamentale nell'arte di trattare le relazioni interpersonali.

Per manifestare un tale potere, i bambini dell'etÀ di Jay devono dapprima raggiungere un punto fermo nel proprio autocontrollo, cominciando a manifestare la capacitÀ di smorzare la collera e la sofferenza e di attenuare impulsi ed eccitazione - anche se di solito si tratta ancora di una capacitÀ vacillante. Per entrare in sintonia con gli altri È necessaria una certa calma interiore. I primi incerti segni di questa capacitÀ di controllare le proprie emozioni emergono intorno ai due anni: in questo periodo i bambini cominciano a saper aspettare senza piagnucolare, a discutere o a usare la persuasione per ottenere ciÒ che vogliono, senza ricorrere alla forza bruta - anche se non sempre decidono di usare tale capacitÀ. Almeno sporadicamente, in alternativa alle bizze, ecco emergere la pazienza. E verso i due anni fanno la loro comparsa anche i primi segni di empatia; È l'empatia - sorgente della compassione - che spinge Jay a provare con tanta insistenza a rasserenare Len, il fratello in lacrime. Riuscire a controllare le emozioni di qualcun altro - l'arte raffinata delle relazioni - richiede la maturitÀ di altre due capacitÀ emozionali, l'autocontrollo e l'empatia.

Con questa base, matura l'“abilitÀ sociale”. Queste sono le competenze sociali che contribuiscono all'efficacia dell'individuo nel trattare con gli altri; in questo campo, le lacune portano all'inettitudine nella sfera delle interazioni sociali o a ripetuti disastri interpersonali. In veritÀ, È proprio la mancanza di queste capacitÀ che puÃ’ portare anche un individuo intellettualmente brillante a colare a picco nelle sue relazioni, rivelandosi arrogante, antipatico, o insensibile. Queste abilitÀ sociali consentono all'individuo di plasmare un'interazione, di trovarsi bene nelle relazioni intime, di mobilitare, ispirare, persuadere e influenzare gli altri, mettendoli nel contempo a proprio agio.

- Mostrare qualche emozione.

Una delle competenze sociali fondamentali dell'individuo È la capacitÀ di esprimere - bene o male - i propri sentimenti. Paul Ekman usa il termine 'norme di espressione' per indicare il consenso sociale che prescrive quali sentimenti possano essere esibiti in modo appropriato, e quando. A volte le culture variano immensamente a tale proposito. Ad esempio, Ekman e colleghi hanno studiato le reazioni di alcuni studenti giapponesi a un film impressionante sulla circoncisione rituale degli adolescenti Aborigeni. Quando gli studenti giapponesi guardavano il film in presenza di una figura che rappresentava l'autoritÀ, il loro volto tradiva solo leggerissimi segni di reazione. Ma quando quegli stessi giovani pensavano di essere da soli (in realtÀ erano filmati da una telecamera nascosta) i loro volti si contorcevano in un misto di disagio angoscioso, terrore e disgusto.

Esistono diversi tipi fondamentali di norme di espressione (2). Una di esse sta nel 'minimizzare' l'esibizione dell'emozione: questa È la norma della cultura giapponese, nel caso di sentimenti di sofferenza, qualora l'individuo sia in presenza di qualcuno che rappresenta l'autoritÀ; la stessa norma, insomma, seguita dagli studenti studiati da Ekman, che mascherarono il loro turbamento assumendo un'espressione impassibile. Un'altra norma È quella di 'esagerare' ciÒ che si sente, amplificando l'espressione dell'emozione; questa È la tattica adottata da una bambina di sei anni che storce con fare teatrale il volto in una patetica espressione corrucciata, con le labbra tremanti, e corre dalla madre a lamentarsi del fratello maggiore che l'ha stuzzicata. Una terza norma di espressione prevede la 'sostituzione' di un sentimento con un altro; essa entra in gioco in alcune culture asiatiche nelle quali È maleducazione opporre un rifiuto, e viene quindi data un'assicurazione positiva, sebbene falsa. L'abilitÀ nell'applicare queste strategie, e il saperlo fare al momento opportuno, sono fattori importanti dell'intelligenza emotiva.

Queste norme di espressione vengono apprese molto presto, in parte attraverso istruzioni esplicite. Quando diciamo a un bambino di non mostrarsi deluso, bensÃŒ di sorridere e di ringraziare se il nonno si presenta pieno di buone intenzioni con un regalo di compleanno orrendo, non stiamo insegnandogli altro che una norma di espressione. Questa educazione, perÃ’, avviene piÙ spesso attraverso l'esempio: i bambini imparano quel che vedono fare dagli altri. Nell'educare i sentimenti, le emozioni sono al tempo stesso il mezzo e il messaggio. Se un bambino si sente dire “sorridi e di' grazie” da un genitore che in quel momento È duro, severo e freddo - che sibila il messaggio invece di suggerirlo con calore - probabilmente imparerÀ qualcosa di molto diverso, e risponderÀ al nonno con un'espressione corrucciata e un “grazie” secco e reciso. L'effetto sul nonno È molto diverso: nel primo caso, sebbene ingannato, sarÀ felice; nel secondo si sentirÀ ferito dal messaggio ambiguo.

L'esibizione delle emozioni, naturalmente, ha conseguenze immediate sull'impatto che esse hanno sulla persona che le riceve. Il bambino apprende una norma di espressione in qualche modo simile a questa: “Maschera i tuoi veri sentimenti quando essi possono ferire le persone che ami; sostituiscigli piuttosto un sentimento fasullo ma meno offensivo”. Queste regole di espressione delle emozioni non sono solo gli elementi base per un comportamento sociale appropriato: esse stabiliscono il tipo di impatto che i nostri sentimenti avranno sugli altri. Seguire correttamente queste regole significa avere un impatto ottimale; farlo male significa invece fomentare il caos emozionale.

Gli attori, naturalmente, sono artisti dell'esibizione emozionale; È proprio la loro espressivitÀ a suscitare la risposta nel pubblico. E, senza dubbio, alcuni di noi vengono al mondo con doti naturali di attori. Ma poiché ciÃ’ che impariamo sulle norme di espressione varia a seconda dei modelli che abbiamo avuto, le nostre capacitÀ finiscono per essere molto diverse.

- EspressivitÀ e contagio emotivo.

Accadde al principio della guerra del Vietnam, quando un plotone di soldati americani era acquattato in una risaia, nel pieno di un conflitto a fuoco con i Vietcong. All'improvviso, sei monaci cominciarono a camminare, in fila, lungo il passaggio che separava una risaia dall'altra. Perfettamente calmi e sereni, i monaci andavano verso la linea del fuoco.

“Non si guardavano né a destra né a sinistra. Camminavano dritto” ricorda David Busch, uno dei soldati americani. “Era veramente strano, perché nessuno gli sparÃ’. E dopo che ebbero percorso il passaggio fra i campÃŒ, all improvviso, mi passÃ’ tutta la voglia di combattere. Proprio non me la sentivo piÙ, almeno per quel giorno. E doveva essere stato cosÃŒ anche per gli altri, perché tutti lasciarono perdere. Smettemmo di combattere” (3).

Il potere pacificatore esercitato sui soldati nel pieno della battaglia dalla calma serena e coraggiosa dei monaci illustra un principio fondamentale della vita sociale: le emozioni sono contagiose. Sicuramente, questo racconto costituisce un esempio estremo. Nella maggior parte dei casi, gli episodi di contagio emotivo sono molto piÙ sottili e fanno parte di un tacito scambio che si verifica in ogni interazione umana. Noi trasmettiamo e captiamo gli stati d'animo in una continua interazione reciproca - un'economia sotterranea della psiche - nella quale alcuni incontri si rivelano tossici, altri corroboranti. Questo scambio emotivo avviene solitamente a un livello quasi impercettibile; il modo in cui un commesso ci ringrazia puÒ lasciarci con la sensazione di essere stati ignorati, offesi o veramente accolti e apprezzati come i benvenuti. I sentimenti degli altri ci contagiano proprio come se si trattasse di virus sociali.

In ogni interazione, noi inviamo segnali emozionali che influenzano le persone con le quali ci troviamo. Quanto piÙ siamo socialmente abili, tanto meglio riusciamo a controllare i segnali che emettiamo; dopo tutto, il riserbo previsto dalla buona educazione non È che un mezzo per assicurarsi che nessuna “fuga” emozionale destabilizzi l'interazione (una regola sociale che, trasferita nell'ambito delle relazioni intime, È soffocante). L'intelligenza emotiva comporta la capacitÀ di gestire questi scambi; “simpatico” e “affascinante” sono i termini che usiamo per indicare le persone con cui ci piace stare perché le loro capacitÀ emozionali ci fanno star bene. Le persone capaci di aiutare le altre a placare i propri sentimenti hanno una dote sociale particolarmente apprezzata; sono queste le persone alle quali gli altri si rivolgono nei momenti di maggior bisogno. Tutti noi siamo parte della dotazione di cui ciascuno dispone, nel bene o nel male, per modificare le proprie emozioni.

Consideriamo un'eccezionale dimostrazione della facilitÀ con la quale le emozioni passano da una persona all'altra. In un semplice esperimento, due volontari compilarono un elenco dei propri stati d'animo in quel momento, e poi stettero semplicemente seduti uno di fronte all'altro, aspettando tranquillamente che la sperimentatrice rientrasse nella stanza. Due minuti dopo ella tornÒ e chiese loro di compilare un'altra lista analoga. Le coppie di volontari venivano assortite appositamente in modo che uno dei due fosse molto espressivo riguardo alle proprie emozioni, e l'altro impassibile. Immancabilmente, l'umore del soggetto piÙ espressivo si trasferiva nell'altro (4).

Come avviene questa magica trasmissione? La risposta piÙ probabile È che noi inconsciamente imitiamo le emozioni mostrate dagli altri attraverso una mimica motoria inconsapevole che coinvolge l'espressione facciale, i gesti, il tono di voce e altri segnali non verbali dell'emozione. Attraverso questa imitazione l'individuo ricrea in se stesso lo stato d'animo dell'altro - una sorta di versione in chiave minore del metodo Stanislavsky, nel quale gli attori ricordano gesti, movimenti e altre espressioni di un'emozione provata intensamente in passato, nell'intento di rievocarla.

Solitamente, l'imitazione dei sentimenti nelle interazioni quotidiane È estremamente sottile. Ulf Dimberg, un ricercatore svedese presso l'UniversitÀ di Uppsala, scoprÌ che quando un individuo osserva un volto che sorride o esprime collera, la sua faccia riproduce quello stesso stato d'animo attraverso leggeri cambiamenti della muscolatura mimica. I cambiamenti sono evidenti grazie all'applicazione di sensori elettronici, ma solitamente non sono visibili a occhio nudo.

Quando due persone interagiscono, lo stato d'animo viene trasferito dall'individuo che esprime i sentimenti in modo piÙ efficace, a quello piÙ passivo. Alcune persone, tuttavia, sono particolarmente suscettibili al contagio emozionale; la loro sensibilitÀ innata rende piÙ facile l'innesco del loro sistema nervoso autonomo (un marker dell'attivitÀ emozionale). Questa labilitÀ sembra rendere costoro piÙ facilmente impressionabili; si tratta di persone che possono commuoversi fino alle lacrime per un annuncio pubblicitario sentimentale, o che si sentono incoraggiati da una rapida chiacchierata con un tipo allegro (un'interazione che potrebbe anche renderli piÙ empatici, dal momento che costoro vengono facilmente toccati dai sentimenti altrui).

John Cacioppo, lo studioso di psicofisiologia sociale della Ohio State University che ha studiato questi impercettibili scambi emotivi osserva: “PuÃ’ bastare la vista di qualcuno che esprime un'emozione per evocare in noi quello stesso stato d'animo, indipendentemente dal fatto che ci si renda conto o meno di imitare l'espressione facciale dell'altro. Questo ci accade in continuazione - c'È una sorta di danza, di sincronia - una trasmissione di emozioni. E' la sincronia degli stati d'animo che determina se l'individuo ha una percezione positiva o negativa dell'interazione in corso”.

Il grado di comunicazione emozionale che l'individuo percepisce in un'interazione si rispecchia nella misura in cui i movimenti dei soggetti interagenti sono rigorosamente orchestrati mentre essi parlano - un indice, questo, solitamente inconsapevole, di vicinanza. Una persona annuisce quando l'altra spiega qualcosa, o entrambi spostano la sedia nello stesso istante, oppure uno si sporge in avanti mentre l'altro si allontana. L'orchestrazione puÒ essere impercettibile, come se le due persone stessero dondolandosi allo stesso ritmo su delle sedie girevoli. Proprio come osservÒ Daniel Stern a proposito della sincronia fra madri e figli, lo stesso tipo di reciprocitÀ stabilisce un legame fra i movimenti di individui che sentono un contatto emozionale.

Questa sincronia sembra facilitare l'invio e la ricezione degli stati d'animo, anche quando questi ultimi sono negativi. Ad esempio, in uno studio sulla sincronia fisica, alcune donne depresse si recarono al laboratorio accompagnate dai loro partner per discutere di un problema esistente nella loro relazione. Quanto maggiore era la sincronia a livello non verbale fra i due partner, tanto peggio si sentivano i compagni delle donne depresse alla fine della discussione - le donne avevano, per cosÌ dire, attaccato il proprio cattivo umore ai loro compagni (5). In breve, indipendentemente dal fatto che le persone siano ottimiste o demoralizzate, quanto maggiore È la sintonia fisica nelle loro relazioni sociali, tanto piÙ simili tenderanno a diventare i loro stati d'animo.

La sincronia fra insegnanti e studenti indica quanto intensamente essi sentano il rapporto che li lega; studi condotti nelle aule scolastiche dimostrano che tanto piÙ stretta È la coordinazione dei movimenti fra insegnante e studente, tanto piÙ essi si sentono amici, felici, entusiasti e tolleranti durante l'interazione. In generale, in un'interazione un elevato livello di sincronia sta a significare che le persone che vi sono coinvolte si piacciono. Frank Bernieri, lo psicologo della Oregon State University che compÃŒ questi studi, mi disse: “Il modo in cui ti senti con qualcun altro, impacciato o a tuo agio, È in una certa misura una sensazione a livello fisico. Nell'interazione, i due partner devono avere ritmi compatibili, coordinare i movimenti, sentirsi a proprio agio. La sincronia riflette profonditÀ di legame fra i partner; se essi sono molto legati, i loro stati d'animo cominciano a fondersi, indipendentemente dal fatto che siano positivi o negativi”.

In breve, l'essenza di un rapporto sta nella coordinazione degli stati d'animo, che È poi la versione adulta della sintonizzazione di una madre con il suo neonato. Secondo Cacioppo, un fattore determinante affinché le relazioni interpersonali siano efficaci È l'abilitÀ con la quale l'individuo attua questa sincronia emotiva. Se egli È capace di entrare in sintonia con gli stati d'animo altrui, o riesce facilmente a trascinare gli altri nella scia dei propri, allora, dal punto di vista emozionale, le interazioni procederanno in modo piÙ tranquillo. La caratteristica che contraddistingue un leader carismatico o un grande esecutore sta proprio nella capacitÀ di commuovere in questo modo il proprio pubblico. Per lo stesso motivo, Cacioppo sostiene che gli individui incapaci di ricevere o trasmettere emozioni sono destinati a relazioni interpersonali problematiche, dal momento che spesso gli altri si sentono a disagio con loro, pur non riuscendone a spiegare in modo articolato il perché.

Stabilire il registro emozionale di una interazione È, in un certo senso, un segno di dominanza a un livello intimo e profondo: significa poter orientare lo stato emozionale dell'altro. Questo potere di determinare l'emozione È simile a quello che in biologia È chiamato 'zeitgeber' - un processo (come il ciclo giorno-notte o le fasi mensili della luna) che determina i ritmi biologici. Quando si tratta di interazioni fra persone, l'individuo dotato di maggiore espressivitÀ - o di maggior potere - È solitamente quello le cui emozioni trascinano l'altro. Il partner dominante parla di piÙ, mentre quello subordinato passa piÙ tempo a guardare il volto dell'altro - una situazione che facilita la trasmissione dell'affetto. Per lo stesso motivo, la forza di un bravo oratore - un politico o un predicatore - sta nel determinare e trascinare le emozioni del pubblico (6). Ecco che cosa si intende con “Li tiene in pugno”. Esercitare influenza sugli altri significa proprio trascinare le loro emozioni.

- I rudimenti dell'intelligenza sociale.

E' l'ora della ricreazione alla scuola materna, e un gruppo di bambini sta correndo nel prato. Reggie inciampa, si fa male al ginocchio e comincia a piangere, ma gli altri bambini continuano imperterriti a correre - tranne Roger, che si ferma. Quando i singhiozzi di Reggie diminuiscono, Roger si abbassa e si strofina il ginocchio dichiarando “Mi sono fatto male anch'io!”.

Roger È stato citato come un esempio di intelligenza interpersonale da Thomas Hatch, un collega di Howard Gardner al progetto Spectrum, la scuola basata sul concetto delle intelligenze multiple (7). Sembra che Roger sia insolitamente bravo a riconoscere i sentimenti dei suoi compagni e a stabilire con essi connessioni facili e rapide. Fu solo Roger a notare la difficile situazione e il dolore di Reggie, e fu solo Roger a cercare di dargli un poco di sollievo, anche se tutto quel che riuscÌ a offrirgli fu di strofinare a sua volta il proprio ginocchio. Questo piccolo gesto tradisce un talento per i rapporti interpersonali, una capacitÀ emozionale essenziale per la conservazione di forti relazioni - nell'ambito del matrimonio, dell'amicizia, o di un rapporto d'affari. Nei bambini in etÀ prescolare, queste capacitÀ sono gemme di talenti che andranno maturando durante tutta la vita.

Il talento di Roger esemplifica una delle quattro abilitÀ distinte che Hatch e Gardner identificano come componenti dell'intelligenza interpersonale:

- 'CapacitÀ di organizzare i gruppi' - si tratta dell'abilitÀ essenziale del leader, che comporta la capacitÀ di coordinare gli sforzi di una rete di individui. Questo È il tipo di talento che si osserva nei registi e negli impresari teatrali, nei militari con mansioni di comando e nei capi efficienti di organizzazioni e unitÀ di qualunque tipo. Il bambino dotato di questa abilitÀ È quello che diventa il capitano di una squadra o che si assume la guida del gruppo decidendo quale gioco si farÀ.

- 'CapacitÀ di negoziare soluzioni' - questo È il talento del mediatore, capace di prevenire i conflitti o di risolvere quelli giÀ in atto. Gli individui dotati di questo talento eccellono nelle trattative, riescono a far bene da arbitri o da mediatori nelle controversie e potrebbero fare carriera nella diplomazia, o nella legge, oppure come intermediari o mediatori. Nel caso si tratti di bambini, questi sono i soggetti capaci di sedare le liti che scoppiano durante il gioco.

- 'CapacitÀ di stabilire legami personali' - È questo il talento di Roger, la dote dell'empatia e del saper entrare in connessione con gli altri. Essa facilita l'inizio di un'interazione, il riconoscimento dei sentimenti e delle preoccupazioni degli altri e stimola la risposta adeguata - È l'arte stessa della relazione. Le persone che ne sono dotate sono buoni “giocatori di squadra”, coniugi affidabili, buoni amici o partner d'affari; nel mondo del lavoro essi riescono bene come venditori o manager, e possono anche rivelarsi eccellenti insegnanti. I bambini come Roger vanno d'accordo praticamente con chiunque, riescono a inserirsi in un gruppo giÀ impegnato nel gioco e sono felici di farlo. Questi bambini tendono ad essere bravissimi a leggere le emozioni dalle espressioni facciali e sono i piÙ amati dai compagni di classe.

- 'CapacitÀ d'analisi della situazione sociale' - ossia la capacitÀ di riconoscere e di comprendere i sentimenti, le motivazioni e le preoccupazioni altrui. Questa conoscenza del modo in cui si sentono gli altri puÒ facilitare l'intimitÀ e i rapporti. Nel caso migliore, questa abilitÀ porta ad essere terapeuti o consulenti competenti - oppure, se combinata a un certo talento letterario, si confÀ a un romanziere o a un drammaturgo dotato.

Prese nel loro insieme, tutte queste abilitÀ costituiscono l'essenza stessa della brillantezza nei rapporti interpersonali, gli ingredienti necessari per il fascino, il successo sociale - perfino per il carisma. Coloro che sono dotati dell'intelligenza sociale possono entrare in rapporto con gli altri con grandissima disinvoltura, sono abilissimi nel leggere le loro reazioni e i loro sentimenti, sanno fare da guide e da organizzatori, e riescono a comporre le dispute che sempre insorgono in qualunque attivitÀ umana. Essi sono per loro natura dei leader - le persone che sanno esprimere i sentimenti impliciti della collettivitÀ e sanno articolarli in modo da guidare il gruppo al raggiungimento dei propri obiettivi. Questi individui sono il tipo di persona con i quali gli altri amano stare, perché sono corroboranti dal punto di vista emotivo - in altre parole, diffondono intorno a sé il buon umore, e portano gli altri ad esclamare che “E' un piacere avere a che fare con gente cosÃŒ”.

Queste capacitÀ interpersonali si basano su altre intelligenze emotive. Gli individui che fanno un'eccellente impressione sociale, ad esempio, sono bravi a monitorare la propria espressione dell'emozione, e sono abili a sintonizzarsi sulle reazioni degli altri, in modo da adattare alla perfezione la propria prestazione sociale, regolandola al punto da essere sicuri di ottenere l'effetto desiderato. In questo senso, sono come attori consumati.

Tuttavia, se queste capacitÀ interpersonali non sono bilanciate da un'acuta percezione delle proprie esigenze e dei propri sentimenti, come pure del modo per soddisfare entrambi, esse possono portare a un successo sociale privo di reale significato - una popolaritÀ conquistata rinunciando alla propria soddisfazione. Questa È la tesi di Mark Snyder, uno psicologo della Minnesota University; egli ha studiato individui che grazie alle loro abilitÀ erano diventati una sorta di camaleonti sociali, veri campioni nel fare una buona impressione (8). Il loro credo psicologico potrebbe benissimo essere riassunto dalle parole di W. H. Auden quando affermava che l'immagine privata che egli aveva di se stesso “È molto diversa dall'immagine che cerco di creare nelle menti degli altri per fare in modo che essi mi amino”. Tale compromesso si verifica quando le abilitÀ sociali sono superiori alla capacitÀ di conoscere e rispettare i propri sentimenti: per essere amati - o almeno per risultare graditi - i camaleonti sociali sono disposti a prendere le sembianze di qualunque cosa gli altri sembrino desiderare. Il segno che un individuo appartiene a questa categoria, secondo Snyder, È che fa sempre un'eccellente impressione, pur avendo poche relazioni intime stabili o comunque soddisfacenti. Uno schema piÙ sano, naturalmente, È quello di bilanciare la fedeltÀ a se stessi con le abilitÀ sociali, usandole con integritÀ.

Ai camaleonti sociali, perÃ’, non importa assolutamente nulla di dire una cosa e di farne un'altra, purché ciÃ’ arrechi loro l'approvazione sociale. Semplicemente, essi convivono con il divario fra volto pubblico e realtÀ privata. Helena Deutsch, una psicoanalista, definisce queste persone “personalitÀ come-se” - personalitÀ mutevoli dotate di un'eccezionale plasticitÀ che raccolgono segnali tutt'intorno a sé. “In alcuni individui” mi disse Snyder “la personalitÀ pubblica e quella privata si fondono armoniosamente, mentre in altri casi sembra esserci solo un caleidoscopico mutare di apparenze. Sono individui che, nel loro folle tentativo di adattarsi a qualunque persona con la quale si trovino, ricordano Zelig, il personaggio di Woody Allen.”

Prima di reagire, invece di dire semplicemente ciÒ che sentono davvero, queste persone cercano di analizzare minutamente l'altro alla ricerca di un indizio di ciÒ che egli desidera da loro. Per andare d'accordo con gli altri ed essere apprezzati, costoro sono disposti a far credere a coloro che detestano di essergli in realtÀ amici. Inoltre, essi usano queste abilitÀ per plasmare le proprie azioni a seconda delle situazioni sociali piÙ disparate, al punto da agire come persone molto diverse a seconda degli individui con cui stanno interagendo, oscillando da una socievolezza effervescente a una riservata chiusura in se stessi. Sicuramente, nella misura in cui questi comportamenti portano a gestire efficacemente l'impressione prodotta sugli altri, essi si rivelano altamente remunerativi in certe professioni, ad esempio in quelle dell'attore, del legale, del venditore, del diplomatico e del politico.

La differenza fra i camaleonti sociali, alla deriva nella continua ricerca di fare buona impressione su tutti, e coloro che usano la propria brillantezza sociale in modo piÙ conforme ai propri sentimenti, sembra risiedere in un altro tipo di auto-monitoraggio, probabilmente piÙ importante. Si tratta della capacitÀ di essere autentici, “fedeli a se stessi”, come si dice; un'abilitÀ che consente di agire in armonia con i propri sentimenti e i propri valori piÙ profondi, indipendentemente da quelle che potranno essere le conseguenze sociali del nostro atto. Tale integritÀ emozionale puÃ’ benissimo portare l'individuo a provocare deliberatamente uno scontro per risolvere situazioni di doppiezza e negazione - una boccata d'ossigeno che un camaleonte sociale non si permetterebbe mai.

- La formazione di un individuo socialmente incompetente.

Senza dubbio Cecil era brillante; era un esperto a livello universitario di lingue straniere, superbo nella traduzione. Ma in certi altri aspetti fondamentali della vita era completamente inetto. Cecil sembrava privo delle piÙ elementari abilitÀ sociali. Era capacissimo di rovinare una banale conversazione durante il caffÈ e di annaspare se qualcuno gli chiedeva l'ora; per farla breve, sembrava incapace degli scambi sociali piÙ comuni. Poiché questa sua mancanza di garbo sociale era piÙ spiccata in presenza delle donne, Cecil approdÃ’ alla terapia chiedendosi se per caso non avesse “tendenze omosessuali latenti”, come disse lui, sebbene non avesse mai avuto quel tipo di fantasia.

Il vero problema, come Cecil confidÃ’ al suo terapeuta, era il timore che nulla di quanto dicesse avrebbe mai potuto suscitare qualche interesse negli altri. Questa paura sotterranea non faceva che aggravare la sua profonda carenza di doti sociali. Il nervosismo di Cecil durante le interazioni personali lo portava a ridacchiare nei momenti meno opportuni, cosa che invece si guardava bene dal fare se qualcuno diceva qualcosa di davvero divertente. La goffaggine di Cecil, come ebbe egli stesso a confidare al suo terapeuta, risaliva all'infanzia; per tutta la vita egli si era sentito socialmente a suo agio solo con il fratello maggiore, che in qualche modo gli semplificava le cose. Ma quando quello lasciÃ’ la casa paterna, Cecil fu sopraffatto dalla propria inettitudine; dal punto di vista sociale, era paralizzato.

Questa storia È stata raccontata da Lakin Phillips, uno psicologo della George Washington University; egli ipotizzÒ che la difficile situazione di Cecil fosse derivata dalla sua incapacitÀ di apprendere, da bambino, i piÙ elementari principi dell'interazione sociale:

'Che cosa si sarebbe potuto insegnare a Cecil da piccolo? A parlare direttamente agli altri quando quelli gli rivolgevano la parola; a prendere iniziative nei contatti sociali, senza aspettare sempre che a farlo fossero gli altri, a sostenere una conversazione, senza ricorrere immancabilmente ai suoi “sÃŒ”, “no”, e ad altre risposte monosillabiche del genere; ad esprimere gratitudine verso gli altri e a cedere il passo davanti a una porta; ad aspettare che l'altro si sia servito [] a ringraziare, a dire “per piacere”, a condividere, e in genere, tutte le altre elementari interazioni che si cominciano a insegnare ai bambini a partire dall'etÀ di due anni' (9).

Non È chiaro se il deficit di Cecil fosse dovuto all'incapacitÀ di qualcuno di insegnargli i rudimenti della vita sociale o alla sua stessa incapacitÀ di apprenderli. Ma quale ne fosse la causa, la storia di Cecil È istruttiva perché sottolinea la natura fondamentale degli infiniti insegnamenti che i bambini traggono dalla sincronia delle interazioni e dalle regole implicite dell'armonia sociale. L'effetto netto dell'incapacitÀ di seguire queste regole È quello di mettere a disagio le persone intorno a noi. La funzione di tali regole, naturalmente, È quella di fare in modo che tutti siano coinvolti in uno scambio sociale nel quale si trovino a proprio agio; la goffaggine diffonde l'ansia. Gli individui che mancano di queste abilitÀ sono inetti non solo per quanto riguarda le raffinatezze sociali, ma anche di fronte alle emozioni altrui; inevitabilmente si lasciano dietro una scia di disagio.

Tutti noi abbiamo conosciuto i nostri Cecil, persone con una fastidiosa mancanza di attitudini sociali - individui che sembrano ignorare quando interrompere una conversazione o una telefonata e che continuano a parlare, incuranti di tutti i segnali che vengono loro inviati affinché si ponga fine allo scambio salutandosi; individui la cui conversazione È perennemente centrata su loro stessi, senza il benché minimo interesse per nessun altro, e che ignorano ogni tentativo di cambiare argomento; ancora, individui che si intromettono o fanno domande “ficcanaso”. Tutte queste deviazioni da una corretta traiettoria sociale tradiscono una carenza a livello degli elementi costruttivi fondamentali dell'interazione.

Gli psicologi hanno coniato il termine “dissemia” (dal greco 'dys', che indica difficoltÀ, e 'semes', per “segnale”) per riferirsi a quella che sembra essere un'incapacitÀ di apprendere i messaggi non verbali; circa un bambino su dieci presenta una o piÙ difficoltÀ in questa sfera (10). Il problema potrebbe essere in una scarsa percezione dello spazio personale, cosÃŒ che l'individuo sta troppo vicino agli altri mentre parla o semina le proprie cose nel territorio altrui; nella scarsa capacitÀ di interpretare o di usare il linguaggio del corpo; nell'errata interpretazione, o nell'uso sbagliato, delle espressioni facciali - ad esempio la mancanza di contatto visivo; oppure, ancora, in uno scarso senso della prosodia (la qualitÀ emozionale dell'eloquio) una carenza che porta questi soggetti a parlare in modo troppo petulante o eccessivamente piatto.

Molte ricerche si sono concentrate sull'obiettivo di individuare i bambini che mostrino segnali di carenze sociali, soggetti che vengono trascurati o rifiutati dai coetanei a causa della loro stessa goffaggine. Se si escludono i bambini respinti perché si comportano da prepotenti, immancabilmente quelli evitati dagli altri bambini sono soggetti carenti nei rudimenti dell'interazione faccia a faccia, soprattutto per quanto riguarda le regole implicite che governano gli scambi interpersonali. Se i bambini non sono abili nella sfera del linguaggio, si assume che essi non siano molto brillanti o siano stati male istruiti; ma quando essi non sono bravi nell'applicare le regole non verbali alle interazioni personali, finiscono per essere considerati “strani” e vengono evitati - in particolare dai compagni di gioco. Questi sono bambini che non sanno come fare per unirsi con garbo a un gioco giÀ in corso, che toccano gli altri in un modo che genera disagio invece di familiaritÀ - in breve, sono tipi “strani”. Si tratta di bambini che non sono riusciti ad acquisire la padronanza del linguaggio non verbale delle emozioni, e che involontariamente inviano messaggi fonte di disagio.

Come afferma Stephen Nowicki, uno psicologo della Emory University che studia le capacitÀ non verbali nell'infanzia: “I bambini che non sanno interpretare o esprimere le emozioni si sentono perennemente frustrati. Essenzialmente, non capiscono che cosa sta accadendo. Qualunque cosa tu stia facendo, la comunicazione non verbale È come un accompagnamento costante; non puoi smettere di mostrare l'espressione del tuo volto o la tua gestualitÀ, né puoi nascondere il tono di voce. Se compi degli errori nell'invio dei messaggi emozionali, ti rendi conto che la gente reagirÀ a te sempre in modo strano - ti rimproverano e tu non sai perché. Se pensi di dare un'impressione di felicitÀ ma in realtÀ sembri agitato o in collera, gli altri bambini se la prenderanno con te, e tu non capirai perché. Questi bambini perdono completamente il controllo sul modo in cui vengono trattati dagli altri e pensano che le proprie azioni non abbiano alcun impatto su ciÃ’ che accade loro. CiÃ’ li porta a nutrire una sensazione di impotenza, lasciandoli depressi e apatici”.

A parte il fatto che corrono il rischio di diventare degli emarginati sociali, questi bambini patiscono anche sul piano del rendimento scolastico. La classe, naturalmente, È allo stesso tempo una situazione sociale e scolastica: qui, nelle sue interazioni, il bambino socialmente goffo avrÀ la stessa probabilitÀ di interpretare in modo errato e di rispondere inopportunamente sia a un insegnante che a un altro bambino. L'ansia e lo sconcerto che ne risultano possono essi stessi interferire con la capacitÀ di questi soggetti di apprendere in modo efficace. In veritÀ, come hanno dimostrato i test sulla sensibilitÀ non verbale dei bambini, coloro che interpretano i segnali emozionali in modo errato tendono a dare prestazioni scolastiche scadenti rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare stando al loro Q.I. (11).

- Il nuovo arrivato sulla soglia.

L'inettitudine sociale È forse piÙ dolorosa ed esplicita quando si manifesta in uno dei momenti piÙ rischiosi della vita di un bambino piccolo, e cioÈ quando egli si trova sulla soglia di un gruppo che sta giocando e al quale vorrebbe unirsi. Si tratta di un momento rischioso, nel quale il fatto di essere o non essere apprezzati dagli altri, di far parte o meno di un gruppo, diventa una questione di dominio pubblico. Per tale motivo questo momento cruciale È stato oggetto di attente analisi da parte degli studiosi dello sviluppo infantile, e queste ricerche hanno rivelato un grande contrasto nelle strategie di approccio adottate dai bambini ben inseriti socialmente e da quelli emarginati. I risultati ottenuti evidenziano l'importanza, ai fini del raggiungimento della competenza sociale, di osservare, interpretare e rispondere ai messaggi emozionali ed interpersonali. Sebbene sia commovente vedere un bambino che tergiversa intorno al gruppo degli altri che stanno giocando, desiderando unirsi a loro ma rimanendo escluso, si tratta comunque di una situazione universalmente difficile. Anche i bambini piÙ “simpatici” vengono a volte rifiutati - uno studio su bambini di seconda e terza elementare ha riscontrato che il 26 per cento delle volte i bambini piÙ amati dai coetanei venivano comunque rifiutati quando cercavano di entrare in un gruppo che stava giÀ giocando.

I bambini piccoli sono brutalmente sinceri per quanto riguarda il giudizio emozionale implicito in tali rifiuti. Osservate il seguente scambio, che si svolge fra bambini di quattro anni in una scuola materna (12). Linda vuole unirsi a Barbara, Nancy e Bill, che stanno giocando con animali giocattolo e blocchetti per costruzioni. Linda sta lÃŒ a guardare per un minuto, poi fa il suo approccio, sedendo di fianco a Barbara e cominciando a giocare con gli animali. Barbara si volta verso di lei e dice: “Non puoi giocare!”.

“SÃŒ che posso” controbatte Linda: “Ho anche degli animali.”

“No, non puoi” dice Barbara senza mezzi termini. “Oggi non ci piaci.” Quando Bill protesta in difesa di Linda, Nancy si unisce all'attacco di Barbara: “Oggi la odiamo”.

A causa del pericolo di sentirsi dire, piÙ o meno esplicitamente, “Ti odiamo”, tutti i bambini sono comprensibilmente prudenti quando sono sul punto di accostarsi a un gruppo giÀ costituito. Probabilmente la loro ansia non È molto diversa da quella che prova un adulto a un cocktail party pieno di estranei, quando esita a inserirsi in un gruppo che sta animatamente chiacchierando e sembra costituito di amici intimi. Poiché questo momento difficile sulla soglia di un gruppo È cosÃŒ importante per un bambino, esso È anche, come ha detto un ricercatore “altamente diagnostico [] in quanto rivela rapidamente le differenze nelle capacitÀ sociali” (13).

Solitamente i nuovi arrivati se ne stanno a guardare per un po' e poi, dapprima in modo molto esitante, in seguito diventando gradualmente piÙ sicuri, si uniscono al gruppo. Quel che importa di piÙ ai fini dell'accettazione del nuovo arrivato È la misura in cui egli È capace di entrare nello spirito del gruppo, percependo il tipo di gioco in corso e individuando eventuali comportamenti inopportuni.

I due peccati capitali che quasi sempre portano al rifiuto del nuovo arrivato sono: cercare di assumere il comando troppo presto e non essere in sincronia con lo spirito del gruppo. Ma questo È esattamente ciÃ’ che tendono a fare i bambini “antipatici”: essi impongono il proprio stile al gruppo, cercando di cambiare gioco troppo presto o all'improvviso, oppure esprimono le proprie opinioni, o manifestano il proprio disaccordo in modo troppo diretto - tutti evidenti tentativi di attirare l'attenzione su di sé. Paradossalmente, questo comportamento si traduce nell'essere ignorati o rifiutati dal gruppo. Invece, i bambini “simpatici”, prima di entrare nel gruppo passano un po' di tempo a osservarlo per capirne la dinamica e poi fanno un gesto qualunque per dimostrare la loro accettazione; prima di prendere iniziative e di suggerire quel che il gruppo dovrebbe fare, essi aspettano di avere un proprio status all'interno di esso.

Torniamo dunque a Roger, il bambino di quattro anni che Thomas Hatch riteneva dotato di un elevato livello di intelligenza interpersonale (14). La tattica di Roger per inserirsi in un gruppo era dapprima quella di osservare, poi di imitare quello che stava facendo un altro bambino, e finalmente di parlargli e di unirsi completamente all'attivitÀ - una strategia vincente. L'abilitÀ di Roger venne dimostrata quando, ad esempio, lui e Warren stavano giocando a mettere “bombe” (in realtÀ sassi) nei propri calzini. Warren chiede a Roger se vuole stare su un elicottero o su un aeroplano. Prima di impegnarsi, Roger si informa: “Tu sei su un elicottero?”.

Questo scambio apparentemente innocuo rivela sensibilitÀ per gli interessi degli altri, e la capacitÀ di agire sulla base di quella conoscenza in modo da mantenere il collegamento con l'altro. Hatch commentava a proposito di Roger: “Egli fa un 'controllo' con il suo compagno di giochi, in modo da conservare la connessione sia con lui che con il gioco. Ho osservato molti altri bambini che semplicemente entrano nel proprio elicottero o nel proprio aeroplano e, letteralmente e metaforicamente, volano via lontano gli uni dagli altri”.

- Un caso di talento emozionale.

Se il test per scoprire l'abilitÀ sociale È la capacitÀ di calmare le emozioni fonte di turbamento negli altri, allora riuscire a controllare qualcuno che si trovi al culmine della collera piÙ violenta È forse una misura di autentica maestria. I dati sull'autoregolazione della collera e sul contagio emozionale indicano che una strategia efficace potrebbe essere quella di distrarre la persona in collera, empatizzare con i suoi sentimenti e la sua prospettiva, e poi attirare l'individuo in modo da fargli considerare la circostanza da un'angolatura diversa, che lo metta in sintonia con una serie di sentimenti piÙ positivi - una specie di judo emotivo.

Questa sofisticata abilitÀ nella fine arte dell'influenza emozionale È forse illustrata al meglio da una storia che mi raccontÒ un vecchio amico, il compianto Terry Dobson, che negli anni Cinquanta fu uno dei primi americani a studiare l'arte marziale dell'aikido in Giappone. Un pomeriggio stava tornandosene a casa su un treno della metropolitana di Tokyo quando salÌ sulla vettura un operaio enorme, aggressivo, sporco e ubriaco fradicio. L'uomo, barcollando, cominciÒ a terrorizzare i passeggeri: bestemmiando, diede uno spintone a una donna che teneva un bambino in braccio, mandandola a cadere lunga distesa addosso a una coppia di persone anziane, che saltarono in piedi e si unirono al fuggi fuggi generale verso l'estremitÀ opposta della vettura. L'ubriaco, assestando qualche altro ceffone (e, nella collera, mancando il bersaglio) afferrÒ il palo di metallo nel mezzo della vettura e con un ruggito cercÒ di estrarlo dal suo supporto.

A quel punto, Terry, che era all'apice della condizione fisica grazie agli allenamenti quotidiani di otto ore di aikido, si sentÃŒ chiamato a intervenire, altrimenti qualcuno si sarebbe fatto male sul serio. Ma ricordÃ’ le parole del suo maestro: “L'aikido È l'arte della riconciliazione. Chiunque abbia in mente di combattere ha spezzato i propri legami con l'universo. Se cerchi di dominare gli altri sei giÀ sconfitto. Noi studiamo come risolvere il conflitto, non come accenderlo”.

In veritÀ, quando aveva cominciato a prendere le sue lezioni, Terry aveva promesso al suo maestro che non avrebbe mai provocato un combattimento, e che avrebbe usato le sue capacitÀ nelle arti marziali solo a scopo di difesa. Ora, infine, si vedeva offerta la possibilitÀ di saggiare la propria abilitÀ nella vita reale, in quella che era sicuramente un'occasione legittima. CosÌ, mentre tutti gli altri passeggeri se ne stavano paralizzati sui propri sedili, Terry si alzÒ in piedi, lentamente e con fare deciso.

Vedendolo, l'ubriaco ruggÃŒ: “Aha! Uno straniero! Ti ci vuole una bella lezione alla maniera giapponese!” e cominciÃ’ a ricomporsi per affrontare Terry.

Ma proprio quando l'ubriaco era sul punto di fare la sua mossa, qualcuno proruppe in un “Hey!” assordante e stranamente gioioso.

Il suono aveva il tono allegro di qualcuno che si fosse improvvisamente imbattuto in un carissimo amico. L'ubriaco, sorpreso, si girÃ’ e vide un minuscolo ometto giapponese, probabilmente sulla settantina, lÃŒ seduto avvolto nel suo kimono. Il vecchio guardava l'ubriaco con piacere e lo chiamÃ’ con un cenno leggero della mano e un allegro “Vieni qui”.

L'ubriaco s'incamminÃ’ con un aggressivo “Perché diavolo dovrei parlare con te?”. Nel frattempo, Terry si teneva pronto ad atterrare l'uomo in un momento al minimo accenno di violenza.

“Che cosa stai bevendo?” chiese il vecchio, con gli occhi fissi sull'uomo ubriaco.

“Bevo sake, e non sono affari tuoi” grugnÃŒ in tutta risposta.

“Oh, È fantastico, assolutamente fantastico” replicÃ’ il vecchio con tono cordiale. “Sai, anch'io amo il sake. Ogni sera, io e mia moglie (ha settantasei anni) scaldiamo una bottiglietta di sake e ce la portiamo fuori in giardino, e poi sediamo su una vecchia panca di legno” E andÃ’ avanti parlando dell'albero di cachi che cresceva nel suo cortile, delle bellezze del suo giardino e del piacere di farsi un sake di sera.

La faccia dell'ubriaco cominciÃ’ a distendersi mentre ascoltava il vecchio; i pugni si aprirono. “GiÀ anche a me piacciono i cachi” disse, con la voce strascicata.

“SÃŒ,” replicÃ’ il vecchio, con tono brioso “e sono sicuro che hai una moglie meravigliosa”.

“No” disse l'operaio. “Mia moglie È morta” Singhiozzando, si lanciÃ’ in un triste racconto spiegando come avesse perso la moglie, la casa e il lavoro, e di come si vergognasse di se stesso.

Proprio in quel momento il treno arrivÒ alla fermata di Terry, e mentre scendeva dalla vettura, egli udÌ l'uomo con il kimono invitare l'ubriaco a unirsi a lui e a raccontargli tutta la storia, mentre quello crollava sul sedile, con la testa appoggiata nel grembo del vecchio.

Questo È genio emozionale.



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