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Formazione dei pianeti

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Formazione dei pianeti

La formazione dei pianeti, ed in particolare quella dei pianeti terrestri, privilegia la materia solida rispetto a quella gassosa. E’ pertanto importante studiare quali siano le caratteristiche della materia solida presenti nel mezzo interstellare. L’approccio astrofisico che abbiamo seguito nel paragrafo precedente ci indica che Sole e pianeti debbono essersi formati insieme dal collasso gravitazionale di una nube, nella quale eventualmente, possono essersi formati molti soli. Il disco che si forma attorno ad alcune delle stelle in formazione in alcuni casi porta alla formazione dei pianeti, mentre, in altri casi, porta alla formazione di sistemi binari o multipli. In tutti i casi però il materiale di partenza è quello che viene comunemente definito come mezzo interstellare. E’ per questo motivo che è opportuno qui descriverne la genesi e le caratteristiche.



Il gas Interstellare

Le stelle nella galassia sono abbastanza lontane tra loro, la più vicina al Sole infatti, si trova ad oltre 4 anni luce di distanza. Lo spazio tra le stelle però non è completamente vuoto, come si credeva fino a poche decine di anni, polveri e gas riempiono le distanze che le separano in quello che viene chiamato il mezzo interstellare

Il mezzo interstellare è costituito di gas e polvere. Il gas è formato in gran parte da idrogeno, atomico e molecolare, a varie temperature e densità, e in quantità minori da elio e altri elementi, quali il carbonio, l'azoto e l'ossigeno. L’Idrogeno e l’elio si sono formati nelle fasi iniziali della vita dell’universo. Gli elementi pesanti invece, si generano nelle reazioni di fusione 2 antiche, questi elementi pesanti si combinano, se le condizioni lo permettono, in un'ampia gamma di molecole. Noi non conosciamo esattamente la distribuzione degli elementi pesanti, particolarmente del Mg, Si, Fe, poiché essi sono probabilmente condensati in grani le cui dimensioni variano da 0.1 micron a qualche millimetro. I grani più piccoli sono composti da non più di 1000 atomi. Gli elementi più pesanti invece sonno rilasciati nel mezzo interstellare da esplosioni di supernove.

Figura 2: La crab Nebula, vista dal VLT

Il gas è il più delle volte invisibile ai telescopi ottici (tranne quando è illuminato da stelle vicine, calde e luminose), ma rivelabile nella banda radio per mezzo dei radiotelescopi. Si trova diffuso per tutta la Galassia, anche se risulta più concentrato nelle regioni centrali e nei bracci a spirale che formano il disco. Generalmente tende a concentrarsi in nubi o in sottili ciuffi filamentosi. Infatti, sebbene estremamente rarefatto, il gas interstellare può accumularsi per via della propria attrazione gravitazionale e formare delle enormi nubi molecolari.

Come suggerisce il nome, le nubi molecolari giganti sono composte prevalentemente da gas ma contengono piccole quantità di polveri. Le nubi hanno temperature molto basse (non superano i 100 K, corrispondenti a -173 C), mentre il gas diffuso, con densità molto minori, può raggiungere anche 1.000.000 di K, nel momento in cui viene riscaldato da radiazioni molto energetiche (ultravioletto e X) e da flussi concentrati di raggi cosmici. La densità della nostra atmosfera, anche quella delle più tenui nuvole terrestri, è enorme se comparata a quella delle nubi molecolari, circa 1012 volte! Si trovano nel bracci della nostra galassia, la Via Lattea, si estendono però per distanze valutabili in decine di parsec e, rispetto al vuoto, sono centinaia di volte più dense contenendo in alcuni casi materia sufficiente per formare qualche centinaio di migliaia di stelle di massa comparabile a quella del Sole. Inoltre sono freddissime, con una temperatura media tra i 10 e 100 gradi Kelvin.

Un’ altra considerazione da fare è che, nel processo di formazione planetaria, la polvere deve aver giocato un ruolo rilevante: altrimenti sarebbe impossibile capire perché i pianeti terrestri sono prevalentemente costituiti di silicati, che sono presenti solo nella polvere. Recentemente sono stati osservati un gran numero di dischi orbitanti attorno a stelle giovani. I dischi finora osservati contengono una notevole quantità di polvere. Ad esempio, il disco di Beta Pictoris, che è stato osservato nel corso della missione ISO. In questo caso il disco circonda una stella giovane ed ha dimensioni ben maggiori di quelle del sistema solare attuale.

Polvere Interstellare

La polvere ha un ruolo fondamentale nella formazione del sistema planetario, che costituisce una fase del più complesso ciclo di evoluzione del mezzo interstellare. Di questo ciclo siamo in grado di studiare fasi diverse in diversi ambienti astrofisici che, tramite un lungo lavoro di modellistica, è stato possibile inquadrare in un unico scenario evolutivo. I venti stellari costituiscono la maggiore sorgente di polvere che viene immessa nel mezzo interstellare. Questa nuova “polvere di stelle” si mescola a quella già presente e subisce trasformazioni dovute all’azione di shock da esplosioni di supernovae, radiazione UV, irraggiamento ionico (Figura 4).

La successiva fase evolutiva prevede la formazione di nuclei densi di polvere (di alcune masse solari) all'interno di nubi molecolari (es., la nebulosa di Orione) in cui la polvere subisce ulteriori modificazioni, accrescendo per condensazione di fasi gassose e coagulazione, e venendo a costituire il seme del processo di formazione di un sistema planetario. Il nucleo denso di polvere collassa formando una proto-stella centrale circondata da un disco di gas e polveri dove ha luogo il fenomeno di accrescimento e formazione di pianeti. Con l’invecchiamento della stella centrale, il ciclo si chiude e nuova materia solida di composizione diversa da quella originaria, a causa della elaborazione subito all'interno della stella, viene immessa nel mezzo interstellare. Si valuta che un tipico grano di polvere interstellare sia soggetto a diversi cicli (Figura 5) durante la sua vita della durata media di 200 Ma, prima di venire coinvolto nella formazione di un sistema planetario.

Figura ?. Processi attivi su un grano all’interno di una nube densa

 
I grani interstellari che entrano nella nube proto-solare possono essere distrutti o trasformati dagli urti o dalle alte temperature al centro della nube, formare protopianeti e differenziarsi, oppure rimanere intrappolati in uno stadio primordiale all’interno di corpi minori quali comete o KBOs (Kuiper Belt Objects). A causa di processi di urto o durante il passaggio di comete al perielio, la polvere torna a popolare il mezzo interplanetario sotto forma di particelle di polvere (IDPs – Interplanetary Dust Particles). Nel complesso queste particelle non possono considerarsi residui del processo di formazione del Sistema Solare, in quanto il loro ciclo di vita è relativamente breve (in media 100 Ma). D’altra parte, le IDPs 'sopravvissute' (es., quelle di origine cometaria) contengono informazioni sulle proprietà chimiche e mineralogiche della polvere pre-solare, oltre che sul processo di formazione del Sistema Solare.

Il Disco

E’ generalmente accettato che un sistema planetario si formi a partire dal disco di polvere e gas che circonda una stella giovane. Recentemente si è sviluppata la teoria dei dischi di accrescimento. In un disco di accrescimento stazionario la massa viene trasportata verso l’interno del disco, mentre il momento angolare verso l’esterno. Per capite come ciò avviene, consideriamo due anelli adiacenti di gas a distanze r1 ed r2 dalla stella ( figura 6) . Il gas orbita con velocità rispettivamente v1 ed v2 . La differenza di velocità produce un attrito viscoso, che è responsabile per una trasformazione irreversibile della energia. L’energia dissipata in attrito scalda il gas, che si trova però a non essere più in equilibrio. Quindi una certa quantità di materiale si sposta verso zone più interne del disco cosicché l’energia totale si conservi. L’anello interno si trova ad aver più momento angolare di quello che gli competerebbe, per cui, poiché il momento angolare deve conservarsi, una certa quantità di gas deve spostarsi verso l’esterno. Così il disco perde massa verso il corpo centrale, ma nelle sue zone esterne si espande. In un disco stazionario il materiale fluisce verso l’interno a rate costante, . Per un disco infinito ed infinitamente sottile, la luminosità totale generata dall’accrescimento risulta:

M* è la massa della protostella, mentre R* è il suo raggio. Il gas scaldato per attrito irraggia metà della sua energia verso l’esterno ( teorema del viriale) . L’altra metà della energia diventa energia cinetica caratteristica del moto orbitale attorno alla stella centrale. Nella maggior parte dei casi il materiale penetra fino al bordo della fotosfera. A questo punto il materiale con velocità angolare deve rallentare per restare in equilibrio con la stella che ruota invece a velocità

La velocità angolare risulta:

La Transizione tra zone di gas a velocità ed avviene in una piccola regione di transizione denominata “ boundary-layer”. In pratica si tratta di un anello piuttosto sottile di dimensione:

<< 1

è l’altezza di scala del gas del disco che, in generale si assume essere sottile. Pertanto è sempre molto minore di 1. L’energia persa dal gas nel boundary layer è la differenza tra l’energia rotazionale del disco ( per unità di massa) e quella della stella.

In alcuni casi, il campo magnetico della stella centrale “ tronca” il disco. Per derivare la temperatura del disco, utilizziamo ancora la conservazione della energia. La temperatura del disco sarà il risultato del bilancio tra l’energia persa dal disco- che può essere approssimato da un corpo nero- e dal momento di torsione dovuto all’attrito tra due masse che si muovono nel campo gravitazionale della stella a distanza

per <<R la 1.6 risulta

Dalla si può ricavare la temperatura del disco che risulta:

I modelli standard assumono che la generazione di energia del disco tenda a 0 al bordo della fotosfera.

Quindi la temperature di un disco stazionario dipende dalle modalità del trasporto del momento torcente. A questo punto è possibile confrontare la generazione di energia gravitazionale media con la generazione di energia nucleare. In tabella, seguendo (Kenyon, 2000) sono riportati tali valori per diversi tipi di oggetti stellari.

Object

( erg/g)

( erg/g)

T- Tauri

5 x 10 14

5 x 10 13

Stelle di sequenza

2 x 10 14

5 x 10 18

Nane bianche

1 x 10 17

4 x 10 18

Stelle di neutroni

5 x 10 20

5 x 10 18

Dall’esame dalla tabella si vede che, per stelle giovani, come le T-tauri, l’energia gravitazionale domina. Successivamente, per la maggior parte della vita della stella, la generazione di energia termonucleare è prevalente. Solo alla fine della storia di una, quando il “ carburante” nucleare è terminato, e la pressione del gas non si oppone più alla forza di gravità, quest’ultima prevale, come nel caso delle stelle di neutroni. Tuttavia, il caso finora studiato è estremamente semplice poiché considera un disco infinitamente sottile, in cui la massa è aggiunta gradualmente al bordo esterno. In un disco di dimensioni finite, invece, si definisce l’ altezza di scala caratteristica. In tal caso, si consideri un certo elemento di gas, che cade dall’infinito ad una orbita circolare r* . Metà della energia gravitazionale sarà convertita in energia cinetica orbitale- come nel caso presedente- l’altra metà se ne andrà sotto forma di calore.

La è la quantità di energia disponibile per scaldare il gas. Nella M* è ancora la massa della protostella, mentre r* è la distanza dal corpo centrale cui il gas arriva, e G la costante gravitazionale. Se il gas è in equilibrio termodinamico e la gravità del corpo centrale domina, allora la pressione in direzione verticale diventa:

e l’altezza di scala del gas cresce con la distanza dal centro del disco, come segue:

Nella , T è la temperatura e μ è il peso molecolare del gas. Così, anche in condizioni di equilibrio, attorno alla protostella si può generare un disco la cui altezza aumenta all’aumentare della distanza dal centro. Anche nel caso di disco spesso la struttura del disco dipende sostanzialmente dalla efficienza nel trasporto di momento angolare dall’interno verso l’esterno e dalla viscosità che si genera tra due strati di gas adiacenti, a diversa velocità. Anche se possono essere considerati diversi meccanismi di trasporto del momento angolare, tra cui l’accoppiamento magnetico e quello gravitazionale, quello più importante è quello viscoso.

In generale la viscosità molecolare, quella tipica dei fluidi in condizioni terrestri, non è molto grande. Invece, se il gas è turbolento, si genera una viscosità turbolenta che può essere molto maggiore di quella molecolare. Seguendo Shakura e Sunayev (1973) la viscosità turbolenta può essere scritta come segue:

νs = αcsH 

α è il coefficiente di viscosità turbolenta che è circa 10-3-10-2, per dischi otticamente spessi, mentre cs, è la velocità del suono e H l’altezza di scala del disco, precedentemente definita. La profondità ottica, o in alternativa, la opacità del disco è il parametro chiave per la sua evoluzione. Infatti, più opaco è il disco, meno facilmente l’energia viene dissipata verso l’esterno e, conseguentemente più caldo esso diventa. Le sorgenti di opacità, come in una atmosfera planetaria, sono i grani, ove sono presenti nel disco, le transizioni molecolari dell’ H O e della CO2, ed i processi di ionizzazione dell’idrogeno. Nelle zone interne del disco le temperature sono troppo alte perché i grani possano sopravvivere, e le molecole non sono presenti. Così i processi di ionizzazione dominano. Ciò corrisponde grossolanamente alla zona all’interno della attuale posizione di Mercurio. Nelle zone intermedie domina la componente molecolare dell’opacità, e, nelle zone esterne, quando la temperatura scende sotto i 2000 K, le opacità sono dominate dai grani. La trattazione fatta fin qui è molto approssimativa ed è stata acclusa per dare una idea di come i vari meccanismi di trasferimento agiscano.

L’argomento dei dischi di accrescimento è estremamente importante in astrofisica pertanto è opportuno anche introdurre una trattazione più rigorosa, che ci permetta di comprendere che cosa si intenda quando si parla di modelli di “α-disk”, oppure “α-models”.

Supponiamo di considerare un disco in cui un gas ruota con moto kepleriano attorno al corpo centrale. Ciò vuol dire che i gradienti di pressione nel gas sono trascurabili. In tal caso possiamo scrivere le equazioni di conservazione della massa, del momento e della energia, che risultano:

Nel sistema di equazioni precedente, è la densità superficiale di massa, cioè la quantità di massa presente in una colonna del disco, è la velocità kepleriana di rotazione del gas alla distanza r, J, è il flusso di momento angolare al bordo, M è la massa del corpo centrale, è il rate al quale il calore viene irradiato verso l’esterno. L’attrito viscoso può ora essere espresso come segue:

La rappresenta la componente locale dell’attrito viscoso che permette di trasformare il moto azimutale del gas che cade sul disco, in moto radiale. Per “chiudere” il sistema di equazioni è necessario aggiungere l’equazione di stato dei gas, che risulta:

In generale, quando si parla di dischi planetari la pressione di radiazione è trascurabile, per cui l’equazione di stato si riduce a quella dei gas perfetti.

Il calore generato nel disco per attrito viscoso risulta:

Per un gas si può assumere che ; si può inoltre assumere che l’attrito viscoso – se il gas è turbolento- sia proporzionale al rapporto tra la velocità dei vortici turbolenti ed inversamente proporzionale alla dimensione dei vortici stessi, tramite un coefficiente η. L’espressione approssimata risulta quindi:

Se la turbolenza è ben sviluppata, come avviene quasi sempre nel caso di fluidi astrofisica, risulta che , il che implica, .

Si può ora fare una ulteriore assunzione: Shakera e Sunayev assumono che se la turbolenza diventa supersonica, la conversione di energia cinetica in calore avviene in modo molto efficiente e la velocità turbolenta sarà sempre inferiore, o al massimo uguale, alla velocità del suono nel mezzo.. Se inoltre si assume che i vortici di dimensioni più grandi non possono superare l’altezza di scala del disco H, definita dalla , allora si può assumere:

Ricordando che ed assumendo che si può verificare che :

Quindi, il parametro α – che è sempre < 1- è utilizzabile per esprimere tutte le grandezze del disco. Ovviamente questa è solo una approssimazione utile per esprimere in modo semplice quanto il disco sia turbolento.

Infine, α esprime l’intensità della turbolenza nel disco.

Composizione chimica ed isotopica del disco

La composizione del disco è importante poiché essa determina quale fosse la composizione del materiale dal quale i pianeti hanno successivamente avuto origine. Tale composizione, inoltre, varia nel tempo, poiché, al decrescere della temperatura nel disco, le specie chimiche di più basso punto di fusione cominciano a condensarsi. Il gas dapprima di riscalda, a causa del calore prodotto dal materiale che continua ad accrescere il disco, e successivamente, quando le fasi di accrescimento violento si sono esaurite, si raffredda. Nelle zone interne del sistema planetario molta parte del materiale solido fonde, raggiungendo temperature superiori ai 2000 K. A queste temperature si può assumere che l’evoluzione chimica successiva avvenga in condizioni di equilibrio termodinamico. Quindi, quando la nebulosa si raffredda, si può assumere che sia in equilibrio termodinamico: dapprima quindi condenseranno le specie di più alto punto di fusione e, successivamente, tutte le altre. Ovviamente si otterranno diverse sequenze di condensazione in funzione delle abbondanze relative di certi materiali. In figura 8 sono riportate le sequenze di condensazione dei vari materiali al diminuire della temperatura: dapprima si condensano le REE (terre rare), successivamente gli ossidi di alluminio. A 1400 K inizia la condensazione del ferro, e solo al disotto di 1200 K appaiono i primi feldspati. In parte tale teoria è confermata da due evidenze: nelle meteoriti sono state identificate sequenze di condensazione simili a quelle calcolate, mostrate in figura 8; la composizione isotopica dei materiali finora raccolti è sostanzialmente uniforme, a testimoniare la presenza di un esteso episodio di omogeneizzazione termodinamica della nebulosa solare primordiale (Prinn, R. G., and B. Fegley, Jr. 1989)

Ovviamente esistono discrepanze da questa regola generale. Il materiale primitivo, e particolarmente i grani intrappolati nei meteoriti, sembrano essere caratterizzati da composizioni isotopiche diverse, forse memoria della loro origine nel mezzo interstellare.

Sarà quindi necessario, nel futuro, stabilire una strategia di raccolta di campioni extraterrestri rappresentativi, che appartengano ad oggetti formatisi in zone diverse delle nebulosa. per questo che il passo successivo alle missioni di esplorazione ed alle analisi in situ deve essere il sample return. Non a caso nel futuro dlla esplorazione cometaria, asteroidale e marziana (nell’ambito del progetto Aurora), sono state indicate come essenziali le missioni di sample return.

Massa del disco protoplanetario

La massa del disco protoplanetario è ovviamente ignota, tuttavia possiamo facilmente stabilire quale sia stata la massa minima. Infatti possiamo partire dalla considerazione che le proporzioni originali nel disco fossero simili a quelle del mezzo interplanetario. Pertanto il rapporto tra gas e polvere doveva essere simile a quello trovato nel nezzo interstellare. Nelle zone interne del sistema planetario sono presenti soprattutto elementi pesanti, come Fe, Mg, Si. Quindi, per ricondurci alla situazione tipica del mezzo interstellare occorre aggiungere una massa di idrogeno ed elio da cento a mille volte maggiore della massa in grani. Per ricostruire la nebulosa in modo ragionevole, è anche necessario ridistribuire la massa ricostruita in modo continuo. Una scelta possibile è quella di ridistribuirela massa ricostruita dei pianeti in un anello il cui spessore sia circa la metà della distanza tra un pianeta e l’altro.

La nuova densità superficiale di massa risulterà, assumendo che ad 1 AU la densità superficiale sia circa 3000 g cm -2 come segue:

Se si assume che il gas nel disco sia un gas perfetto, la velocità del suono può essere espressa come segue:

Si può anche calcolare la opacità del disco assumendo inoltre che i grani abbiano rp = 0.1 m siano per metà metallici ed abbiamo densità r = 3 g cm-3

In questa ipotesi la profondità ottica risulterà t 105 (1 AU/r)1.5

Supponiamo di voler valutare quali siano le caratteristiche di questo disco. Facciamo l’ulteriore assunzione che il disco sia isotermo, in direzione verticale, e calcoliamo l’equazione barometrica. Avremo:   ove , il potenziale gravitazionale che agisce su una particella di gas di massa mgas che si trova a distanza R dal sole e z dal piano centrale del disco. Poiché z << R la può essere semplificata.

Con semplici passaggi si può ricavare :

ove che può essere anche espressa, in termini dei parametri del dusco, come segue:

; ci conviene anche ricordare che la velocità angolare, alla distanza della terra, che usiamo come rioferimento, risulta: ; mentre la velocità del suono risulta:

In analogia con quanto mostrato per la massa di Jeans, che rappresenta la massa minima instabile in un sistema a simmetria sferica, si può verificare che, in un disco la quantità che innesca l’instabilità gravitazionale è il cosiddetto parametro di Toomre, che può essere espresso come segue:

Nella è la densità superficiale del gas, che in prima approssimazione è legata a tramite la seguente equazione: . Se nella inseriamo i valori tipici della nebulsa solare di piccola massa, ci accorgiamo che essa è stabile,. Infattti per i parametri standard da noi utilizzati della nebulosa solare primordiale risulta circa 170!

L’evoluzione della componente solida

A questo punto dobbiamo seguire il fato della polvere. Benché la polvere rappresenti una percentuale in massa dell’1 – 2%, essa gioca un ruolo fondamentale nella formazione di un sistema planetario in quanto influenza lo scambio radiativo e l’evoluzione dinamica della nube densa nelle prime fasi della sua evoluzione, la formazione del disco, la ridistribuzione viscosa della materia e del momento angolare al suo interno e l’espulsione dal disco degli elementi volatili dovuta alla stella in formazione (fase T-Tauri). La formazione dei corpi planetari ha inizio durante la fase di evoluzione viscosa del disco. I meccanismi di accrescimento dei grani sono diversi da quelli degli oggetti intermedi, ma entrambi implicano processi collisionali costruttivi. La formazione di oggetti intermedi, quelli denominati planetesimi, che hanno dimensioni dei chilometri o maggiori, non è ancora ben chiara. Le teorie degli anni settanta oscillavano tra due posizioni estreme: alcuni autori, come Cameron (1975) supponevano che l’adesione tra grani fosse un meccanismo estremamente efficiente, altri autori, come Safronov (1969) privilegiavano il modello di formazione di planetesimi mediante instabilità gravitazionale. Molto probabilmente questi due meccanismi hanno lavorato congiuntamente, all’interno di una nebulosa turbolenta (Cuzzi et al. 1993, 1996).

Secondo le teorie correnti, le IDP accrescono rapidamente per adesione collisionale fino a formare oggetti di qualche centimetro. Il meccanismo di crescita delle particelle del mezzo interstellare, oppure dei prodotti del processo di condensazione a formare i planetesimi è ancotra dibattuto. I meccanismi di adesione dei grani possono prevedere adesione per mezzo di interazioni elettrostatiche od elettromagnetiche, oppure invocare la presenza meccanismi di adesione sotto vuoto.

L’accrescimento dei grani e le instabilità gravitazionali

Quando l’accrescimento di massa sul disco diminuisce, e alla fine cessa, la nebulosa diventa quiescente. L’evoluzione di un disco quiescente è molto più lenta poiché la viscosità da turbolenta diviene laminare. Il disco si appiattisce ed i grani, condensatisi, si accrescono collisionalmente purchè le forze di attrazione tra grani siano in grado di mantenere uniti due grani che si urtano alle velocità tipiche di questa fase del preocesso di accumulazione. Safronov ( 1969) ha utilizzato la cosiddetta equazione di coagulazione, che permette di calcolare come si accresce la massa media dei grani in una popolazione di grani immersi nel gas. Tale equazione può essere espressa come segue:

Qui σc è la sezione d’urto costruttiva, e σd quella distruttiva. V è la velocità di impatto relativa,

F(v, <v2 >1/2 ) è la velocità d’urto relativa, e <v2 >1/2 is the turbulent velocity, poichè si può assumere che i grani siano trasportati dai vortici turbolenti.

N(m,t) is è la distribuzione della massa dei grani al tempo t, N1 (m', m',v) è il numero di frammenti di massa m ottenuti da una particella di massa m' se m'>m'' e la loro velocità relativa è v.

L’accelerazione dei grani nel disco protoplanetario può essere espressa come segue:

ove,

è la densità del gas

velocità del suono nel gas

ρ è la densità dei grani

R il raggio dei grani

è la velocità angolare Kepleriana

Seguendo la , sotto l’azione della forza di gravità, i grani tendono a “ sedimentare” sul piano centrale della nebulosa, separandosi in parte dal gas. La velocità di equilibrio dai grani può essere espressa come segue:

e l’effettiva gravità da essi sperimentata, risulta:

Il secondo termine della è la pressione effettivamente sperimentata dai grani. Va ricordato che, se il gas è quiescente il processo di sedimentazione sul piano centrale si evolve rapidamente. In tal caso possono innescarsi instabilità gravitazionali.

Applichiamo ora il criterio di Toomre al disco di grani:

Qui, W è la velocità angolare di una particella, sp e Hp sono rispettivamente, la densità superficiale di massa e l’altezza di scala del disco di grani. Il legame tra la densità di particelle e la densità superficiale, in prima approssimazione, come già nel caso del gas,

Per Q << 1 tutte le lunghezze d’onda λ < lc = 4p2G σ /W 109 cm sono instabili. La massa massima instabile risulta: Mc p l/2)2 = 1019 g, corrispondente ad un raggio di circa 10 km. Quindi, il disco di particelle, che è molto più “freddo” del disco di gas, è più facilmente instabile.

I planetesimi che si generano per instabilità gravitazionale hanno la seguente massa:

ove σp è la densità superficiale del gas di particelle al momento della instabilità, è la costante gravitazionale e è il periodo orbitale a distanza dal sole. I planetesimi che si formano in tal modo si contraggono ulteriormente sotto l’azione della forza di gravità fino a raggiungere, nelle regioni interne del sistema solare, masse di circa 1019 g e dimensioni di circa 1 Km. Nelle zone esterne i planetesimi dovrebbero essere più grandi e meno densi, raggiungendo masse di circa 1021g.

Se nella nebulosa è presente un notevole grado di turbolenza, le instabilità gravitazionali locali non possono innescarsi. La turbolenza tuttavia favorisce le collisioni tra grani e quindi la loro crescita. Tuttavia va sottolineato che quando le particelle sono di piccole dimensioni i processi di adesione debbono essere legati a fenomeni di microfisica. La gravità infatti è insufficiente a mantenere unite particelle di dimensioni millimetriche o submillmetriche. In tal caso agiscono invece forze di Van der Waals, oppure forze elettrostatiche. Le forze di Van der Waals o di London sono forze che si manifestano tra dipoli transienti che sono presenti nelle molecole a causa del fatto che la nuvola elettronica che circonda il nucleo ha una distribuzione probabilistica. In certi casi la distribuzione di carica può essere tale da generare un dipolo transiente, positivo o negativo, che può essere “visto” da una analoga molecola in cui si è generato un dipolo di segno opposto. Data la loro natura esse sono deboli ed a corto raggio. Le forze di Van der Waals si formano tra molecole polari che si orientano avvicinando le estremità di segno opposto o tra molecole polari e apolari che assumono una carica . Le forze di dispersione di London, si formano tra molecole non polari che presentano polarizzazioni istantanee (i legami hanno piccole variazioni di lunghezza); la polarizzabilità aumenta con le dimensioni degli atomi, perciò le forze di London sono più forti negli atomi più pesanti. Poiché le forze deboli possano avere effetto è necessario che i grani si urtino a velocità basse, poiché altrimenti essi, dopo l’urto si separano. Tuttavia abbiamo esempi reali di aggregazioni di grani. Le cosiddette particelle di Brownlee sono aggregati di struttura quasi-frattale di grani raccolti attorno alla terra dove sono stati rilasciati da comete.

Se si assume che i grani, ogni volta che collidono aderiscano, i tempi di accrescimento sono relativamente rapidi. Per calcolare tali tempi di accrescimento si può supporre che il disco abbia una massa trascurabile rispetto a quella del corpo centrale. In tal caso il moto lungo l’asse z, risulterà:

Ove è la viscosità dinamica, ed rispettivamente la massa ed il raggio dei grani, la velocità di rotazione kepleriana. Il primo termine a destra della rappresenta la forza viscosa, mentre il secondo la componente verticale della gravità. La contiene implicitamente due tempi scala: il tempo di frenamento viscoso delle particelle, che risulta: ed il tempo Kepleriano che risulta : . Quando allora nella si può trascurare l’accelerazione e ed il tempo di sedimentazione risultano rispettivamente:

e

I tempi di sedimentazione sul piano centrale per una nebulosa “tipica” risultano di circa 3000 anni nella zona della terra, per grani di 0,03 cm (Coradini et al. 1987). I grani più grandi sedimentano più velocemente, raccogliendo le particelle più piccole. Le simulazioni numeriche mostrano che le particelle possono accrescersi di diversi ordini di grandezza prima di raggiungere il piano centrale. Così esiste una via alternativa alle instabilità gravitazionali per formare corpi di dimensioni intermedie. Probabilmente sia l’accrescimento che l’instabilità hanno contribuito a formare corpi più grandi e complessi in misura diversa nelle diverse fasi della storia della nebulosa solare primordiale.

Le recenti osservazioni di dischi hanno avvalorato le precedenti teorie, mostrando che i dischi di accrescimento attorno a stelle giovani sono molto comuni e che la polvere è quasi sempre presente. Il telescopio spaziale Hubble ha ripreso una serie di dischi circumstellari che avvolgono stelle e sistemi binari appena formati. I dischi, costituiti da gas e polveri, rappresentano i primi stadi di formazione di sistemi planetari. Pur non potendo distinguere i pianeti, l’Hubble ci fornisce alcune nitide immagini di regioni nelle quali i pianeti potrebbero essere in fase di formazione. È come se osservassimo il nostro Sistema Solare di 4, 5 miliardi di anni fa, quando il disco di gas e polveri che avvolgeva il giovane Sole si stava condensando e si stavano producendo i primi embrioni di pianeti. Così trova una conferma osservativa la teoria più diffusamente accettata riguardo alla formazione dei pianeti terrestri, che si dice “Teoria della accumulazione”. La sua formulazione moderna si deve allo scienziato V. Safronov (1969), che fu il primo a rendere quantitative l’ipotesi che il sistema solare potesse essersi originato da un disco di gas e polvere ruotante attorno al corpo centrale. La novità dell’approccio di Safronov rispetto agli scienziati suoi contemporanei, fu nel modo in cui si trattava la componente solida, che dapprima era presente nella nebulosa sotto forma di povere, e che successivamente, attraverso diversi processi si separava dal gas a formare corpi di dimensioni più grandi, dai quali successivamente , si sarebbero formati i pianeti.

Un importante concetto suggerito da Safronov, e ripreso da molti altri autori, negli anni successivi, è quello che sono i cosiddetti “planetesimi” responsabili della evoluzione successiva. I planetesimi, collidendo tra loro, formerebbero poi corpi intermedi, detti embrioni planetari, i quali, a loro volta, si accrescerebbero a spese della popolazione di planetesimi rimasti.

Le fasi successive

Le fasi successive del processo di formazione debbono spiegare come da un insieme di corpi di dimensioni intermedie (i planetesimi), la cui composizione presumibilmente rispecchiava quella dei meteoriti primitivi (cioè le condriti carboniose), si passa a corpi di grandi dimensioni fortemente differenziati, come i pianeti terrestri. Il meccanismo di formazione della Terra e dei pianeti di tipo terrestre, insieme con il problema della loro primitiva evoluzione termica, è stato molto studiato a partire dagli anni ’70 in seguito all'impulso dato in questo campo dall’analisi e dall'interpretazione dei dati forniti dalle varie missioni spaziali planetarie e, almeno per quel che riguarda il processo di formazione, tra i vari specialisti è stato raggiunto un certo accordo. Lo scenario di riferimento è attualmente quello analizzato ed analiticamente sviluppato da V.S. Safronov (1969) su iniziale suggerimento di O. Y. Schmidt, che prevede a partire dai planetesimi un’accumulazione gerarchica con il contributo sostanziale di corpi di dimensioni non trascurabili (raggio > 100 m). Sulla base dei risultati finora raggiunti il processo di accumulazione di un pianeta di tipo terrestre può essere suddiviso grossolanamente in due stadi:

crescita gerarchica dei planetesimi;

crescita finale attraverso impatti non completamente distruttivi.

Crescita gerarchica dei planetesimi

L’approccio più semplice alla evoluzione dei planetesimi è quello considerato da Safronov, che suppose di considerare uno sciame di planetesimi interagenti come un gas sul quale la gravità del sole non influisce: questo approccio è detto “particles in the box”. Consideriamo una particella di test di massa mpl che si avvicina ad un’altra con velocità relativa v e parametro di impatto b. Al pericentro la velocità risulterà ; poiché la velocità radiale è zero al pericentro, risulta che, al percento il momento angolare è

Allora, la sezione d’urto risulta:

ove ; questo è il cosiddetto parametro di Safronov. Quando θ è >> 1 l’accumulazione procede rapidamente perché la focalizzazione gravitazionale è notevole.

Le collisioni tra oggetti solidi possono portare alla accumulazione, alla frammentazione, oppure ad un rimbalzo di tipo elastico, che lascia i corpi praticamente intatti. Ovviamente si possono presentare anche casi intermedi, in cui tutti i processi citati hanno luogo.

Figura Schematizzazione alla Safronov (1969) del processo di collisione

Il risultato dipende esclusivamente dalle caratteristiche dei corpi interagenti e dalla energia di collisione. La velocità di impatto. Il modo più semplice di calcolare la frequenza collisionale è quello di assumere che le collisioni avvengano ogni volta che due particelle si trovano a distanze inferiori alla somma dei raggi delle due particelle stesse. Supponiamo di avere due planetesimi di raggio, rispettivamente, e massa . La velocità di impatto è

ove è la velocità del secondo corpo rispetto al primo e è la velocità di fuga al punto di contatto:

La velocità di impatto, in genere, sarà confrontabile con la velocità di fuga, o maggiore: per un oggetto roccioso di 10 km essa risulta 6 m/s. La velocità alla quale il corpo impattante rimbalza è invece ove il coefficiente di restituzione è minore od uguale ad 1. Se , allora il corpo rimane gravitazionalmente legato e, successivamente, può ulteriormente accrescersi. Affinché si abbia la distruzione dell’oggetto occorre che l’energia dell’impatto sia superiore alla coesione interna del corpo e che tutti i frammenti abbiano una velocità superire a quella di fuga.

Safronov (1969) ha dimostrato analiticamente che uno sciame di oggetti planetari che ruotano attorno al sole (quindi anche se non si comportano più come “ particles in the box”) raggiungono una velocità relativa di equilibrio data dalla seguente espressione, in cui ricompare il famoso parametro θ.

Qui M ed R sono la massa ed il raggio dell’oggetto più grande dello sciame, il cosiddetto embrione planetario.

dipende dall’equilibrio tra impatti e close-encounters che avvengono nello sciame, oltre che dalle caratteristiche degli urti e da come, nell’urto, si ridistribuisce la massa ed il momento angolare. Purtroppo tali quantità sono difficili da misurare in assenza di una teoria dell’impatto e di esperimenti che coinvolgano energie realistiche.

In ogni caso avremo:

Il rate di collisioni nello sciame può essere facilmente calcolato assumendo che due particelle collidano se si trovano a distanze inferiori a quelle della somma dei loro raggi. In tal caso, il tasso di accrescimento risulta:

ove è la velocità relativa tra il corpo grande e quello piccolo. i (), e è la densità di particelle dello sciame. Come già detto in questa fase si trascura l’influenza di tutti gli altri corpi nel corso del processo da impatto, che viene descritto come un processo binario.

La teoria analitica (Safronov, 1969) e quella numerica di (Wetherill, 1980) sono in accordo riguardo al fatto che, nella zona dei pianeti terrestri, il numero di Safronov varia nell’intervallo 1-5. Non appena un corpo più grande si genera nello sciame, esso cresce più rapidamente di tutti gli altri oggetti, aumentando la sua zona di influenza. Questa zona di influenza viene denominata

“feeding zone”; essa si allarga sempre di più mano a mano che il corpo cresce. Se si tiene conto di questo incremento della “feeding zone” nel corso del processo di crescita dell’embrione planetario, e si trascura in prima approssimazione il fatto che lo sciame debba impoverirsi di oggetti, cioè si suppone che la densità di massa superficiale del materiale solido nello sciame rimanga costante nella feeding zone, il tasso di crescita dell’embrione risulta:

(Vityazev et al. 1978), ove e

Ui è la densità dell’embrione. Nel modello analitico il tempo scala di crescita dell’embrione fino a raggiungere il 97% della massa dei pianeti è :

Assumendo che, nella zona della terra per r= 1 A.U.,, , risulta che

Ma se gli stessi calcoli, con le stesse assunzioni, vengono eseguiti numericamente, si arriva a conclusioni molto simili Wetherill (1980).

Dagli “embrioni” ai pianeti

I primi calcoli analitici e numerici erano fatti assumendo che la distribuzione di massa e di velocità dei planetesimi fossero indipendenti e trattavano il problema della collisione in modo approssimato, assumendo inoltre che la sezione d’urto fosse sempre proporzionale alla massa dei planetesimi. Negli anni ’70 le nuove possibilità offerte dai calcolatori permisero di superare le approssimazioni introdotte nei modelli da Safronov e Wetherill e di tener conto del processo di distruzione dei planetesimi nell’impatto. La rimozione di tali limitazioni portò ad una serie di risultati inaspettati, cioè al risultato paradossale che la crescita degli embrioni era rapidissima, ma gli embrioni raccoglievano rapidamente tutta la massa che era loro accessibile all’intero della loro zona di accrescimento e restavano però di massa assai inferiore a quella dei pianeti terrestri attuali. I planetesimi più grandi presenti nel disco raccoglievano rapidamente tutta la massa, poiché si accrescevano assai più in fretta dei corpi più piccoli (Wetherill and Stewart 1989). Tutto ciò avveniva in tempi dell’ordine dei anni, nel sistema solare interno. Vari autori si cimentarono negli stessi anni con questo problema, raggiungendo sostanzialmente le stesse conclusioni (e.g., Wetherill and Stewart 1993, Weidenschilling et al. 1997, Kokubo and Ida 1998, 2000).

Esaminiamo come il problema può essere schematizzato: quando le velocità relative tra planetesimi sono maggiori od uguali alla velocità di fuga, (), l’accrescimento è grossolanamente proporzionale ad , e la crescita è ordinata. Quando le velocità relative sono piccole, (), l’accrescimento è invece proporzionale ad , e l’embrione cresce più in fretta degli altri planetesimi, dando luogo ad un processo a catena che si ferma quando l’embrione non è più in grado di perturbare gravitazionalmente i corpi a lui più vicini, che a loro volta, hanno ripulito la loro zona di accrescimento. Questa fase è detta di crescita oligarchica. Gli sforzi dei teorici, in questi ani sono stati rivolti a descrivere le fasi finali dell’accumulazione in modo più realistico, al fine di verificare che cosa producesse la rimozione di una oligarchia troppo presto nella storia del sistema planetario, quando cioè i corpi sono ancora troppo piccoli. In ogni caso si è ben capito che la crescita rapida ha luogo quando le velocità “random” dei planetesimi sono basse e le loro escursioni radiali limitate. Si può stimare quale sia la dimensione dell’anello dal quale i planetesimi si accrescono, usualmente denominato “feeling zone”. Si può verificare che il raggio delle feeling zone è circa 4 volte il raggio di Hill, cioè la zona in cui la gravità dell’oggetto supera quella del sole. Con questa assunzione si ottiene:

La massa di questo anello risulta:

Ponendo , la massa di “isolamento” dell’embrione risulta: (dePater and Lissauer, 2001),

Per una nebulosa solare primordiale di piccola massa, come quella che abbiamo descritto nei capitoli precedenti, la massa massima raggiungibile è di circa 6 masse lunari. Nella regione dei pianeti terrestri si generano poche decine di protopianeti con dimensioni che vanno da quelle della Luna (raggio circa 1700 km) a quelle di Marte (raggio circa 3400 km).

Nella seconda fase, ovvero quando la crescita del protopianeta è bloccata dall'impoverimento della zona di alimentazione, i corpi grandi cominciano a collidere tra loro dando luogo a vari pianeti di dimensioni simili alla Terra. Le dimensioni di Marte sono proprio quelle che un protopianeta potrebbe avere prima di un grande impatto, e quindi Marte potrebbe essere un oggetto formatosi al termine della crescita runaway e sopravvissuto alla fase successiva.

Le fasi successive dell’accrescimento sono dominate da processi stocastici: gli embrioni possono collidere dando luogo a giganteschi eventi da impatto, simili a quelli che hanno dato luogo ai grandi mari lunari od al grande bacino di Caloris su Mercurio.

Queste fasi finali dell’accrescimento sono però assai più lente delle precedenti. In questo caso lo spostamento di un embrione planetario dalla sua orbita richiede che le perturbazioni gravitazionali siano in grado di agire. Quando un embrione viene perturbato, allora la sua orbita incrocia quella di un altro, e su tempi scala lunghi rispetto al reciproco periodo orbitale, l’impatto può aver luogo.

Questo processo richiede circa anni, che è un tempo lungo per la formazione dei pianeti gassosi come Giove e Saturno. D’altra parte noi sappiamo che le fasi finali della accumulazione debbono aver avuto luogo quando Giove era già formato, o almeno, nelle fasi finali del suo processo di formazione poiché la sua presenza ha fortemente perturbato la regione della fascia asteroidale dove l’accumulazione è fallita. Le fasi finali della accumulazione sono state studiate con modelli N-body bidimensionali (Lecar .and Aarseth (1986), and Beaugè and Aarseth (1990). In aggiunta Cox and Lewis (1980) fecero una lunga simulazione 2D del processo di accrescimento che trascurava le perturbazioni a lungo raggio degli embrioni.

Le simulazioni più recenti si basano sullo schema Opik–Arnold, in cui si tiene conto dei close-encounters, che aumentano le velocità relative degli oggetti, consentono loro di “vedersi” gravitazionalmente (Wetherill 1992, 1994, 1996). Le simulazioni citate però non tenevano conto delle perturbazioni che si generano tra pianeti per effetto delle perturbazioni secolari e delle risonanze, che possono, forse, accelerare il processo. Anche queste simulazioni sono bidimensionali. Ciò costituisce una limitazione molto grande, poiché il processo di collisione in 2-D è favorito. Ciò accorcia artificialmente i tempi di formazione dei pianeti e può portare a risultati poco attendibili.

Figura 12. Le distanze tra pianeti terrestri espresse in termini del lobo di Hill: come si vede I pianeti terrestri sono ben separati tra loro, e ciò garantisce la loro stabilità

Tuttavia però si cominciavano a raggiungere risultati soddisfacenti. Si cominciavano ad ottenere sistemi contenenti un numero limitato di pianeti terrestri tra general 0 e AU dal sole su orbite quasi circolari e complanari (e.g.,Wetherill 1992, 1996, Chambers and Wetherill 1998, Agnor et al. 1999).

Tuttavia questi sistemi differivano dai pianeti terrestri in molti modi:

  • I pianeti ottenuti avevano inclinazioni ed eccentricità molto maggiori di quelli reali della Terra e di Venere.
  • Marte e Mercurio erano quasi sempre più grandi di quelli attuali.

Con il potenziamento dei calcolatori si sono sviluppati nuovi algoritmi N-body in 3D. Si sono inoltre considerate parecchie decine di oggetti gravitazionalmente interagenti per un numero grande di orbite (Chambers and Wetherill ,1998 Chambers and Wetherill ,1998 and Chambers ,2001). In particolare le simulazioni di Chambers (2001) in cui si consideravano 150 embrioni, portano alla formazione di un sistema di corpi fortemente separati in posizione, come sono ora i pianeti terrestri (figura 13).

Alcune delle simulazioni di Chambers partivano là dove le simulazioni di Kokubo e Ida (1998) si erano fermate, cioè da una distribuzione di massa bimodale, in cui metà della massa era contenuta in pochi corpi grandi e l’altra metà in planetesimi. Il risultato di queste simulazioni è molto simile a quello che si ottiene partendo da una distribuzione uniforme. Ciò è rassicurante, poiché vuol dire che il sistema evolve verso una soluzione che dipende più dai processi fisici considerati che dalle condizioni iniziali. Una delle assunzioni del modello era che il disco di planetesimi aveva limite interno 0.3 AU, per consentire la formazione di Mercurio. L’integrazione tiene conto delle informazioni sullo spin dei corpi interagenti, e di come questo si evolve per effetto di collisioni oblique. Ciò è importante se si vuole spiegare perché i pianeti terrestri ruotano, con le caratteristiche attuali. I pianeti simulati ruotano più lentamente di quelli attuali poiché, forse, non è ben tenuto in conto il processo da impatto. I risultati di Chambers (2001) sono però i più realistici tra quelli finora ottenuti. In figura 13 sono riportati I risultati di 16 simulazioni:

Figura 13 Risultati delle simulazioni di Chambers (2001)

Ciascuna riga rappresenta il risultato di una simulazione. Le righe orizzontali rappresentano le distanze del perielio e dell’afelio, mentre le frecce rappresentano l’orientazione dell’asse di spin, rispetto al piano dell’orbita. Si vede chiaramente che 3 o 4 pianeti terrestri sono facilmente ottenibili, ed anche che i pianeti sono separati in raggi di Hill, come è necessario.

La presenza nella distribuzione di massa di oggetti di grandi dimensioni serve anche per spiegare l’inclinazione dell’asse di rotazione. Infatti è stato mostrato che l’impatto tra il pianeta ed un proiettile con massa minore od uguale a 1/100 della massa del pianeta può generare una notevole inclinazione. Le obliquità ε ottenute sembrano avere una distribuzione random nel cos ε.

Le simulazioni di Chambers mostrano anche che gli oggetti più massicci sono formati nella regione tra 0.6 < r < 1.2 AU e che gli oggetti al di fuori di questa regione, come Mercurio e Marte, tendono ad essere più piccoli. I corpi che si formano nella zona di Mercurio subiscono una sostanziale migrazione. La cosa da notare è che in questa zona, esiste una molteplicità di possibili risultati, che potrebbe far prevedere che la presente apparenza e costituzione di Mercurio sia il frutto di un processo non facilmente riproducibile. Un altro aspetto interessante è che i pianeti finali tendono ad avere orbite meno inclinate ed eccentriche quando si aumenta il numero dei planetisimi da cui si parte. Ciò significa che, aumentando il numero dei corpi di partenza si potranno ottenere risultati più realistici.

Il supporre che i pianeti si formano lì ove ora sono, raccogliendo materiale da una regione ben definita (feeding zone) serve, imponendo la conservazione del momento angolare, a spiegare la cosiddetta legge di Titius-Bode. Attraverso un meccanismo di questo tipo, il pianeta che nasce è un oggetto omogeneo che deve differenziarsi, e questo richiede almeno fusione al suo interno.

L’ evoluzione termica

Le simulazioni precedentemente descritte ci indicano che la storia dei pianeti terrestri prevede sostanzialmente due fasi: una prima fase in cui si accrescono gradualmente gli embrioni, ed una seconda fase, assai più intensa, in cui violenti processi da impatto hanno modificato le superfici planetarie Kokubo and Ida, 1998]. La storia termica dei pianeti terrestri deriva – nelle sue fasi iniziali- da tale processo. Naturalmente questo scenario è in accordo con la formazione della Luna mediante un grande impatto.

Fino all’inizio degli anni ’70 l’evoluzione termica iniziale veniva modellata assumendo semplicemente il bilancio energetico in un sottile strato superficiale del pianeta che si stava formando. Questo strato, infatti, si pensava fosse riscaldato dall’energia ceduta nell’impatto dai planetesimi e raffreddato dall’energia emessa per irraggiamento nel vuoto circostante. Se i proiettili sono di piccole dimensioni, questo schema è valido. Successivamente Safronov (1969) e Kaula (1979) misero in evidenza che nell’impatto di un corpo grande con una superficie, una certa quantità di calore viene sepolta in profondità e che quindi il calore non viene perso istantaneamente.

Impatti ad alta velocità generano onde compressionali che si propagano nel pianeta scaldandolo anche se, la quantità di calore ceduto nell’impatto diminuisce drasticamente quando ci si allontani dal luogo dove l’impatto è avvenuto. (Melosh, 1990; Tonks and Melosh, 1992, 1993). Per un impatto verticale, in cui l’oggetto impattante ha raggio , si può calcolare quale sia l’incremento di temperatura in una corona circolare di raggio , (Reese et al. 2002). L’onda di shock comprime il materiale. Quando l’onda di shock è passata, il materiale si decomprime, ritornando alla pressione ambiente. L’incremento di temperatura in un materiale può essere calcolato se si suppone che tale processo sia adiabatico. In tal caso si può applicare la cosiddetta approssimazione di Hugoniot. Seguendo Melosh (1989) si può mostrare che l’incremento di temperature risulta:

ove e C ed S sono parametri che caratterizzano il materiale. Le velocità del materiale al di qua ned al di là del fronte d’onda si possono esprimere come segue:

La vecità nel punto di impatto risulta invece:

ove e sono rispettivamente la velocità dell’impatto e l’angolo di impatto.[Melosh, 1989].

Nel punto dell’impatto e nelle sue vicinanze si assume che la pressione rimanga costante: si dice che si forma un “core isobarico”, il cui raggio è:

ove e sono rispettivamente le densità del proiettile e del bersaglio. Se si suppone che l’impatto sia normale e che impattore ed impattato abbiano la stessa composizione, e ci si ferma al primo ordine in , (Reese et al. 2002) si ottiene come varia l’incremento di temperatura con la distanza., i.e.

Le temperature vicine al punto di impatto sono molto superiori a quelle di fusione dei materiali coinvolti. Talvolta si raggiungono anche temperature vicine a quelle di vaporizzazione dei vari materiali. Ad esempio, un impattore di raggio 250 km riscalda di circa 300 K una regione attorno al punto di impatto.

Durante l’accrescimento planetario i planetesimi impattano il corpo in accrescimento e depositano in profondità il loro calore. Infatti altri impatti aggiungono altro materiale, prima che il calore precedentemente accumulato possa dissiparsi. La frazione, , della energia cinetica che viene dissipata in calore dipende dalle caratteristiche dei materiali del proiettile e del bersaglio, dalle velocità relative, e dal processo di compressione e rarefazione che si genera nel mezzo. Coradini et al (1983) hanno mostrato che per oggetti impattanti nel range 2 km/s – 20 km/s e per proiettile e bersaglio della stessa composizione, (rocce basaltiche e granitiche, ad esempio), varia tra 0.12 and 0.43. Usando questi risultati è possibile determinare quantitativamente quale sia il profilo termico di un pianeta che si sta accrescendo, risolvendo l’equazione del calore, come suggerito da (Safronov, 1969). I risultati mostrano che i pianeti possono cominciare a fondere già quando l’embrione raggiunge 0.1 , cioè circa una massa di Marte. Ovviamente la temperatura raggiunta e lo stadio a cui la temperatura di fusione viene raggiunta dipende dalla distribuzione di massa e velocità dei planetesimi. Il risultato più importante di questo lavoro è che, anche se si considera una distribuzione di massa degli oggetti impattanti sfavorevole per la crescita della temperatura del pianeta, sia la terra che Marte devono aver avuto una storia iniziale “calda” ed uno strato superficiale fuso. Tale fusione è indispensabile per generare il processo di differenziazione che ora notiamo nei pianeti terrestri Solomon and Chaiken, 1976). La differenziazione avviene attraverso fasi successive, dapprima si differenziano gli strati superficiali fusi: tale differenziazione gravitativa genera un altro input di energia al sistema.

Le energie in gioco sono molto elevate e, pertanto, si può ottenere la fusione di parte del materiale coinvolto nel processo da impatto. Da una parte questa zona fusa può essere più o meno profonda all’interno del corpo che si sta accumulando e dall’altra un impatto di un corpo grande può generare in superficie un oceano di magma, sul fondo del quale può iniziare il processo di differenziazione con la separazione della componente metallica (Tonks e Melosh, 1992). Un problema che è stato recentemente messo in luce è che Marte, che un tempo si credeva che si fosse differenziato tardi nel corso della sua storia evolutiva, Solomon and Chaiken, 1976) e, forse anche la Terra, debbono essersi invece differenziati presto nel corso della lora storia, addirittura nei primi 30 Milioni di anni dopo la loro formazione (Lee and Halliday, 1997). Il primo passo della differenziazione abbiamo visto che avviene grazie al calore di accrescimento. Successivamente si debbono utilizzare gli elementi radiattivi di lunga vita. Infatti il decadimento radiativo produce calore, che viene ceduto al materiale che costituisce il pianeta, che pian piano si riscalda. Tale decadimento è anche responsabile del flusso geotermico misurato nei primi chilometri di crosta terrestre, a noi acccessibili. Putroppo tale dato estremamente importante per conoscere quale sia lo stato di un interno planetario è noto solo per la Terra e per la Luna. Nel caso della terra, tale flusso non può essere attribuito al processo di formazione della terra. Infatti, le rocce solide presenti in buona parte del volume terrestre conducono il calore molto lentamente. Il calore, quindi, non può trasmettersi in tempi brevi dagli strati centrali della Terra verso l’esterno. Secondo i calcoli, per esempio, il calore proveniente da 400 km di profondità impiegherebbe più di 5 miliardi di anni (un’età pari a quella presunta della Terra) per giungere in superficie. Per questo la causa del flusso termico andrebbe ricercata in fenomeni che accadono negli strati più esterni.

A questo punto entrano in giuoco le scoperte riguardanti la radioattività naturale: oggi si ritiene, infatti, che la fonte principale del calore emesso sia l’energia prodotta dal decadimento degli isotopi radioattivi presenti nella crosta. Esaminando campioni di rocce provenienti dalla crosta continentale, si può constatare che tra gli elementi presenti si trova sempre una piccola frazione di isotopi radioattivi, come l’ 238U, il 232Th, il 40K. I nuclei di questi particolari isotopi emettono particelle, perdono massa, irradiano energia e si trasformano in nuovi isotopi più stabili.

Uranio, potassio e torio si trovano facilmente nei minerali delle rocce sialiche, in particolare nel granito, mentre scarseggiano nei minerali che caratterizzano le rocce femiche. Gli isotopi radioattivi, quindi, si concentrano soprattutto nel granito, che è la roccia più abbondante nella crosta continentale. La crosta oceanica, invece, costituita da rocce basiche, produce per radioattività naturale una quantità di calore molto minore. Secondo stime attendibili il flusso di calore dei continenti corrisponde effettivamente alla quantità prevista tenendo conto del decadimento radioattivo dei graniti continentali. E’ molto probabile, quindi, che il flusso di calore osservato nei continenti derivi principalmente dalla radioattività delle rocce granitiche presenti. Nei fondali oceanici, invece, il flusso di calore dovrebbe essere ridotto, poiché i basalti o le peridotiti producono calore in quantità nettamente inferiore (vedi tabella 4). Tuttavia le misure del flusso di calore relative ai fondi oceanici sono molto simili a quelle registrate sui continenti. Per questa ragione si pensa che il flusso di calore dei fondali derivi non solo dai processi radioattivi che avvengono nella crosta, ma anche da altri fenomeni collegati con l’attività interna del nostro pianeta. La fonte del calore potrebbe essere il mantello, che sotto i fondali si avvicina a pochi chilometri dalla superficie. Si ritiene, infatti, che esistano nel mantello, sotto i fondali oceanici, moti convettivi che portano verso la superficie, in corrispondenza delle dorsali, il calore proveniente dagli strati più profondi della Terra.

Tuttavia gli elementi radioattivi di lunga vita decadono ma con tempi scala troppo lunghi per spiegare la differenziazione del nucleo. Per la Terra, che è il nostro esempio di riferimento, è possibile supporre che il core si sia formato per effetto del decadimento dell’ Afnio in Tungsteno . Essi hanno un tempo di vita media di circa 9 Milioni di anni. Afnio è un elemento liofilo che tende a concentrarsi nella crosta e nel mantello. Il tungsteno è invece un elemento siderofilo, e quindi dovrebbe concentrarsi nel nucleo. Quindi nella crosta e nel mantello il rapporto Hf/W dovrebbe esser alto, e basso nel core. Se il core si è formato presto, prima che fosse decaduto, il tungsteno presente nel mantello dovrebbe essere ricco di formato dal decadimento dell’ Afnio. Se il core si è formato dopo, dopo che Afnio è decaduto, allora il dovrebbero essere lo stesso che si trova nelle condriti carboniose Il tungsteno misurato nel mantello terrestre è circa condritico, quindi il nucleo terrestre dovrebbe essersi differenziato non prima di 60 Milioni di anni fa. L’eccesso di presente nelle meteoriti marziane suggerisce che invece, il nucleo di Marte si differenziò prima (Lee and Halliday,1997). Secondo Stevenson, questo significa che Marte e Mercurio potrebbero essere dei sopravvissuti dal primo stadio del processo di accumulazione, mentre la Terra e Venere avrebbero subito un ulteriore accrescimento culminato con il megaimpatto che ha dato origine alla Luna.

Secondo Tonks and Melosh (1992), il gigantesco impatto ha scaldato la Terra ad una temperatura superiore a quella del subsolido i silicati. Per questo motivo i metalli, presenti nei silicati, hanno cominciato a separarsi dai silicati. Ciò ha permesso la formazione di larghi blocchi di ferro fuso, che hanno cominciato a sedimentare, rilasciando calore gravitazionale. Ciò ha innescato la formazione catastrofica del core. Secondo Senshu et al. (2002) il caso di Marte sarebbe profondamente diverso. In assenza di un megaimpatto il core di Marte non si sarebbe potuto formare durante l’accrescimento, benché si siano formati “blocchi” di metallo differenziato nel mantello. Mercurio, invece si sarebbe differenziato presto, durante il periodo del bombardamento intenso (Schubert et al.1988). E’ difficile che il core di Mercurio sia ancora fluido: secondo Stevenson et al (1983) dovrebbe essere sicuramente allo stato solido, almeno al momento attuale.

Non tutto è chiaro però riguardo ai meccanismi di separazione delle “gocce” metalliche dal silicato. Un analisi fluido-meccanica del problema della formazione del nucleo (Stevenson, 1990) mostra che le gocce metalliche stabili dovrebbero avere dimensioni di circa 1-900 m che per queste gocce è possibile che si abbia sia equilibrio chimico che termico durante la fase di separazione dal magma silicatico circostante. La componente metallica si può separare da quella silicatica ed affondare anche attraverso un processo diverso, ovvero attraverso accumulo di materiale metallico sulle

Rocce

Quantità di calore

( J * g-1 * anno-1 )

Elementi radioattivi

(parti per milione)

U

Th

K

Graniti (crosta continentale)

Basalti (crosta oceanica)

Peridotiti (mantello superiore)

Tabella 4 Energia associata con il decadimento degli elementi radiattivi di lunga vita.

discontinuità reologiche presenti in quel momento all’interno del pianeta che si sta accrescendo, e successivo rapido sviluppo di un’instabilità gravitazionale di Rayleigh-Taylor. In questo secondo caso i corpi metallici coinvolti sono di dimensioni molto maggiori, il processo di separazione dovrebbe essere estremamente rapido (poche ore) ed avvenire in condizioni di disequilibrio chimico.

Quale di questi due modi prevalga (equilibrio-disequilibrio) influenza la chimica del nucleo terrestre, e sulla quale non vi è ancora un accordo, poiché i valori dei parametri in gioco non sono ben conosciuti (coefficienti di diffusione chimica nei silicati fusi, viscosità, diffusività termica alle giuste temperature e pressioni). Secondo alcuni autori (Shun-ichiro Karato e V.Rama Murthy, 1997 a, b), per una scelta plausibile dei parametri la maggior parte del ferro presente nel nucleo potrebbe potrebbe essersi separato sotto forma di corpi grandi, e l’equilibrio chimico con i silicati si potrebbe avere solo a pressioni e temperature relativamente basse sul fondo dell’oceano di magma o nei planetesimi differenziati che potrebbero aver contribuito all’accumulazione del pianeta: in questo caso entra in gioco il tasso di accrescimento ed il tempo scala relativo su cui gravano ancora varie incertezze. Secondo Stevenson (1990, 1992) l’equilibrio chimico si potrebbe avere a profondità comprese tra 400 e 1000 km, con pressioni comprese tra 15 e 35 Gpa e temperature di 2200 K – 3000 K. Queste condizioni termodinamiche potrebbero essere quelle di un buon equilibrio chimico determinando le abbondanze di elementi leggeri nel nucleo e di elementi moderatamente siderofili nel mantello.

Misure chiave

Solo l’esplorazione sistematica dei pianeti terrestri consentirà di risolvere i problemi precedentemente illustrati. In particolare sarà necessario conoscere la struttura interna dei pianeti mediante misure di campo magnetico e gravitazionale. Sarà inoltre necessario studiare la struttura interna in modo dettagliato al fine di comprendere se esistano strati di diversa composizione chimica e struttura termodinamica.

Polvere nel mezzo interplanetario

La complessa storia di formazione ed evoluzione dei corpi solidi del sistema solare genera una gran quantità di materiale solido incoerente, che ritroviamo ancora nel sistema solare attuale. Tale materiale è denominato “polvere interplanetaria”.

Il complesso di polvere interplanetaria è continuamente rifornito da diverse fonti. La sorgente principale è costituita dalle comete: la sublimazione dei ghiacci presenti (dovuta all’aumento della temperatura del nucleo durante l’avvicinamento al Sole) determina il rilascio di grani di polvere. Tra quelle emesse, le particelle più grosse seguono orbite eliocentriche simili a quella del corpo progenitore, dando origine ai cosiddetti sciami meteorici. Questi ultimi sono probabilmente prodotti da tutte le comete attive, ma il campionamento diretto dalla Terra si può ottenere solo nel caso di passaggio della Terra attraverso uno sciame. Per lo studio dei grani cometari rilasciati durante i ripetuti passaggi al perielio della cometa 1P/Halley, sono stati fondamentali i risultati ottenuti dagli strumenti DIDSY e PIA sulla sonda europea Giotto. Recenti risultati ottenuti grazie alle osservazioni dei satelliti IRAS e ISO hanno mostrato come grani ancora più grandi (masse > 1 g) espulsi dalle comete più attive si distribuiscono lungo l’orbita della cometa stessa, seguendola e precedendola in una scia che viene chiamata “trail”, osservabile solo nell'infrarosso. Un’altra importante sorgente di polvere interplanetaria è la fascia degli asteroidi. Fenomeni di impatto e collisioni catastrofiche all’interno della fascia generano frammenti caratterizzati da una distribuzione dimensionale molto ampia. Il satellite IRAS ha evidenziato l’esistenza delle “bande di polvere asteroidale”, ossia un aumento della densità spaziale di polvere associata alla fascia degli asteroidi. La composizione e la struttura delle particelle di polvere originate dagli asteroidi devono riflettere quelle dei corpi progenitori, quindi ci si aspetta che la maggior parte della polvere sia composta da materiale silicatico o ricco di metalli.

Un’ulteriore fonte di polvere interplanetaria, anche per le regioni più interne del Sistema Solare, si può individuare nella “Kuiper Belt” (KB - vedi oltre). In questa regione i processi di impatto non distruttivi su corpi di dimensioni superiori ai 100 km sono all’origine dell’emissione di grandi quantità di polvere.

I vari processi di trasporto della polvere dalla KB (> 30 AU), dalla fascia degli asteroidi (2-3 AU) e dalle comete (< 1-3 AU) verso le regioni più interne del Sistema Solare creano una nube di polvere interplanetaria molto disomogenea, concentrata soprattutto lungo il piano dell’eclittica: la nube zodiacale, osservabile grazie alla diffusione della luce solare da parte delle particelle di polvere. Combinando i dati ottenuti dalle osservazioni astronomiche con quelli dei rivelatori in situ e dell’analisi di laboratorio di crateri da impatto rilevati sulla superficie delle rocce lunari e sulle superfici delle sonde spaziali, si è potuto stimare il flusso di polvere (mediato nel tempo) alla distanza di 1AU dal Sole (dell'ordine di 10-4 m-2 s-1 per particelle microniche). Nonostante i notevoli progressi nelle conoscenze sulla luce zodiacale, le comete e gli asteroidi, basati anche su esperimenti in situ, non è ancora stato possibile determinare i diversi contributi da parte di asteroidi e comete alla nube zodiacale.

Meno di dieci anni fa, è stata osservata in situ dalla sonda Ulysses una componente di polvere interstellare nello spazio interplanetario. Prima della scoperta di Ulysses la presenza di questi grani nel Sistema Solare era abbastanza controversa. Tuttavia assumendo che grani che si muovono nel mezzo interstellare debbano transitare anche vicino al Sole, considerando la densità del mezzo interstellare locale e stimando che circa l’1% della sua massa sia contenuta in grani di polvere, si può calcolare che il flusso di questi grani all’interno del Sistema Solare sia dell’ordine di 10-3 m-2s-1. Tale flusso risulta essere maggiore del flusso totale di polvere cosmica osservato da Ulysses alla distanza dell’orbita della Terra, e quindi deve essere attivo un meccanismo fisico di “rimozione” dei grani interstellari, almeno dal Sistema Solare più interno.

Misure chiave

Una conoscenza più dettagliata della natura e dell’evoluzione della polvere cosmica si può ottenere attraverso la produzione e l’analisi di materiali “analoghi” e mediante esperimenti di simulazione dei processi chimico-fisici che avvengono nello spazio. L’attività di simulazione richiede:

  • Produzione di polveri di diversa composizione chimica;
  • Analisi delle proprietà morfologiche e strutturali;
  • Analisi della composizione chimica;
  • Analisi spettrofotometrica;
  • Studio dell’evoluzione dei materiali a seguito di processamento (riscaldamento termico, irraggiamento UV, bombardamento ionico o con atomi di idrogeno).

Lo scopo è produrre analoghi di polvere interplanetaria e studiarne l’evoluzione dovuta alle trasformazioni indotte dai processi attivi nel mezzo interplanetario. Partendo dai più attuali modelli di riferimento, dai dati osservativi (es., ISO), dai dati di misure in situ (es., GIOTTO, Ulysses) e dalle analisi di laboratorio su particelle interplanetarie si può prevedere la produzione di analoghi che rappresentino la polvere nelle diverse fasi del ciclo vitale: grani pre-solari, grani cometari e asteroidali, grani processati. I grani pre-solari, che costituiscono la nebulosa primordiale e contribuiscono alla fase di accrescimento di comete e asteroidi, sono essenzialmente composti da carbone amorfo e silicati. I grani cometari e asteroidali sono composti da matrici porose di carbone amorfo e silicati parzialmente ricristallizzati, con possibile presenza di materiali volatili condensati. I grani rilasciati dai corpi progenitori, a causa di passaggi al perielio di comete o eventi collisionali, nel mezzo interplanetario sono sottoposti a trasformazioni dovute a fenomeni di riscaldamento, irraggiamento UV e bombardamento di raggi cosmici. Riproducendo in laboratorio le condizioni a cui sono sottoposti i grani di polvere si possono analizzare le trasformazioni strutturali, morfologiche e di composizione che essi subiscono per monitorarne l'evoluzione. La realizzazione degli esperimenti è possibile utilizzando tecniche di produzione e di analisi che sono state già utilizzate ed hanno dato ottimi risultati contribuendo in misura critica alla conoscenza delle proprietà della polvere cosmica.

Raccolta e misure in situ di polveri interplanetrie

La chiave per risolvere il problema della determinazione dei contributi relativi di comete e asteroidi al rifornimento del complesso di polvere interplanetaria risiede nel campionamento in situ, mediante l'impiego di strumentazione di nuova generazione.

Esperienza nello sviluppo di strumentazione di tale tipo è stata maturata nell'ambito delle missioni dell'ESA Rosetta e giapponese Muses-C, destinate a studiare i due tipi di corpi progenitori delle IDP's: comete e asteroidi, rispettivamente. Inoltre, la missione NASA Stardust prevede la raccolta di campioni di polveri sia in prossimità della cometa Wild 2 che nel mezzo interplanetario quando, per motivi dinamici, solo la polvere interstellare dovrebbe essere accessibile.

In sintesi, gli obiettivi delle future ricerche sono:

Discriminare le componenti di polvere interplanetaria di origine interna ed esterna al Sistema Solare e stabilirne il grado di processamento, ovvero rilevare la presenza di materiale pre-solare inalterato.

Stabilire l’abbondanza relativa delle IDP’s di origine asteroidale e cometaria.

Chiarire le potenzialità biogeniche delle molecole organiche osservate in comete e asteroidi.

In tale senso, le seguenti linee di sviluppo sono state individuate e vengono perseguite dalla comunità scientifica internazionale:

Sviluppo di nuove tecniche per la raccolta e analisi di IDP’s nella atmosfera terrestre;

Sviluppo di strumenti spaziali che diano la possibilità di raccogliere IDP’s in orbita terrestre (ad esempio con bersagli di aerogel), misurando al contempo i parametri orbitali della particella raccolta;

Sviluppo di strumenti spaziali in grado di misurare massa e vettore velocità delle particelle, fornendo ove possibile anche informazioni sulla composizione chimica.

Le comete

Il fenomeno a cui ci si riferisce con il termine di cometa ha un’origine fisico-chimica molto complessa. In una cometa possono essere identificati quattro componenti fondamentali:

  • Il nucleo, un corpo solido, con un diametro dell’ordine dei chilometri, di forma irregolare, costituito da ghiacci (acqua per la maggior parte) e grani di polvere. I nuclei si muovono su orbite ellittiche, rese instabili dall’azione dell’attrazione gravitazionale dei pianeti e delle forze non-gravitazionali causate dall’emissione anisotropa di getti di gas dalla superficie.
  • La chioma, un’atmosfera di gas e polvere che avvolge (e nasconde) il nucleo e si sviluppa quando questo si avvicina al Sole, per poi scomparire quando se ne allontana. La parte gassosa della chioma è formata da molecole sublimate e dai prodotti derivati da queste molecole (radicali, atomi, ioni) in seguito all’interazione con i fotoni solari. La chioma è resa brillante dalle emissioni atomiche e molecolari, causate per lo più da fenomeni di fluorescenza, e dalla luce solare riflessa dalle particelle di polvere.
  • La coda di ioni, formata da ioni che si distaccano dalla chioma e sono accelerati in direzione anti-solare dal campo magnetico interplanetario trasportato dal vento solare.
  • La coda di polvere, formata da grani che si distaccano dalla chioma e si dispongono lungo il percorso orbitale sotto l’azione della pressione di radiazione.

Un nuovo tipo di coda, composta da atomi neutri di sodio, e' stata scoperta di recente nella cometa Hale-Bopp (Cremonese et al., 1997).

Essendosi evolute nelle fredde regioni esterne del Sistema Solare e avendo quindi conservato gli elementi più volatili, le comete sono considerate gli oggetti più primitivi, nel senso di inalterati, del Sistema Solare.

Le comete sono solitamente classificate in base al tipo di orbita: comete di lungo periodo, con periodo orbitale maggiore di 200 anni, e comete di corto periodo, con periodo orbitale inferiore ai 200 anni. Le comete di corto periodo possono essere ulteriormente suddivise in comete della famiglia di Halley (periodo orbitale superiore a 20 anni) e comete della famiglia di Giove (periodo orbitale inferiore ai 20 anni). Le comete di lungo periodo sono anche caratterizzate da orbite fortemente ellittiche con inclinazioni casuali del piano orbitale rispetto al piano dell’eclittica; prendendo in considerazione le perturbazioni planetarie e ricostruendo la storia dinamica di queste comete, si può dimostrare che provengono tutte (attraverso vari passaggi intermedi e incontri ravvicinati con i pianeti esterni) da una regione denominata nube di Oort, un guscio sferico a 50000-100000 UA dal Sole. Perturbazioni indotte da fenomeni come il passaggio di una nube molecolare o di una stella fanno si che ogni tanto qualche cometa si stacchi dalla nube di Oort ed entri nel Sistema Solare interno. Naturalmente le comete di lungo periodo non possono essersi formate nella nube di Oort, perché a quella distanza dal Sole il materiale necessario (ghiacci e polvere) era troppo rarefatto: si sono sicuramente formate molto più vicino al Sole, probabilmente tra Giove e Saturno, dove le temperature esistenti hanno permesso la conservazione degli elementi più volatili. In seguito, le perturbazioni indotte dalla formazione dei grandi pianeti esterni hanno “sbalzato” questi corpi a grande distanza dal Sole.

Quanto alle comete appartenenti alla famiglia di Giove, caratterizzate anche da orbite poco ellittiche e con piccole inclinazioni rispetto al piano dell’eclittica, sempre in base a considerazioni dinamiche si può dimostrare un’origine (e un luogo di formazione) diversi: provengono dalla Cintura di Kuiper, una fascia posta ai confini del Sistema Solare, al di là dell’orbita di Nettuno. L’esistenza della Cintura di Kuiper, teorizzata molti anni fa, è stata dimostrata nel 1992 con la scoperta del primo corpo. Da allora, i corpi appartenenti alla Cintura di Kuiper si contano a centinaia e il numero aumenta di continuo. Queste comete si sono formate in loco, ai confini del sistema solare oltre Nettuno.

Gli Asteroidi

Gli asteroidi sono piccoli corpi rocciosi con un diametro che può arrivare ad alcune centinaia di chilometri, in orbita per lo più tra Marte e Giove (fascia principale) tra 2.2 e 3.4 unità astronomiche; le orbite sono circolari e hanno tipicamente inclinazione quasi nulla rispetto al piano dell’eclittica. Alcuni asteroidi si trovano sull’orbita di Giove, nei punti lagrangiani, e sono chiamati Troiani. Da un punto di vista fisico, sono classificati in base all’albedo e alla composizione superficiale. I gruppi più importanti sono il tipo C (oggetti molto scuri, con albedo bassa, probabilmente superfici carbonacee), il tipo S (superficie silicatica, albedo intorno a 0.2), e il tipo M (albedo 0.1, probabilmente ricchi di metalli). A causa della loro massa, i più grandi hanno subito processi di differenziazione, mentre i più piccoli sono probabilmente corpi molto primitivi.

Una teoria largamente accettata è che gli asteroidi sono oggetti intermedi che non sono stati inglobati in un corpo singolo di dimensioni maggiori, senza dubbio a causa delle perturbazioni gravitazionali causate dal contemporaneo accrescimento di Giove: l’accrescimento degli asteroidi si sarebbe bloccato ad uno stadio intermedio rispetto agli altri pianeti. Dopo l’accrescimento, i corpi di dimensioni maggiori hanno raggiunto temperature interne abbastanza elevate a causa della disintegrazione degli elementi radioattivi a vita breve, come l’Al ; in alcuni si è avuta una differenziazione completa, con la formazione di un nucleo metallico circondato da un mantello silicatico. Questi processi hanno avuto luogo all’inizio dell’esistenza del Sistema Solare, e hanno avuto una durata di milioni di anni. Dopo questo breve periodo iniziale, gli asteroidi hanno subito modifiche solo a causa di impatti (evoluzione collisionale).

Il bombardamento di oggetti più piccoli ha polverizzato lo strato superficiale degli asteroidi, causando la formazione di uno strato di regolite; lo spessore di questo strato potrebbe anche raggiungere le centinaia di metri. In alcuni casi le collisioni hanno portato alla frammentazione completa: molti asteroidi sono quindi frammenti di corpi originariamente più grandi e differenziati: si spiega cosi l’origine degli asteroidi (e delle meteoriti) metalliche, che facevano parte del nucleo di un oggetto differenziato.

Classificazione dei corpi minori

Le conoscenze circa la classificazione degli oggetti minori che popolano il Sistema Solare sono evolute negli ultimi anni grazie al contributo combinato di modelli evolutivi, osservazioni astronomiche e misure dirette mediante missioni spaziali. In un processo dinamico di continua interazione, sono stati sviluppati modelli sempre più complessi che hanno dovuto tenere conto delle evidenze osservative le quali, di volta in volta, hanno modificato radicalmente le condizioni al contorno sulle quali essi si basavano. Oggi siamo giunti ad un quadro di riferimento ben delineato, ma diverse questioni restano aperte circa l'evoluzione dei corpi minori sin dalla loro formazione.

Asteroidi. La maggior parte degli asteroidi ha semiasse orbitale maggiore compreso tra 2.1 e 3.3 UA e costituisce la Fascia Principale (Main Belt, MB). All’interno della MB si distinguono numerosi addensamenti di oggetti, che compongono famiglie accomunate dal punto di vista dinamico (famiglie di Hirayama, come ad esempio Eos, Koronis, Themis), e regioni “vuote”, in corrispondenza dei “gap di Kirkwood”, regioni di risonanza orbitale con Giove ed altamente instabili dinamicamente. Oltre agli asteroidi della MB, esistono le sottoclassi degli asteroidi Troiani, che occupano le regioni gravitazionalmente stabili detti “punti lagrangiani” del sistema Sole-Giove, e degli asteroidi interni (Near Earth Asteroids, NEA), con perielio interno all’afelio di Marte. In questa sottoclasse si distinguono gli asteroidi Amore (dal nome del principale rappresentante), che sfiorano l’orbita terrestre restandone all'esterno, gli asteroidi Apollo, che la intersecano, e gli asteroidi Atena, che hanno orbita interamente all’interno di quella terrestre. Gli asteroidi possono essere classificati in base ai colori, che sono indicativi della loro composizione. La classificazione degli asteroidi in termini di composizione si basa anche sulle analisi della collezione di meteoriti a disposizione sulla Terra, la cui provenienza è attribuita agli asteroidi.

Comete. A seconda che il periodo orbitale sia inferiore o superiore ai 200 anni, le comete si dividono in comete a corto periodo (Short Period Comet, SPC) e comete a lungo periodo (Long Period Comet, LPC). Questa suddivisione è legata non solo a caratteristiche dinamiche ma anche alle aree di provenienza e, quindi, di formazione. Circa il 20% delle comete catalogate appartiene al primo gruppo, mentre le restanti hanno periodi orbitali che variano da 250 a 3 107 anni. Tra le SPC, quelle con periodo compreso tra 20 e 200 anni vengono classificate come appartenenti alla classe della famiglia di Halley. Tutte le comete a breve periodo, ad eccezione di sette in moto retrogrado, si muovono nella stessa direzione orbitale dei pianeti, ovvero moto diretto, con inclinazione del piano dell’orbita minore di 15°.

Centauri. Sono corpi minori che orbitano nella regione compresa tra Giove e Saturno (distanza eliocentrica compresa tra 5 e 30 UA). Studi teorici hanno dimostrato che in questa regione del Sistema Solare non esistono orbite stabili dinamicamente. Esiste quindi un meccanismo di continuo rifornimento di questa famiglia, la cui origine sembra plausibilmente nella fascia di Kuiper (si veda dopo).

KBO. Gli oggetti della fascia di Kuiper (Kuiper Belt Objects, KBO) costituiscono una classe di oggetti con distanza eliocentrica maggiore di 30 UA, situata quindi all'esterno dell’orbita di Nettuno. Grazie alla loro elevata distanza dal Sole, essi sono considerati un’attendibile testimonianza pressoché inalterata delle fasi iniziali del processo di formazione del Sistema Solare.

Risultati derivanti da misure in situ

1P/Halley è la cometa maggiormente studiata ed a cui dobbiamo la maggior parte delle nostre conoscenze attuali su questi corpi del Sistema Solare. In occasione del suo ultimo passaggio al perielio, nel 1986, una flotta di sonde spaziali è stata inviata verso la cometa, allo scopo di eseguire per la prima volta misure in situ: le sovietiche Vega 1 (massimo avvicinamento il 6 Marzo, a 8890 km dal nucleo) e Vega 2 (9 Marzo, a 8030 km), entrambe dal lato rivolto verso il Sole; le due giapponesi Suisei (8 Marzo, a 150000 km) e Sakigake (11 Marzo, a 7 106 km), entrambe dalla parte della coda; l’europea Giotto (14 Marzo, ad una distanza nominale di 596 km), che ha attraversato la parte più densa della chioma. Contemporaneamente, la NASA decise di programmare osservazioni sulla Halley con il Pioneer Venus Orbiter, che orbitava attorno a Venere, e con il Pioneer 7, posto in orbita solare. Di tutte queste missioni, senza dubbio la più rilevante fu l’europea Giotto, al cui successo sia scientifico che tecnico la comunità italiana partecipò in maniera significativa. Giotto ottenne tra l’altro la prima immagine risolta della parte più interna di una cometa: il nucleo, quasi completamente inaccessibile alle osservazioni da terra. I risultati degli esperimenti a bordo della sonda modificarono radicalmente il modello di riferimento di un nucleo cometario sviluppato in precedenza sulla base di osservazioni astronomiche.

L’aspetto del nucleo era completamente diverso da quanto atteso. Le immagini ottenute dalla Halley Multicolor Camera (HMC) svelarono un nucleo dalla forma molto irregolare, lungo circa 16 km e largo al più 8 km (Figura 3). La superficie non è liscia ma presenta strutture simili a colline e crateri, e, soprattutto, si presenta molto scura con una albedo pari a circa il 4% (che la rende uno dei corpi più scuri dell’intero Sistema Solare). Dalle immagini si evidenzia anche la presenza di getti luminosi e molto brillanti (dovuti alla diffusione/riflessione della luce solare da parte delle particelle di polvere espulse in accoppiamento con i gas sublimati dalla superficie) provenienti da porzioni di superficie esposte soprattutto verso il Sole.

Anche le misure sulla polvere espulsa dal nucleo rivelarono risultati inattesi. Le particelle di polvere incontrate dalla sonda appartengono a tre categorie: 1) particelle composte quasi interamente da carbone (C), idrogeno (H), ossigeno (O) e azoto (N), che sono di solito chiamate “particelle CHON”; 2) particelle con mineralogia silicatica, tipica delle rocce nella crosta terrestre, della Luna, di Marte e di molti meteoriti; 3) particelle composte da un misto dei gruppi precedenti. Le particelle di quest’ultimo gruppo sono di gran lunga le più abbondanti, e sono simili alle meteoriti primitive chiamate condriti carbonacee, eccetto che per l'arricchimento degli elementi CHON. Le misure evidenziarono un eccesso di particelle molto piccole (con una massa fino a 10-17 g) rispetto alle stime attese.

La sonda Giotto determinò anche la concentrazione e la composizione dei gas cometari emessi dal nucleo della Halley: circa 80% di H2O, 10% di CO, 3% di CO2, qualche percento di formaldeide polimerizzata ((H2CO)n), e tracce di altre sostanze. Soprattutto la presenza di formaldeide polimerizzata ha stimolato un notevole interesse verso le comete, come corpi all’interno dei quali sono presenti composti organici complessi in moto all’interno del Sistema Solare.

Più recentemente (22 Settembre 2001), la sonda NASA Deep Space 1 è passata a circa 2200 km dalla cometa gioviana 19P/Borrelly, ad una velocità di 16.5 km s-1, effettuando il secondo fly-by di una sonda spaziale con una cometa. L’incontro di Deep Space 1 è avvenuto quando la cometa era al massimo della sua attività, cioè dopo otto giorni dal passaggio al perielio. Durante il fly-by sono stati acquisiti immagini nel visibile e spettri di riflettanza nell’infrarosso (nell’intervallo 1.3-2.6 µm). Le immagini mettono in evidenza la struttura fortemente elongata del nucleo cometario, avente asse maggiore di circa 8 km.

L’albedo del nucleo risulta molto bassa tra 0.01 e 0.035, rispettivamente per le regioni più scure e più chiare, circa il 75 % di quella della cometa di Halley.

L'abbondanza del ghiaccio d’acqua risulta molto modesta data l'assenza delle bande caratteristiche negli spettri infrarossi. In tutti gli spettri è, invece, osservata una banda a 2.39 µm, forse indicativa della presenza di idrocarburi.

Misure chiave

Misure in situ su comete e 'sample return'

Le missioni verso la cometa di Halley, in particolare la sonda Giotto, consentirono di ottenere, per la prima volta, misure dirette sulle componenti solida e gassosa presenti nella chioma di una cometa e di osservare direttamente la morfologia del nucleo.

La missione spaziale dell'ESA Rosetta (vds. Parte 3, 2.2.1) effettuerà un rendez-vous con la sua cometa bersaglio, sin dalla distanza eliocentrica di 3-4 UA, per poi seguirla fino a dopo il passaggio al perielio. In tal modo sarà possibile rispondere ad una serie di quesiti rimasti insoluti, consentendo di studiare il nucleo ancor prima dell'inizio dei fenomeni emissivi, di seguire l'innesco e lo sviluppo dei processi di espulsione di gas e polvere dal nucleo e di monitorare le variazioni fisiche e chimiche che la chioma ed i suoi componenti principali (gas e polvere) subiranno nell'avvicinamento al Sole. Tutto ciò sarà possibile utilizzando le potenzialità di un complesso di ben 11 esperimenti diversi collocati a bordo del modulo che sarà posto 'in orbita' intorno al nucleo ed al pacchetto di strumenti per analisi in situ che sarà rilasciato sulla superficie del nucleo. Camere e spettrometri sull'orbiter, nonché analizzatori di materiale in situ, forniranno una caratterizzazione globale del nucleo, indispensabile per comprenderne la morfologia e supportare modelli evolutivi. Le analisi daranno indicazioni essenziali sulla composizione chimica, mineralogica ed isotopica dei costituenti principali del nucleo e della chioma. In tal modo sarà possibile tracciare l'evoluzione del materiale oggi presente nel nucleo nei confronti della composizione della nube primordiale da cui si è formato il Sistema Solare. Sarà inoltre possibile studiare i principali processi di trasformazione che i materiali subiscono una volta espulsi dal nucleo, per effetto del processamento indotto dall'esposizione alla radiazione ed alle particelle solari. In tale contesto, lo studio diretto della dinamica di gas e polvere espulsi dal nucleo, e delle loro interazioni, potranno corroborare su base quantitativa una ampia serie di risultati ottenuti da modelli relativi all'evoluzione della chioma interna ed esterna. Certamente Rosetta darà un quadro evolutivo unico delle comete nel loro percorso intorno al Sole. Sarà possibile rivelare segreti circa la formazione stessa del Sistema Solare, giustificando appieno il nome dato alla missione, in riferimento al ruolo analogo svolto dalla stele di Rosetta nello svelare all'umanità il codice interpretativo dei geroglifici egiziani.

Ma il cammino a ritroso verso la conoscenza completa delle nostre origini richiede altri elementi fondamentali che si combinino con le informazioni derivanti da misure in situ. Un ulteriore passo in avanti fondamentale può derivare soltanto dalla disponibilità diretta di campioni provenienti dai corpi minori del Sistema Solare per svolgere indagini di laboratorio a livelli di dettaglio ed accuratezza non raggiungibili con dispositivi automatici utilizzabili su satelliti spaziali. In tale senso, è utile ricordare la mole di preziose informazioni che misure eseguite su meteoriti (di origine asteroidale o planetaria) e/o su particelle interplanetarie stanno fornendo. In tale ambito le missioni spaziali della NASA Stardust e giapponese Muses-C sono programmate per raccogliere polvere cometaria e dalla superficie di un asteroide da analizzare a Terra.

Misure in situ di Asteroidi: la missione Dawn

DAWN (vds. Parte 3, 2.3.2.1) è una missione della NASA, la nona della serie Discovery; il suo viaggio, che avrà inizio nel 2006, la porterà in orbita intorno ai due grandi asteroidi Vesta e Cerere. Gli obiettivi fondamentali di questa missione sono lo studio delle condizioni e dei processi che hanno caratterizzato l’alba del sistema solare e il ruolo dell’acqua nell’evoluzione dei pianeti. Vesta e Cerere sono particolarmente adatti a questo scopo, perché sono i due “protopianeti” più grandi, il cui accrescimento è stato interrotto dalla formazione di Giove, e da allora sono rimasti pressoché inalterati. Questi due corpi hanno seguito percorsi evolutivi molto diversi tra loro: Cerere è molto primitivo e contiene acqua, mentre Vesta, più evoluto, ne è privo.

DAWN ha il potenziale per fare scoperte scientifiche molto importanti e tali da cambiare la nostra visione attuale degli asteroidi e del loro ruolo nel sistema solare. Cerere potrebbe avere processi geologici attivi in grado di formare e sostenere calotte polari di ghiaccio d’acqua, e una esosfera. Vesta potrebbe avere rocce più magnetizzate di quelle marziane, in contrasto con le opinioni attuali sulla formazione delle dinamo planetarie. DAWN trasporta vari strumenti: una camera che prenderà immagini nell’intervallo spettrale da 400 a 1000 nm; uno spettrometro ad immagine ad alta risoluzione in grado di coprire un intervallo spettrale che va dal visibile fino a 5 micron nell’infrarosso; un laser altimetro; uno spettrometro a neutroni e uno a raggi gamma; un magnetometro.

DAWN studierà in dettaglio la struttura interna, la densità e l’omogeneità di questi due corpi complementari, misurandone massa, forma, volume e stato rotazionale attraverso le immagini e l’altimetria laser; misurerà la magnetizzazione residua e la composizione elementare e mineralogica delle rocce, per determinarne storia ed evoluzione. Le immagini della superficie permetteranno di determinarne la storia collisionale e tettonica. I dati sullo stato rotazionale e gravitazionale e le misure magnetiche forniranno indicazioni sulle dimensioni di eventuali nuclei metallici, mentre la spettrometria infrarossa e a raggi gamma darà indicazioni sull’esistenza di minerali contenenti acqua. Tutte queste informazioni ci daranno un “contesto” per le meteoriti associate a Vesta e ci faranno comprendere meglio le origini delle meteoriti primitive che hanno subito processi di alterazione acquosa.

I “Near Earth Objects”

La popolazione dei Near Earth Objects (NEO, cioè gli asteroidi e le comete vicini alla Terra) è piuttosto numerosa, ed è caratterizzata da una grande varietà sia orbitale che fisica. Essa costituisce il 'vicinato spaziale' della Terra, ed il suo studio è di fondamentale importanza per la comprensione della storia evolutiva del nostro pianeta. La loro esplorazione diretta costituisce una tappa fondamentale ed ineludibile della più generale esplorazione del Sistema Solare interno, sia per motivi scientifici che per motivi di sicurezza e sopravvivenza del genere umano, data la possibilità che alcuni di questi oggetti collidano con il nostro pianeta. Date le piccole dimensioni di questi oggetti, la loro scoperta sistematica è in corso da non molti anni, e siamo ancora nella fase in cui la maggior parte della popolazione è ancora da scoprire e da studiare dal punto di vista fisico, in particolare per quanto riguarda gli oggetti, asteroidi e comete, con orbite prevalentemente interne a quella terrestre. Le osservazioni necessarie per la scoperta di questi oggetti sono essenzialmente astrometriche, cioè di posizione sulla sfera celeste. Queste richiedono telescopi a grande campo, per coprire efficientemente il cielo, nonché rivelatori molto sensibili, che devono essere in grado di scoprire con alta efficienza oggetti molto deboli e spesso invisibili da Terra. Una volta scoperti, il raffinamento orbitale può, in parte dei casi, essere effettuato da Terra. In molti casi, comunque, è necessario acquisire ulteriori osservazioni astrometriche dallo spazio, perché la geometria orbitale, che determina le posizioni relative del Sole, della Terra e dell'oggetto, impedisce le osservazioni da Terra. Il telescopio NET (NEO Telescope), che verrà posto a bordo del Mercury Polar Orbiter, uno dei tre elementi della missione cornerstone ESA Bepi Colombo (vds. Parte 3, 2.3.2.2), ha la funzione di scoprire e inseguire oggetti asteroidali e cometari con orbite prevalentemente interne a quella terrestre. Tali oggetti, che rappresentano un pericolo significativo per la Terra in caso d'impatto, sono molto difficili da osservare da osservatori sulla superficie terrestre a causa della loro vicinanza al Sole. La missione GAIA (vds. Parte 3, 2.3.2.3) effettuerà osservazioni astrometriche di altissima precisione di asteroidi della fascia principale e di NEO. Queste osservazioni in molti casi permetteranno di misurare le masse degli oggetti che, combinate con le dimensioni, potranno dare le densità di un campione significativo di asteroidi della fascia principale. Mettendo in relazione le densità con i tipi tassonomici, sarà possibile avere un quadro delle condizioni di accrescimento planetario nel sistema solare interno, nonché della successiva frammentazione catastrofica dovuta alle collisioni.



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